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  • Articolo: La trappola dell’ecofascismo

    Articolo: La trappola dell’ecofascismo

    La trappola dell’ecofascismo https://flip.it/P7mcDk

    IMMAGINE: ADOLF HITLER PASSEGGIA CON IL DIPLOMATICO TEDESCO WALTHER HEWEL NELLE ALPI DI BERCHTESGADEN, NEL 1942. FOTO DI WALTER FRENTZ/WW2GALLERY 21.1.2021

    La trappola dell’ecofascismo

    Appunti sul rapporto ingannevole e pericoloso tra ideologie autoritarie e preoccupazioni ambientaliste.

    L’estate del 2019 verrà ricordata per due attacchi terroristici: gli attentati di stampo islamofobo a Christchurch, in Nuova Zelanda, 50 morti, e la strage ispanofoba di El Paso, in Texas, 22 morti. Avevano un elemento comune evidente a tutti: gli autori erano suprematisti bianchi. Ma c’era anche dell’altro: negli scritti ritrovati dopo gli attacchi, gli attentatori parlavano, tra le altre cose, di ambiente. La stampa cominciò in quei giorni a usare la parola ecofascismo per descrivere l’ideologia che li muoveva. Il manifesto The Great Replacement, la grande sostituzione, diffuso nell’estate del 2019 da Brenton Tarrant, autore della strage di Christchurch, recitava: 

    Non esiste conservatorismo senza natura, non c’è nazionalismo senza ambientalismo, l’ambiente naturale della nostra terra ci ha formato tanto quanto noi stessi abbiamo fatto con esso. Siamo nati dalle nostre terre e la nostra stessa cultura è stata plasmata da esse. La protezione e la preservazione di queste terre ha la stessa importanza della protezione e preservazione dei nostri ideali e del nostro credo.

    Qualcuno si ricordò così del 2017, quando durante i disordini seguiti al raduno razzista dello Unite the Right Rally, a Charlottesville, in Virginia, venne assassinata Heather Heyer, manifestante di una contro-protesta anti-suprematista. Anche in quei giorni erano spuntate dichiarazioni che univano tutela ambientale ed estrema destra. “Abbiamo la possibilità di diventare gli amministratori della natura, o i suoi distruttori” aveva scritto Richard Spencer, esponente della cosiddetta alt-right, nel manifesto ideato per l’occasione.

    Con l’arrivo della pandemia si è tornato a parlare di ecofascismo. Durante i primi lockdown totali, sui social sono diventati virali foto e video (a volte artefatti) della natura che guariva e si riprendeva il pianeta, acque dei fiumi che tornavano limpide e animali che popolavano le strade deserte mentre buona parte degli esseri umani era confinata in casa. “Noi siamo il virus”, era la didascalia di queste foto, un meme diventato quasi subito parodia di sé stesso. Eppure, nonostante fosse nato con intenzioni completamente diverse, in molti hanno notato che, a volerlo prendere sul serio, non esiste slogan migliore di “Noi siamo il virus” per riassumere la violenza dell’ecofascismo e la sua misantropia. La narrazione della natura come soggetto puro che, una volta separato dall’uomo, risorge, è una narrazione feticizzata e pericolosa, proprio perché cancella le componenti sociali, culturali ed economiche. E, come ha scritto Grist, importante rivista statunitense di orientamento ambientalista: “la verità più insidiosa (e scomoda) è che inquietanti filosofie sull’umanità sono sempre coesistite col pensiero ambientalista”. 

    Ma che cosa significa quindi ecofascismo? Non è semplice rispondere. Come con il fascismo eterno descritto da Umberto Eco, anche l’ecofascismo non sembra avere una semplice e univoca definizione, o una caratteristica esclusiva che lo possa definire. Dire cos’è l’ecofascismo non è una questione di dizionari, e oggi diverse fonti, anche diametralmente opposte, sembrano ancora servirsi di questa parola piuttosto liberamente. Per esempio James Delingopole, editor della testata di estrema destra Breitbart, negazionista climatico e scientifico (a inizio della pandemia ha cercato di vendere una cura, da lui “collaudata”, ai suoi seguaci), nel 2013  ha scritto un intero libro per denunciare l’ambientalismo mainstreamdefinendolo, appunto, ecofascista.

    Allo stesso tempo, nell’opposto spettro politico, alcuni ambientalisti hanno parlato di ecofascismo a proposito delle dichiarazioni della primatologa Jane Goodall, intervenuta al Forum economico mondiale del 2019. Goodall aveva detto che gran parte dei problemi ambientali erano dovuti all’aumento della popolazione mondiale e che quindi molti di questi non esisterebbero se il numero di esseri umani sul pianeta fosse quello di 500 anni fa. Per i critici affermazioni come queste rivelano un ingenuo malthusianesimo e, soprattutto, sollevano inevitabilmente domande pericolose: se siamo troppi sul pianeta, chi sarebbe in più? Se consideriamo la distribuzione della natalità, dovremmo concludere che sono di troppo proprio i paesi più poveri, di cui l’Occidente ha sempre sfruttato le risorse. Sono loro a dover essere oggi “contenuti”. Non è difficile immaginare le implicazioni di questo tipo di ragionamenti, ed è per questo che anche le parole di Goodall sono state tacciate di ecofascismo, e quindi criticate anche e soprattutto dal mondo ambientalista. Lo stesso trattamento che è stato riservato alla filosofa Donna Haraway, colpevole di dichiarazioni non dissimili sulla riduzione della natalità, nonostante il suo appello fosse in realtà costruito e argomentato in chiave femminista, antirazzista e anticolonialista. Tuttavia, come ha scritto la professoressa Banu Subramaniam, anche da queste prospettive, il controllo della popolazione non può essere separato dalla sua dimensione coercitiva e dal suo bagaglio razzista e coloniale, ancora attuale.

    Inquietanti filosofie sull’umanità sono sempre coesistite col pensiero ambientalista, ma una definizione semplice e univoca di ecofascismo non sembra esistere.

    A queste difficoltà “tassonomiche” aggiungiamo il fatto che sono in pochi a rivendicare apertamente il termine ecofascismo per descrivere la propria ideologia, o una sua parte. “Un tentativo di definizione di ecofascismo potrebbe essere questo: l’ideologia che affronta i problemi ecologici senza tenere conto dei problemi sociali di tutte e tutti, specialmente dei più deboli. E le soluzioni a questi problemi, o presunte tali, sono quindi autoritarie”. Parla Marco Armiero direttore dello Environmental Humanities Laboratory, KTH Royal Institute of Technology (Svezia). Come storico dell’ambiente Armiero si è occupato anche degli aspetti “verdi” del fascismo italiano. Una linea di ricerca già esplorata alla fine del secolo scorso a proposito della Germania nazista. 

    Eccoci allora di fronte a un ecofascismo che potremmo definire “storico”. Ma possiamo trovare un filo rosso che lega l’ecologismo attuale, o parti di esso, a quello studiato nei due regimi? Ci dovremmo chiedere, come fanno alcuni, se non sia l’ecologismo stesso un prodotto tossico di quel passato? In realtà, mi spiega Armiero, non è così semplice. Per usare un noto paradosso, il fatto che Hitler fosse o non fosse vegetariano e per quali motivi, non ci è di nessuna utilità per capire il vegetarianesimo attuale e le sue motivazioni.

    Camicie nere, retoriche verdi
    I regimi autoritari – racconta Armiero – mobilizzano tutto quello che è intorno a loro, quindi anche le spinte che definiremmo ecologiste. Possiamo a buon diritto parlare di ecofascismo “storico”, ma sarebbe un gravissimo errore credere che nazisti e fascisti avessero una coscienza ecologica così spiccata. La tesi delle radici naziste dell’ecologismo attuale è stata avanzata dalla storica Anna Bramwell alla fine dello scorso secolo. Ma da allora questa interpretazione è stata molto criticata, e per molte ragioni. Per esempio, la Germania aveva già una certa tradizione di protezione del paesaggio, che precedeva anche di secoli l’ascesa del nazionalsocialismo. Che ha, è vero, varato delle leggi apparentemente avanzate in merito, ma lo ha fatto nella misura in cui alimentava il mito propagandistico del sangue e del suolo. E alla fine, nonostante le tante parole di ammirazione per la natura e per i paesaggi bucolici, la Germania nazista era una macchina industriale, al servizio della guerra. Quando l’agognato conflitto arrivò, fu chiaro che non c’era posto per l’ambiente: tra suolo e sangue, era il secondo a contare davvero. Potremmo azzardare qui un paragone col cosiddetto nazismo esoterico, un aspetto che in molti prodotti di fiction (e non solo) è stato presentato come una colonna portante del Terzo Reich nonostante per gli storici i nazisti non fossero affatto ossessionati dall’occulto, come spesso ci piace pensare. Questo valeva forse solo per Himmler e pochi altri, mentre la nozione che il Terzo Reich avesse chissà quale legame con il magico è stata del tutto smentita dai documenti.

    In Italia possiamo fare un discorso simile riguardo al rapporto tra tutela ambientale e fascismo. Anche la nostra dittatura sanguinaria, complice del Führer, è intervenuta sul paesaggio in un modo che, in alcuni casi, almeno superficialmente, potremmo definire ecologista. In Green Rhetoric in Blackshirts: Italian Fascism and the Environment, Armiero e il collega Wilko Graf von Hardenberg (del Max Planck Institute for the History of Science) spiegano che anche i fascisti avevano la loro versione del mito del sangue e del suolo, modellata naturalmente sulle passate glorie di Roma. La natura doveva sì essere protetta, ma anche addomesticata, cioè sfruttata per alimentare il regime e la sua propaganda. Non solo con le celebri bonifiche, una delle “cose buone” che ai revisionisti piace ricordare. Venivano anche imposte grandi infrastrutture idroelettriche e, accanto, interventi di riforestazione il cui vero scopo, però, non era altro che proteggere dall’erosione i lucrosi invasi (e le riforestazioni erano sovvenzionate dalle stesse società idroelettriche). 

    Si può parlare di elementi di ecofascismo nell’ideologia nazista, ma sarebbe un gravissimo errore credere che il regime avessero una coscienza ecologica così spiccata.

    Dopo la Marcia su Roma il fascismo istituì anche dei parchi nazionali, come quello d’Abruzzo, di cui Mussolini appena insediato si intestò il successo. Peccato che, a ben vedere, il lavoro per proteggere quell’area, e gli orsi che ci abitavano, era cominciato ben prima, in epoca liberale. In altri parchi poi il regime continuò a costruire dighe, con gli stessi metodi. Nessuno di questi interventi però teneva in gran conto le relazioni ecologiche, e nemmeno di quelle sociali: il paesaggio doveva essere un’espressione del potere fascista, tanto sulla natura, quanto sulle persone. Per esempio, il fascismo cercò di proteggere i nuovi boschi e il suolo dichiarando guerra all’allevamento di capre, ma quegli animali servivano a chi sulle montagne ci viveva: anche gli abitanti dovevano essere addomesticati.

    Che cosa è sopravvissuto
    Ricondurre la nascita dell’ecologismo moderno al nazifascismo è quindi sbagliato a più livelli. Da un lato, l’ambiente è una questione politica da ben prima del Terzo Reich, o della Marcia su Roma. Nella storia umana sono esistite leggi a tutela dell’ambiente in moltissime civiltà, e anche prendendo in considerazione il solo Ventesimo secolo, non è possibile appiattire la discussione al presunto contributo di questi regimi. In secondo luogo, è dimostrabile come quel tipo di ecologismo, se davvero così si può chiamare, fosse solo un piccolo ingranaggio di una macchina del consenso e della repressione. 

    La domanda però rimane: quel primo ecofascismo ha comunque lasciato qualche pericolosa eredità di cui oggi dovremmo preoccuparci? L’ecologismo può diventare un cavallo di Troia attraverso il quale normalizzare ideologie genocide? Nel saggio di Janet Biehl e Peter Staudenmaier Ecofascismo. Lezioni dall’esperienza tedesca (1995), la tesi degli autori è proprio questa. A cinquant’anni dalla fine della guerra, qualche residuo di quella ideologia strisciava ancora nei discorsi di alcuni partiti e movimenti verdi in Germania, che in tempi non sospetti proponevano già un adagio che sarebbe diventato noto: non siamo né di destra, né di sinistra, siamo davanti. Uno slogan che gli autori del saggio riconoscono come storicamente ingenuo e politicamente fatale, dietro al quale si nascondeva (e spesso si nasconde ancora) l’estrema destra. Inquietanti simili sfumature si potevano trovare nello stesso periodo anche nei discorsi del Front National, in Francia, che provarono a porre il fenomeno migratorio all’interno della cornice della sostenibilità ambientale: non possiamo accoglierli tutti. 

    È possibile allora tracciare un filo rosso che parta, in maniera inequivocabile, da questi esempi a cavallo degli anni Novanta fino ai casi più recenti? Sappiamo del resto che oggi alcune comunità di suprematisti bianchi si sono effettivamente avvicinate al discorso ambientale, e che a volte sono davvero convinte tanto della necessità di mantenere pura la razza quanto dell’urgenza di affrontare il cambiamento climatico. Per esempio, l’ormai noto “Sciamano di QAnon”, Jake Angeli, al secolo Jacob Anthony Chansley, il più fotografato degli invasori del Congresso USA lo scorso 6 gennaio, aveva partecipato anche ad alcune marce per il clima. Vale la pena notare che questa rivelazione è stata immediatamente impugnata da Michael Shellenberger, influencer del negazionismo climatico cosiddetto “morbido”, che accetta il riscaldamento globale antropogenico ma ne minimizza i pericoli. Nei suoi tweet Shellenberger, vicino ai Repubblicani, ha ventilato (senza ironia) l’ipotesi che Jake Angeli fosse un attore pagato. La giornalista scientifica Emily Atking ha puntualizzato: “il tipo con le corna non è un attivista climatico, è un ecofascista”.

    Oggi nuovi gruppi di estrema destra rivendicano un interesse “ecologista”, ma l’ecofascismo rimane una deriva del tutto minoritaria dell’attivismo ambientale.

    Ma possiamo davvero chiamare ecofascismo l’ideologia delle nuove destre, in USA e in Europa? Secondo Armiero è di nuovo importante contestualizzare la loro reale portata. Nessuno dovrebbe aver difficoltà a riconoscere l’ideologia tossica di questi movimenti, e della loro pericolosità abbiamo esempi concreti. “Ma dobbiamo considerare che se Casapound, per esempio, ha un gruppo ‘ecologista’ chiamato ‘Foresta che avanza’, non è certo per questo che è nota. Perché dovremmo preoccuparci dei vari paraventi ambientalisti, quando è così evidente che sono accessori, e per altro sconosciuti ai più? La coscienza ambientale, vera o presunta, nuova o ritrovata, di questo tipo di gruppi è insomma abbastanza irrilevante di fronte a tutto il resto”. L’opinione dello storico è simile a quella della filosofa Serenella Iovino, professoressa di Italian Studies and Environmental Humanities all’Università della North Carolina a Chapel Hill, che via mail mi scrive: “Per quanto mi risulta, l’ecofascismo è una deriva del tutto minoritaria dell’attivismo ambientale, legata a temi come il credo nazista del Blut und Boden e a un’interpretazione molto ‘selettiva’ ed ‘eclettica’ (per mancanza di termini migliori) di alcune idee di Heidegger e di Arne Naess (fondatore della Deep Ecology). Non sono a conoscenza di nuclei ‘ecofascisti’ in Italia (di solito, anzi, i neofascisti nostrani, specie nelle loro simpatie militaristiche, sono abbastanza alieni a preoccupazioni ecologiche).”

    Non si può nemmeno dire che sia una propaganda efficace, a conti fatti. Se guardiamo ai grandi movimenti ambientalisti, o agli stessi partiti “verdi” che ne dovrebbero esserne espressione, il moderno ecologismo è tradizionalmente portato avanti (nel bene e nel male) da sinistra, dice Armiero. Anche quando i Verdi lavorano in parlamento con le destre, come è accaduto in Svezia, non si tratta di destre nostalgiche, o autoritarie. “Sarebbe un grave errore dare a queste realtà un peso maggiore di quello che meritano”.

    Dall’ecofascismo all’ecoautoritarismoTorniamo allora alla definizione provvisoria di Armiero. L’ecofascismo è quando si affrontano i problemi ecologici in maniera autoritaria e senza considerare i problemi sociali di tutti e tutte. In fondo questa definizione, a ben vedere, non ha bisogno di ancorarsi a un preciso precedente storico. Nonostante il nome, l’ecofascismo non necessiterebbe così di trovare le vere e proprie camicie nere che lo esercitano. Forse questo è anche il motivo per cui la parola è usata in maniera incoerente, più per colpire un avversario che per definirlo politicamente.

    Proviamo allora a introdurre un concetto che è spesso del tutto sovrapponibile, ma forse suona meno problematico da usare: ecoautoritarismo. Uno degli esempi più noti riguarda la conservazione della natura negli Stati Uniti. I grandi parchi nazionali americani sono un vanto della nazione, e sono stati un esempio per altri paesi, Italia inclusa. Raramente però ricordiamo che quando cominciarono a essere istituiti, a metà dell’Ottocento, le popolazioni indigene eventualmente presenti non facevano assolutamente parte del disegno. Teddy Roosevelt fece della conservazione una priorità della sua presidenza (1901 – 1909), ma è anche passato alla storia per aver detto Non arrivo al punto di pensare che gli unici indiani buoni siano gli indiani morti, ma credo che nove su dieci lo siano, e non dovrei indagare troppo a fondo sul decimo”. Come ha scritto di recente Prakash Kashwan su The Conversation, oltre un secolo dopo Roosevelt la conservazione della natura, che a livello mondiale è in genere guidata da anglo-sassoni, ha ancora enormi problemi a riconoscere il ruolo delle popolazioni indigene. A questo proposito, basterebbe ricordare lo scandalo degli abusi commessi dalle milizie finanziate dal WWF per proteggere i parchi in diverse zone del mondo: dopo le denunce di Survival International relative alla persecuzione di pigmei Baka in Congo, un’inchiesta di Buzzfeed ha portato alla luce altri casi, offrendo prove che le comunità indigene sono ancora oggi sacrificate nel nome della conservazione. 

    Del resto, come nota Kashwan, gli indigeni nei documentari sulla natura spesso sono invisibili, nella migliore delle ipotesi. Questo rimosso non risparmia nemmeno quelli in cui sono coinvolti mostri sacri della divulgazione, come David Attenborough. Nel documentario Wild Karnataka (2019), da lui commentato, è stata oscurata, dalla narrazione, la presenza delle persone che chiamano casa quelle foreste e che hanno contribuito a creare e proteggere quella natura che vediamo nelle immagini mozzafiato HD del documentario. È la retorica della wilderness, intesa nella sua forma più tradizionale. L’idea ottocentesca ed eurocentrica che esistano grandi spazi incontaminati da preservare, sul modello statunitense, a uso e consumo di chi li esplora per la prima volta. Questo concetto di “natura originaria”, nota Iovino nel libro Filosofie dell’ambiente (Carocci, 2008) è criticato da decenni da filosofi e storici come “un’invenzione”, ma è ancora utilizzato.

    L’ecoautoritarismo è più temibile e diffuso dell’ecofascismo, perché può essere anche (provvisoriamente) lontano dall’estremismo. Può sembrare addirittura ragionevole, persino in contesti democratici. Se l’ambiente che ci sostiene è in pericolo, se siamo in un’emergenza ecologica, non dovremmo essere disposti a soluzioni imposte dall’alto, purché radicali? Armiero mi fa l’esempio della casa che va a fuoco: chiamiamo subito i vigili del fuoco, non facciamo un’assemblea di quartiere. Nel caso dell’ambiente, però, questo decisionismo può diventare pernicioso, perché tende a ignorare, o sopprimere, le lotte sociali a esso collegate.

    L’ecoautoritarismo è più temibile e diffuso dell’ecofascismo, perché può essere anche, provvisoriamente, lontano dall’estremismo; può sembrare addirittura ragionevole.

    8Un possibile esempio di ecoautoritarismo viene allora dall’India, dove il governo ha lanciato un ambizioso programma di ripristino ecologico dei fiumi, che spesso accolgono i liquami prodotti nelle baraccopoli che sorgono sulle loro rive. Si tratta di un grave problema (senza contare il rischio delle piene) che il governo ha deciso di risolvere in maniera muscolare, semplicemente obbligando le persone a sparire da lì, distruggendo le loro abitazioni.

    Durante la conversazione Marco Armiero mi ricorda l’esempio di Chico Mendes, sindacalista e ambientalista brasiliano il cui pensiero è spesso riassunto con la massima “L’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio”. La lotta di Chico Mendes per preservare la foresta Amazzonica andò di pari passo con quella per i diritti dei lavoratori che da quella foresta dipendevano. Lo stesso Mendes era infatti un seringueiro, cioè un raccoglitore di caucciù. Come molti, aveva cominciato a lavorare da bambino e l’istruzione gli era stata negata dagli stessi che lo impiegavano. Ormai adulto imparò a leggere e cominciò la sua attività di sindacalista. Col declino dei prezzi della gomma, infatti, la foresta cominciò a essere bruciata e tagliata e la battaglia dei seringueiros per proteggerla si intrecciò con quella del movimento ambientalista. Mendes introdusse il concetto di riserva estrattiva, cioè aree naturali protette, di proprietà pubblica, ma che non escludono lo sfruttamento economico da parte delle persone, a partire dagli indigeni che ci vivevano dentro. Oggi la parola sostenibilità è abusata, usata come vuota parola d’ordine, ma negli anni Ottanta Mendes aveva davvero capito il suo significato. Era infatti convinto della necessità di diversificare i prodotti estraibili dalla foresta, perché valorizzare una sola risorsa (il legno, per esempio) esponeva ambiente e lavoratori a rischi maggiori. Fu assassinato nel 1988, a 44 anni, dal proprietario terriero Darly Alves da Silva e da suo figlio Darci, che materialmente premette il grilletto.

  • SVILUPPO UGUALE PROGRESSO?

    SVILUPPO UGUALE PROGRESSO?

    Sessanta anni fa non esisteva la raccolta dei rifiuti, non esisteva neppure la parola “rifiuti”. Com’era possibile? Cosa buttiamo oggi nel sacchetto dell’organico?

    ‘l berò

    Le Bucce della frutta, gli scarti della verdura, gli avanzi di cibo. Dobbiamo separali diligentemente, poi vengono trasportati e trattati (si spera) per essere ridotti, dopo mesi, a terriccio. Ai tempi della mia infanzia, avevamo un impianto di riciclo formidabile, “il maiale”.

    La trocca

    Spazzava via tutto e anziché del terriccio avevamo i prosciutti, le “salcicce”, i salami. Al posto dell’operatore ecologico c’era il “pistarolo”.

    I piatti venivano lavati con l’acqua calda della pasta (non esistevano i detersivi né i loro contenitori in plastica, non esisteva proprio la plastica!), l’acqua incorporava gli ultimi residui di cibo e, trasformata in “broda”, finiva nella “trocca” del porco. Il grugnito della cara bestiola sottolineava la sua estasi nel cibarsi di quell’intruglio.  

    Bottiglie di plastica, scatolette, confezioni ecc.. non esistevano. Si comprava un etto di conserva o di sardine o di tonno, da Severì, piuttosto che da Santina o Lisetta; come per la pasta, veniva tutto incartato nella carta oleata o con la carta paglia, la stufa, sempre accesa, provvedeva a trasformarla in cenere.

    La piazza con le botteghe di Santina, Elio e Severì.
    Bucato con la cenere

    E la cenere? Serviva per la “lisciva”, ci si lavavano le lenzuola, e quello che restava era concime per l’orto. Residuo zero. Non c’erano le vaschette del supermercato a contenere la carne. Il pollame veniva “scannato” in casa, con le piume (specialmente quelle d’oca) si riempivano cuscini e materassine. Il coniglio veniva spellato, la pelle messa da parte in attesa di un altro operatore ecologico “il pellaretto”.

    Passava con una cassetta di legno sopra la bicicletta e lanciava il suo grido, noi ragazzini, sempre attenti; ti dava 10 lire per la pelle, se era bianca, meno se scura, normalmente restavano nelle nostre tasche.  Maglie e maglioni, pantaloni (rigorosamente corti sia in inverno che in estate per risparmiare la stoffa) subivano infiniti adattamenti, attraversavano le generazioni, per poi finire dallo “stracciarolo”.

    Il pezzo di sapone con cui si lavavano i “pagni”, era lo stesso usato per il bagno settimanale, dentro la tinozza. Spesso la stessa acqua serviva per due o più bambini (l’ultimo faceva i fanghi, ma avevamo degli anticorpi giganteschi). Chi poteva si faceva il sapone in casa, utilizzando il grasso del maiale.

    Idrolitina - Wikipedia

    In famiglia c’era qualche bottiglia di vetro, quella per la tavola aveva la chiusura con la guarnizione di gomma; serviva per l’Idrolitina del Cavalier Gazzoni. Una polverina che rendeva l’acqua frizzante, si utilizzava solo d’estate, per rinfrescare la gola, non serviva conoscere il modo di schiacciare la bottiglia in Pet prima di depositarla nell’apposito contenitore.

  • Umberto Eco “…del fascismo”

    È uno dei massimi esperti di fascismo transnazionale e di populismo globale, in America Latina e non solo. Professore di storia presso la New School for Social Research e l’Eugene Lang College di New York, nonché direttore del Janey Program in Latin American Studies presso l’NSSR, Federico Finchelstein è autore di numerosi libri e articoli anche su “guerre sporche”, genocidio e antisemitismo in America Latina e in Europa. Collabora con importanti giornali e media statunitensi, europei e latinoamericani, tra cui The New York Times, The Washington Post, Clarin, Folha de S.Paulo e Corriere della Sera. Uno dei suoi ultimi lavori, From Fascism to Populism in History (University of California Press, 2017), in uscita in Italia nel 2019, rappresenta un tentativo di comprensione della realtà attuale attraverso gli strumenti della storia, in particolar modo di quella del fascismo e del populismo. «In una fase in cui, a livello globale, non pochi sono coloro i quali si mostrano sorpresi di fronte all’avvento dei cosiddetti “neo-populismi”, come nel caso dell’affermazione di Donald Trump negli Stati Uniti – racconta Finchelstein – il libro propone una lettura storica che presenta casi precedenti di populismo, soprattutto al potere, e questo, ovviamente, non con l‘obiettivo di prevedere cosa accadrà nel prossimo futuro, ma allo scopo di dotarsi di un parametro utile per leggere e interpretare la realtà del presente».

    Nel suo libro lo storico argentino non dà una definizione di populismo, categoria spesso abusata e utilizzata impropriamente, ma discute con quelle interpretazioni che non terrebbero conto della complessità richiesta dalla storia per la comprensione e la descrizione di questo importante fenomeno politico. «Certo, evidenzio alcune caratteristiche che a mio avviso si ripetono nel corso del tempo, sia in America Latina che fuori. Quindi, quella che emerge è una lista di tratti comuni, centrali nel populismo, sebbene non una definizione vera e propria». Quali sarebbero i tratti tipici del populismo, che si manterrebbero pressoché costanti nel tempo? Fra questi sicuramente «un leader carismatico, messianico, quasi mitico, che presenta sé stesso come colui il quale sa ciò che il popolo desidera, anche quando magari è il popolo stesso a non saperlo; in breve, un leader che si mostra come la personificazione del popolo».

    Un capo che promette – e questa sarebbe un’altra caratteristica ricorrente – di «realizzare finalmente quel “momento” in cui è il popolo a governare, ossia di dar vita ad una sorta di democrazia diretta o quasi». Tuttavia, quello che accade nella realtà, storicamente, è qualcosa di profondamente diverso: «alla fine è sempre il leader quello che governa, che decide, che parla, che impersona il popolo, che detiene materialmente il potere». In altre parole, quel che si produrrebbe costantemente sarebbe un duplice movimento di riduzione: «in primo luogo, il popolo viene sostituito dal leader, che parla e governa a nome di tutti; in secondo luogo, il popolo viene rappresentato come una massa compatta, che ha votato in blocco per il leader in questione e per i suoi sostenitori, anche quando è evidente che non è così». I populismi rappresenterebbero, pertanto, «un popolo che non esiste, e tutti coloro i quali non si riconoscono in questo popolo vengono presentati come dei nemici del popolo, come degli “anti-popolo”, come dei soggetti contrari ai desideri del popolo». Il prodotto finale di tutto questo è un evidente paradosso: «il populismo si manifesta come rappresentanza dell’antipolitica, anzi, di più, come un modo per risolvere una crisi della rappresentanza politica, per favorire una partecipazione più diretta della popolazione al processo decisionale. Ma è proprio questo che, alla fine, non accade mai. E il risultato, se vogliamo, è ancor più antidemocratico, perché l’accostare il popolo al governo sulla base dell’idea che i tradizionali rappresentanti non lo rappresentano – il che, peraltro, nella stragrande maggioranza dei casi, è verissimo –, si conclude con l’unico effetto di individuare un solo rappresentante, o meglio, un soggetto che si ritiene o che si vuole ritenere come la persona alla quale è stato delegato il potere, producendo, pertanto, il passaggio da una rappresentanza molteplice, con tutti i suoi limiti, ad una rappresentanza unificata nella persona del leader».


    Donald Trump, murale, 2017

    Non è un caso se, secondo Finchelstein, sussistono forti elementi di contatto fra populismo e fascismo. «La connessione è prima di tutto storica», racconta. «I populismi esistono sicuramente già nel XIX secolo, tanto in Europa, quanto negli Stati Uniti, quanto in America Latina, come forme politiche finalizzate ad avvicinare il popolo al potere. Ma in quel periodo non riescono ad arrivare al potere, cosa che accade invece nel subcontinente latinoamericano dopo il 1945. L’aspetto interessante è che molti di questi primi populisti che arrivano al governo in diversi paesi della regione, prima del ’45 erano stati fascisti, o comunque vicini al fascismo o compagni di strada del fascismo. Dopo la seconda guerra mondiale quel che accade è che questi fascismi vengono riformulati in chiave democratica. Il risultato di questo processo è, appunto, il populismo, che altro non è che una forma autoritaria di democrazia che non è più fascismo, avendo abbandonato alcune caratteristiche fondamentali di questo, come, ad esempio, la violenza politica e il razzismo, ma che ne conserva delle altre».

    Questo, tuttavia, costituirebbe un tratto tipico dei primi populismi che cercarono di allontanarsi dall’«eredità fascista», mentre «nei populismi di oggi, più recenti, di estrema destra, invece, vediamo l’affermazione dell’idea contraria, ossia l’utilizzo di xenofobia e razzismo per connettere il popolo con il potere, come dimostra chiaramente, fra gli altri, il caso di Donald Trump. Pertanto questi populismi attuali, non dico che si siano riconvertiti in fascismo, ma si avvicinano al fascismo, riprendono alcuni temi forti del fascismo che avevano definito quello che il populismo non era dopo il ’45. Se si guarda al fenomeno in senso ampio, ci troviamo di fronte ad una storia del populismo che, in un primo momento, si allontana dal fascismo, riformulandolo in chiave democratica per ovvi motivi, e, in un secondo momento, oggi, per la precisione, dimostra di voler tornare a quel fascismo». Qual è il rapporto fra populismo e democrazia, quindi?

    «Non esiste populismo senza democrazia, questo deve essere chiaro. Il populismo è una “bastardizzazione” della democrazia, è una forma di democrazia autoritaria, come detto. Nella storia del populismo si contano sulle dita di una mano i casi in cui il populismo distrugge la democrazia. Nella maggior parte dei casi si tratta di dar vita ad una democrazia che non si distingue certamente per essere di tipo costituzionale, ma che risiede nella persona, nei desideri e nei capricci del leader. Ma in generale il populismo non distrugge la democrazia. Anzi, nella storia latinoamericana sono molto spesso le dittature anti-populiste che mettono fine alle democrazie populiste. Quando il populismo non mantiene le regole minime della democrazia non ci troviamo più di fronte ad un caso di populismo, ma ad un regime di tipo dittatoriale».

    Quella di populismo, per Finchelstein, costituisce una categoria importante, quindi, impossibile da ignorare e da escludere dall’analisi, nella misura in cui fa parte dell’esperienza quotidiana degli attori e dei soggetti politici. Guardando al contesto latinoamericano attuale, ad esempio, «se il sedicente “populismo di sinistra” è scomparso quasi ovunque, incluso in Venezuela, dove l’inesistenza, a mio avviso, di uno Stato di diritto impedisce di parlare di populismo, quello che possiamo rilevare, a cominciare dal paese più importante, il Brasile, è l’ascesa di un populismo di estrema destra che si è affermato attraverso campagne mediatiche di tipo quasi nazista». E le prospettive sono tutt’altro che rosee, se si osserva la situazione dal punto di vista della democrazia costituzionale: «in pratica, non sappiamo ancora se Bolsonaro governerà il paese come un leader populista o come un Pinochet. E questo non dipende solo da lui, ma anche dalla capacità della società civile e delle istituzioni di mettere dei limiti ad un personaggio così estremo, che si caratterizza per la sua omofobia, per il suo razzismo e per la sua demonizzazione e odio nei confronti di tutto quello che ritiene essere diverso». Non tanto meglio sembrerebbero andare le cose in altri paesi, come Argentina o Cile, dove non sono presenti governi di tipo populista ma «esecutivi neoliberisti ben caratterizzati dalla presenza di una tecnocrazia che ritiene di sapere quello che il mercato vuole».

    Brasilia, Jair Bolsonaro durante la nomina presidenziale, 2018

    Non bisogna dimenticare, infatti, che sono proprio questi governi di tecnocrati ad essere, in molti casi, «causa ed effetto del populismo, nella misura in cui questi, una volta al potere, non ascoltano tanto la voce di quei cittadini che hanno contribuito ad eleggerli, quanto quella del mercato, e il soggetto mercato, in questa prospettiva, è antidemocratico: non lo ha “votato” nessuno, ma finisce per incidere sulle decisioni di un esecutivo eletto democraticamente e che, invece, rappresenta gli interessi particolari di una parte molto ristretta della società. E cosa accade, quindi? Accade, molto spesso, che queste “tecnocrazie” creino terreno fertile per la diffusione di leader populisti che vogliono o dicono di voler avvicinare il popolo al potere, ma che finiscono, come detto, per essere governo di una sola persona o di un gruppo altrettanto ristretto».

    Come riconoscere un contesto favorevole alla diffusione del populismo, quindi? Il populismo si presenterebbe sempre «come la risposta a una crisi della rappresentanza politica ed economica. Questa crisi può essere reale, concreta, o anche solo una percezione e, pertanto, immaginaria. Ad esempio, negli Stati Uniti la situazione economica non era negativa al momento in cui è stato eletto Trump. Anzi, in una situazione di crisi reale, sul piano economico, venne eletto Obama, che di certo non era un leader populista, mentre in un contesto di andamento tutto sommato positivo dell’economia è stato eletto Trump, che ha utilizzato una “crisi”, economica, politica, sociale, che non esisteva, per trarne un vantaggio sul piano retorico e propagandistico. Ma per quelli che lo hanno eletto questa “crisi” esisteva».

    Oggi, quindi, in Europa, come in America Latina, come negli Stati Uniti ci troviamo di fronte ad un rischio di deriva autoritaria? «Sì, ma questa deriva autoritaria ha a che vedere a volte con il populismo e a volte con governi che, allo stesso modo, si allontanano dall’essere reali rappresentanti degli elettori, della cittadinanza, per farsi rappresentanti di realtà come quella del mercato. È sicuro che il populismo implica una nozione autoritaria della democrazia, ma bisogna pensare che la stessa democrazia che esiste al di fuori o prima dei populismi tantomeno costituisce un tipo di democrazia ideale, anzi, presenta anch’essa dimensioni antidemocratiche molto importanti e per niente da sottovalutare. Come se ne esce? Di fronte ad una crisi di rappresentanza, che né i tecnocrati né i populisti risolvono, convertendosi, anzi, in governi che pensano a portare avanti i propri interessi o quelli di pochi, sono necessarie opzioni politiche maggiormente connesse con i bisogni, le esigenze e gli interessi reali dei cittadini».

  • Comprendere l’ondata secessionista globale

    Comprendere l’ondata secessionista globale

    Interpretazioni spesso ardite del diritto all’autodeterminazione dei popoli, insieme all’azione di forze politiche ed economiche globali, stanno destabilizzando molte regioni del mondo. Nelle ultime settimane, i governi regionali della Catalogna in Spagna e del Kurdistan in Iraq hanno tenuto referendum non autorizzati sulla propria indipendenza. E in Camerun, i gruppi separatisti della regione inglese di Ambazonia hanno dichiarato unilateralmente l’indipendenza dalla parte francofona del paese.

    Nel frattempo, la Scozia sta valutando se tenere un altro referendum per poter continuare a far parte dell’Unione Europea una volta che la Brexit dovesse concretizzarsi. E decine di altre regioni con potenti forze separatiste – tra cui le Fiandre in Belgio, Biafra in Nigeria, Somaliland in Somalia e Québec in Canada – stanno osservando l’evoluzione di questi eventi con attenzione e si tengono pronte all’azione a loro volta.

    L’autodeterminazione dei popoli è stata una forza trainante della geopolitica del ventesimo secolo, portando alla creazione di molti nuovi stati dopo le due guerre mondiali e poi ancora dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Quando le Nazioni Unite furono fondate nel 1945, vi erano solo 51 Stati membri; oggi, 193. Ma la strada verso l’indipendenza è di solito sanguinosa, violenta e lunga, come mostra l’esperienza africana caratterizzata da guerre civili e conflitti etnici. La pacifica divisione della Cecoslovacchia nel 1993 o della Norvegia e della Svezia nel 1905 sono le eccezioni alla regola.

    All’alba del ventunesimo secolo, la maggior parte delle aberrazioni storiche che il colonialismo e l’imperialismo sovietico avevano imposto sulla mappa del mondo erano state riassorbite e la spinta globale per l’autodeterminazione sembrava perdere vigore. Mentre tra il 1981 e il 1997 furono fondati quasi 30 nuovi paesi, dal 2000 ad oggi ne sono emersi solo 5. Con la globalizzazione, che aveva portato all’omogeneizzazione culturale, politica e economica, si era creata la percezione che le distinzioni regionali non contassero più. Il mondo era entrato in quello che il filosofo Jürgen Habermas definiva l’età dell’”identità post-nazionale”.

    Il riemergere del secessionismo oggi è quindi inatteso; ma non deve sorprendere. In molti casi, la democrazia diretta ha sostituito la forza militare come principale strumento di lotta. Persino Putin ha cercato di annacquare l’illegalità dell’invasione e dell’annessione della Crimea nel 2014 nella legittimità spuria di un referendum. Dalle democrazie mature come il Regno Unito alle democrazie fragili come l’Iraq, l’autodeterminazione sta alimentando nuove forme di micro-nazionalismo, alcune più legittime di altre.

    Visto il grande numero di movimenti secessionisti attivi e dormienti in giro per il mondo, l’importanza dell’irredentismo per il secolo attuale non può essere sottovalutata. Molto probabilmente continuerà a giocare un ruolo importante. Le analisi dei commentatori di Project Syndicate relative ai recenti eventi in Spagna, Iraq e sono di vitale importanza per capire quando la secessione sia davvero legittima.

    Il diritto a uno stato proprio
    L’autodeterminazione dei popoli, spiega Joseph S. Nye dell’Università di Harvard, “è generalmente definita come il diritto di un popolo a costituire il proprio stato” – un diritto introdotto nel 1918 dal presidente americano Woodrow Wilson e ancora sancito dalla Carta delle Nazioni Unite del 1945. Se da un punto di vista concettuale, l’idea dell’autodeterminazione è auto-esplicativa, la sua realizzazione pratica è alquanto complessa. Come osserva Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations, “non esiste un insieme di standard universalmente accettato da applicare a leader e popolazioni che cercano di autodeterminarsi”.

    Gli stati nazionali rimangono i pilastri del sistema internazionale, e quindi la loro disintegrazione solleva inevitabilmente timori di destabilizzazione globale o regionale. Ma, come sottolinea Peter Singer dell’Università di Princeton, “violazioni diffuse dei diritti umani, causate o tollerate da un governo nazionale, possono dare origine a ciò che a volte viene chiamato un diritto rimediale alla secessione per gli abitanti di una regione”. In questi casi, che includono la separazione del Bangladesh dal Pakistan nel 1971 o la dichiarazione di indipendenza da parte della Serbia del Kosovo con l’appoggio della NATO nel 2008, “la secessione potrebbe essere giustificata come ultima risorsa, anche se impone grossi costi sullo stato di cedimento”.

    Quando invece non vi sia alcuna prova che una minoranza culturale o etnica sia oppressa, la secessione può avvenire solo attraverso un accordo negoziato, consensuale e legale tra la popolazione in partenza e lo stato che stanno lasciando. Nel minuscolo Liechtenstein, la costituzione effettivamente consente ai singoli comuni di separarsi dall’unione. E nel 2014, osserva lo storico Robert Skidelsky, “il primo ministro britannico David Cameron è stato costretto a consentire un referendum sull’indipendenza” in Scozia, in modo da “mantenere la governabilità” nella regione a seguito della vittoria parlamentare del Partito nazionale scozzese nel 2011.

    Tuttavia, queste sono eccezioni. La stragrande maggioranza delle costituzioni nazionali non consente la secessione. Nel 1998, ad esempio, la Corte Suprema del Canada ha dichiarato che il governo canadese sarebbe obbligato a negoziare con il Québec se gli elettori della provincia esprimessero un desiderio inequivocabile per l’indipendenza attraverso un referendum; ma ha anche stabilito che il Québec non ha il diritto di separarsi in modo unilaterale. E in alcuni paesi, tra cui la Turchia e la Spagna, il principio dell’integrità territoriale è esplicitamente sancito nella costituzione.

    Come tale, osserva l’ex ministro degli esteri spagnolo Ana Palacio, “un referendum sulla secessione” in Spagna “non può procedere legalmente senza compromettere l’ordine costituzionale che il paese ha costruito negli ultimi 40 anni, dalla morte del dittatore Francisco Franco nel 1975. “E inoltre, Palacio sottolinea che la Costituzione spagnola mira a” proteggere i diritti umani, la cultura, le tradizioni, le lingue e le istituzioni dei “popoli spagnoli”. “A causa di questo impegno costituzionale, ora c’è” un complesso di diritto che concede un’autonomia regionale, in particolare per la Catalogna, con importanti poteri trasferiti al governo regionale catalano “.

    Decidere chi decide
    Il referendum per l’indipendenza catalana del primo ottobre non era solo incostituzionale; era anche apertamente antidemocratico. Il governo regionale catalano ha adottato una “legge di disconnessione” senza consentire una corretta discussione sulle implicazioni dell’indipendenza. Peggio ancora, non ha neanche fissato una soglia minima per la partecipazione al referendum. Il risultato è stato de facto una dittatura della minoranza. “Solo il 43% della popolazione catalana ha votato al referendum”, osserva Shlomo Ben-Ami del Toledo International Center for Peace. Il fatto che “anche il sindaco di Barcellona, Ada Colau, sostenitore di stato, ha messo in discussione come fondamento per un piano unilaterale dichiarazione di indipendenza.”

    La situazione catalana – dove il presidente del governo regionale, Carles Puigdemont, ha dichiarato e sospeso l’indipendenza – sottolinea un paradosso centrale dell’autodeterminazione. Anche un voto non democratico e incostituzionale può avere implicazioni politiche enormi se i protagonisti lo dipingono come un’espressione della “volontà popolare”.

    Tuttavia, come osserva Singer, mentre un referendum è in realtà “una forma di persuasione rivolta al governo dello stato esistente”, può avere un effetto persuasivo solo con una “grande partecipazione che mostra una netta maggioranza per l’indipendenza”. Di conseguenza, nessuno può aspettarsi che la Spagna permetta alla Catalogna di staccarsi. Secondo Ben-Ami, “è ormai molto probabile che il governo centrale invochi l’articolo 155 della Costituzione spagnola, che gli permette di prendere il controllo diretto della Catalogna”.

    Anche se una super-maggioranza dei catalani avesse votato per la secessione, una questione fondamentale sarebbe rimasta. Come Nye si domanda: “chi ha il diritto di autodeterminarsi?” La risposta dipende da dove e anche quando le persone si determino. Negli anni ’60, quando i “somali nel Kenia nord-orientale” cercavano l’indipendenza, “volevano votare immediatamente”, mentre il Kenya, “ che per effetto del periodo coloniale era formato da decine di popoli o tribù”, avrebbe voluto “aspettare 40 o 50 anni per cercare di formare un’identità keniana a discapito delle vecchie etnie locali”.

    “Un altro problema”, secondo Nye, “è come tenere in considerazione gli interessi di coloro che rimangono indietro”. Si consideri l’esempio di Scozia ricca di petrolio, il cui distacco avrebbe causato notevoli danni economici al resto del Regno Unito. È ragionevole che tutti i britannici, e non solo gli scozzesi, debbano esprimere la propria opinione sull’indipendenza scozzese. E Singer ci ricorda che proprio questo è accaduto “quando i popoli della Nigeria orientale hanno deciso di separarsi e formare lo stato di Biafra negli anni ’60.” Considerando che “il Biafra inglobava gran parte del petrolio della Nigeria,” altri nigeriani “sostenevano che l’oro nero appartenesse a tutte le persone della Nigeria, non solo nell’area orientale “.

    Valutando la fattibilità
    Per essere legittima, una secessione deve tanto identificare il gruppo che sia autorizzato a fare una simile richiesta e rispettare il dettato costituzionale e le norme internazionali quanto preservare “la vitalità dello stato da cui si stacca e la sicurezza degli stati limitrofi”, scrive Haass.

    Per Volker Perthes del German Institute for International and Security Affairs, la sicurezza degli stati confinanti è una preoccupazione particolarmente rilevante nella questione dell’indipendenza dei curdi iracheni. “L’indipendenza curda potrebbe incoraggiare le richieste di autonomia nelle province a maggioranza sunnita che confinano con Siria, Giordania e Arabia Saudita”, scrive. E “rimuovendo il terzo elemento costitutivo – oltre agli arabi sciiti e sunniti – della politica irachena”, potrebbe aggravare la pericolosa “polarizzazione settaria” di quel paese.

    Ma altri respingono tali valutazioni aprioristiche della situazione kurda. Il filosofo francese Bernard-Henri Lévy ritiene che uno “stato-curdo rappresenterebbe una” città brillante su una collina “, una luminosa stella polare per i figli e le figlie persi del Kurdistan, e una fonte di speranza per tutti gli sfollati del mondo .”Allo stesso modo, Ben-Ami afferma che uno Stato kurdo non avrebbe solo” una reale possibilità di prosperare “, ma potrebbe anche” combinare la ricchezza delle risorse naturali con una tradizione di governance stabile e pragmatica, creando così una democrazia sostenibile “in una regione altamente volatile.

    Infatti, per Haass, la vitalità economica e politica dovrebbe essere un altro requisito preliminare per la secessione, in quanto il mondo ha già abbastanza stati falliti che destabilizzano le regioni circostanti. Nel 2011, il Sud Sudan era moralmente giustificato ad ottenere il proprio stato dopo decenni di oppressione.

    Ma le sue istituzioni politiche ed economiche erano così fragili che dopo neanche tre anni il paese era piombato in una sanguinosa guerra civile. Il conflitto nel Sud Sudan ha generato più di due milioni di rifugiati, frustrando le aspettative di Charles Tannock, membro del Parlamento europeo: “Un Sud Sudan indipendente obbligherebbe l’Occidente a fronteggiare le ortodossie relative all’Africa”. In particolare, l’esperienza del Sud Sudan tende a confermare “la convinzione che paesi come la Somalia e la Nigeria siano più stabili di quanto non sarebbero se fossero divisi in tante parti”.

    L’importanza del riconoscimento internazionale
    La sfera economica e politica di un paese dipende dal fatto che la sua indipendenza sia riconosciuta a livello internazionale. Gli Stati non riconosciuti, senza peso nel processo decisionale globale e incapaci di accedere ai mercati internazionali, tendono a collassare. Ecco perché, dieci anni fa, l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fisher temeva che il mancato accesso del Kosovo ai prestiti sovrani della Banca mondiale o del Fondo Monetario Internazionale avrebbe potuto causare problemi, non solo per il Kosovo ma anche per l’UE, con la quale “il destino del Kosovo è intrecciata”.

    Ma la comunità internazionale è sempre meno propensa ad accettare nuovi membri. Dato che meno di un decimo dei paesi del mondo sono culturalmente omogenei, una secessione sancita a livello internazionale potrebbe incoraggiare i secessionisti di tutto il mondo. Come ha affermato Raju Thomas dell’Università Marquette nel 2007, “permettere al Kosovo di ottenere l’indipendenza dimostrerebbe che il secessionismo violento funziona”. In questo caso, ha concluso, “il mondo dovrebbe abituarsi a vedere la strategia del Kosovo applicata altrove “.

    In questo senso, Palacio esorta i leader mondiali e soprattutto europei a “resistere alle invocazioni dei separatisti catalani per la mediazione internazionale”. Chiede di non iniziare nessuna forma di dialogo che convalidi l’elusione da parte del governo catalano della costituzione spagnola. “Niente di meno che il futuro dello Stato di diritto e della democrazia costituzionale in Spagna – e altrove – dipende da essa”, insiste. Dopo tutto, in un continente con 250 regioni definite da identità culturali, etniche o storiche, una indipendenza in Catalogna potrebbe scatenare un effetto domino, creando un’Europa dei mini-stati dove il processo decisionale sarebbe ancora più difficile di quanto già non sia.

    Naturalmente, la questione del riconoscimento diplomatico dei secessionisti ha più a che fare con meri calcoli di interesse nazionale piuttosto che con il rispetto di principi morali o legali. Quindi non sorprende che altri leader europei, preoccupati per i propri movimenti secessionisti, abbiano considerato la crisi catalana un problema di carattere squisitamente interno per la Spagna. Allo stesso modo, qualora il referendum scozzese del 2014 fosse passato, gli scozzesi (che sono storicamente sostenitori del progetto europeo) si sarebbero trovati al di fuori dell’Unione Europea, perché la Spagna avrebbe imposto il suo veto sull’adesione di Edimburgo, al fine di dissuadere la Catalogna dal provarci a sua volta.

    Anche nel caso dei curdi che chiaramente hanno diritto a uno stato, l’istinto di molti governi è quello di osteggiare il movimento indipendentista. Sotto il presidente americano Donald Trump, osserva Ben-Ami, gli Stati Uniti si sono opposti al referendum per l’indipendenza kurda sulla base del fatto che “avrebbe destabilizzato l’Iraq” e supportato “ i ribelli anti-governativi della Siria”. Allo stesso tempo, però, Trump ha anche dimostrato di essere disposto ad accettare l’annessione della Crimea da parte della Russia nel marzo 2014, anche se a dire di Jeffrey D. Sachs della Columbia University costituisce “una grave e pericolosa violazione del diritto internazionale”.

    Le cause del secessionismo
    Spinte verso la frammentazione politica in tutto il mondo stanno avvenendo per ragioni diverse. In Medio Oriente e in Africa, il secessionismo è guidato da lotte contro l’oppressione autocratica, e da appelli alle identità locali. Nelle ex repubbliche dell’Unione Sovietica, i movimenti di autodeterminazione sono in gran parte una manifestazione della politica delle grandi potenze, con un revanscista Cremlino che incoraggia l’irredentismo in Crimea, Abkhazia, Donetsk e Ossezia del Sud e minacciando di farlo altrove. E nell’Europa occidentale, i movimenti regionali per la secessione sono crollati in gran parte in risposta alle forze economiche strutturali e cicliche.

    In Europa occidentale, regioni ricche come la Catalogna e le Fiandre sono impazienti di sovvenzionare le regioni più povere; e il loro risentimento è cresciuto dopo la crisi finanziaria globale del 2008. Scrivendo nel 2008, Ian Buruma, ora redattore della New York Review of Books, ha avvertito che il Belgio stava quasi collassando, a causa di un rinvigorimento etnico che “l’unità europea del dopoguerra avrebbe dovuto contenere. “I belgi francofoni hanno avviato la Rivoluzione Industriale Europea nel diciannovesimo secolo “, osserva. Ma “ora vivono un senso di rancore che necessita di sovvenzioni federali, una notevole quantità che deriva dalle tasse pagate dai fiamminghi più floridi e tecnologici”.

    Skidelsky ritiene che anche il referendum scozzese sia stato spinto dalla crisi finanziaria e dalla conseguente Grande Recessione, che ha aiutato la SNP ad ottenere la maggioranza parlamentare. Ma non bisogna pensare che i secessionisti europei siano motivati solo da fattori economici. Forze strutturali come la globalizzazione e il processo di integrazione europea hanno svolto un ruolo importante. Secondo Buruma, l’UE, promuovendo attivamente “gli interessi regionali, ha indebolito l’autorità dei governi nazionali”.

    Alberto Alesina dell’Università di Harvard ha sostenuto una simile idea quasi 20 anni fa: una forte integrazione economica, attraverso la rimozione delle barriere commerciali, riduce i costi di indipendenza e pregiudica la logica per le grandi giurisdizioni che compongono popolazioni eterogenee. “Con il libero commercio internazionale”, secondo Alesina, “i gruppi etnici, linguistici e religiosi possono trovare più conveniente separarsi se non devono sopportare i costi di trovarsi all’interno di un’economia e un mercato troppo piccolo. ”

    All’inizio di quest’anno, in un articolo per Foreign Affairs, ho sottolineato che i catalani e gli scozzesi capiscono perfettamente questa logica. Entrambi vogliono rimaner parte del mercato unico europeo e allo stesso tempo vogliono allontanarsi dal controllo centralizzato dei rispettivi governi nazionali. Inutile dire che questo è l’opposto di ciò che i fondatori dell’UE pensassero. Credevano che l’integrazione europea avrebbe diluito la sovranità nazionale dall’alto. Non prevedevano una minaccia dal basso per i vecchi stati nazionali. Oggi, i leader europei sono davanti a un dilemma: più spingono per l’integrazione politica ed economica, più rinvigoriscono il secessionismo regionale.

    Cosa attendersi
    Con le forze globali e locali che continuano a guidare il micro-nazionalismo, è probabile che nel prossimo futuro qualche regione diventi indipendente – in modo pacifico o violento. Un Kurdistan sovrano, in particolare, non è più un’idea irrealistica e potrebbe porre la parola fine all’ordine artificiale Sykes-Picot che gli inglesi e i francesi crearono dopo il crollo dell’Impero Ottomano.

    Ma, a differenza dell’era post-coloniale, gli stati di nuova costituzione faticherebbero a trovare sostegno internazionale. Al contrario, la maggioranza dei governi utilizzerebbe tutti i mezzi a propria disposizione, dal boicottaggio economico alla forza militare, per preservare l’unità nazionale. I regimi autoritari hanno la tendenza a reprimere con la forza i gruppi secessionisti, come sta accadendo in Camerun con Ambazonia e in Nigeria con il Biafra. Le democrazie ben consolidate, invece, ricorrono ai dettami costituzionali per prevenire la disintegrazione territoriale, come avviene ora in Catalogna.

    Tuttavia, la repressione dei gruppi separatisti dovrebbe essere l’ultima soluzione, soprattutto per i governi occidentali. Idealmente, i governi devono intervenire molto prima che gli elettori diventino radicalizzati. Si possono addolcire le istanze secessioniste attraverso trasferimenti finanziari, tasse speciali accordi o poteri devoluti. Come osserva Barry Eichengreen dell’Università della California, Berkeley, è importante, però, che i governi centrali mantengano il controllo della politica fiscale e monetaria, oltre alla supervisione della difesa e della politica estera.

    Quando le ambizioni separatiste sono ben radicate come in Catalogna, nelle Fiandre o in Scozia, i governi centrali dovrebbero considerare la rinegoziazione dei termini del rapporto, concedendo una maggiore autonomia. Ancora, Victor Lapuente Giné dell’Università di Göteborg ricorda che entrambi le parti della disputa spagnola si trovano ad affrontare “quello che gli scienziati politici chiamano un dilemma sociale: entrambi beneficiano dal comportamento egoistico a meno che l’altro lato si comporti a sua volta in modo egoistico, nel qual caso entrambi perdono. “Dopo tutto, un divorzio sarebbe costoso sia per la Catalogna e per la Spagna.

    Più in generale, l’ex ministro greco delle finanze pubbliche Yanis Varoufakis invita l’UE a “sviluppare un nuovo tipo di sovranità, che rafforzi le città e le regioni, dissolva il particolarismo nazionale e rispetti le norme democratiche”. Per Varoufakis, la “brutta crisi” catalana dovrebbe essere considerata “un’occasione d’oro per riconfigurare la governance democratica delle istituzioni regionali, nazionali e europee, portando così all’emergere di un’Unione Europea difendibile e quindi sostenibile”.

    In un modo o nell’altro, l’autodeterminazione dei popoli giocherà un ruolo importante nella storia del ventunesimo secolo, proprio come in quello precedente. Per garantire che non diventi nuovamente una fonte di instabilità e distruzione, i governi devono cercare di attenuarlo in anticipo. Possono pagare adesso, oppure possono pagare un prezzo ben più elevato in futuro.

    Edoardo Campanella

  • Il 25 aprile visto da vostro nonno Ermanno

    Cari nipoti, continuerete per tantissimi anni della vostra vita a incontrare questa data.

    Non è facile raccontarvi quello che significa per me, perché, quelli che vi diranno che è divisiva, si dimenticano di aggiungere che prima di tutto divide le coscienze. Chi, come me, non ha vissuto in prima persona il periodo fascista e la guerra, compresa quella civile, deve la propria memoria ai racconti dei padri e dei nonni.

    I miei erano antifascisti, così li ho percepiti da ragazzo, c’erano i racconti delle “squadracce” che avevano purgato il marito di Natalina, quelli di mio padre che si nascondeva nel forno per non farsi prendere e spedire a Salò, delle spiate che i fascisti del luogo facevano ai tedeschi, la “buca” in cantina dove andava a nascondersi, il racconto della donna impazzita assistendo alle torture inflitte da nazi-fascisti ai martiri di Jesi.

    I ricordi erano vivi, le persone erano vive.

    Con il passar del tempo ho conosciuto tanti “ex figli della lupa”, tirati su al grido di “credere obbedire combattere”. Nei loro occhi ho visto un lampo di orgoglio per aver vissuto quell’epoca, solo dopo ho scoperto che era semplice nostalgia per gli anni, ormai passati, della loro giovinezza. Poi ho conosciuto, sempre in questa nostra piccola comunità, i “riciclati”, quelli che da fascisti avevano cambiato pelle e diventati “democristiani”, passando da cinturone e camicia nera, all’abito buono. Ho conosciuto i rancorosi, piccoli uomini ai quali il fascismo aveva regalato una “posizione sociale” che non avrebbero mai raggiunto senza la prepotenza del regime. Quelli alla “Gabriele D’Annunzio”, che col fascismo vedevano realizzato il loro desiderio di avventura. Non ho visto negli anni postbellici, né rancore, né livore né volontà di vendetta nei confronti di nessuno di questi ex. Con tanti ho scambiato idee, chiacchiere, ricordi. Finita la guerra ha vinto il carattere mite della nostra gente.

    In maniera molto diversa ho percepito, il periodo della resistenza.

    La repubblica di Salò era lontana, il fronte stava attraversando il paesello senza fare grossi danni, notizie di stragi nei comuni intorno, di famiglie bruciate vive dai tedeschi perché aiutavano i partigiani, morti che parlavano con voci lontane. Solo andando a scuola a Jesi ho capito che non dappertutto la pacificazione era stata così facile.

    Poi, dopo un’infinità di letture, mi sono costruito un mio personale concetto su cosa significasse la parola “resistenza” . In estrema sintesi vorrei farvi capire due aspetti; quello storico, dove a seconda di chi scrive, la resistenza assume un peso ed una dignità diversa, e questo lo valuterete da soli, l’altro è quello “FONDATIVO”. Su questo non si scherza, non esiste revisionismo che tenga, è il pilastro su cui poggia la Repubblica, questo non è trattabile. Non importa quanti continueranno a parlare dei mitici tempi di Mussolini, quanti racconteranno dei misfatti dei partigiani, quanti parleranno del mito della resistenza in maniera negativa. Andrete a votare secondo le vostre idee, voterete per la sinistra o la destra, sarete moderati o radicali, ma non dimenticate mai quelli che vi hanno permesso questa libertà di scelta. E’ questo principio che si festeggia il 25 aprile, è fuso all’interno della bandiera italiana. Capirete leggendo e studiando, quanto questo abbia contribuito a non farci cadere tra le braccia di altre dittature.

    Giorgio Pisanò disse a Vittorio Foa: ‘Ci siamo combattuti da fronti contrapposti, ognuno con onore, possiamo darci la mano’. Foa gli rispose: ‘E’ vero abbiamo vinto noi e tu sei potuto diventare senatore, avessi vinto tu io sarei ancora in carcere’.

    Ciao monelli.

  • In questo modo Mosca finanziava il PCI

    In questo modo Mosca finanziava il PCI

    ROMA – Ventitré milioni e 300 mila dollari in sette anni. Dal ’70 al ’77 questa è la cifra versata dai sovietici ai comunisti italiani, secondo quanto si ricava dal “rapporto Impedian numero 122” del dossier Mitrokhin. Ventitrè milioni di dollari, con un andamento irregolare negli anni, corrisposti nel giardino della villa dell’ambasciatore dell’Urss a Roma nelle mani, in una prima fase, di Anelito Barontini, funzionario del partito e uomo al quale Armando Cossutta, che sovraintendeva al flusso finanziario delegava le delicate funzioni.

    E’ Cossutta che tiene i conti, Cossutta che chiede di aumentare i finanziamenti (nel 1970, poi nel 1974), sempre Cossutta che viene convocato all’ambasciata da Rizhov, l’ambasciatore, funzionario del comitato centrale del Pcus, e da Genrikh Pavlovich Smirnov, primo segretario dell’ambasciata, funzionario del dipartimento internazionale del Pcus al momento in cui i dollari giungono in Italia. Chi riceve i soldi (Barontini) firma le ricevute e va.

    L’informativa descrive meticolosamente le modalità del trasferimento del danaro. Da Mosca arriva al “Centro” del Kgb romano la notizia della disponibilità della somma. L’ambasciatore o il primo segretario lo comunica a Cossutta. L’esponente politico allerta Barontini, in codice col nome “Klaudio”, che deve effettuare la delicata missione di trasporto. Si legge dal rapporto: “Si trattava di un metodo da lungo tempo sperimentato. Si riteneva poco intelligente coinvolgere il residente del Kgb nel caso esistessero dei funzionari del controspionaggio nei ruoli guida del Pci”. Si voleva dunque evitare l’ipotesi, quantunque remota, di essere intercettati da funzionari di Botteghe oscure al servizio del controspionaggio italiano e perciò nemici. E allora si conveniva di realizzare l’operazione secondo modalità sperimentate, che il rapporto illustra: “L’operazione (avveniva) in serata nei giardini della villa dell’ambasciata sovietica. “Klaudio” doveva entrare in macchina nei giardini dopo aver effettuato controlli di controsorveglianza”. Bisognava infatti “concludere l’operazione nella villa e non in città”, perchè dava meno nell’occhio, “era normale per funzionari del Pci capitare nella villa …”. “Klaudio” raggiungeva l’ambasciata da solo alla guida, con una macchina di scorta del partito che lo seguiva e che provvedeva a tutelare la sua incolumità fino alla destinazione finale.

    Ciò nonostante i sovietici ritengono ad alto rischio l’operazione. Nel ’76 il Kgb, in un incontro con Guido Cappelloni, si decidono altri sistemi per garantire la sicurezza e la riservatezza del trasbordo. Il luogo convenuto non è più l’ambasciata, ma zone presumibilmente esterne alla residenza diplomatica. L’area viene bonificata congiuntamente da sovietici e italiani: due auto, una del Kgb e l’altra di Botteghe oscure fanno opera di “controsorveglianza”. Malgrado l’aumento dell’attenzione il Kgb insiste perchè la frequenza della consegna dei dollari sia ridotta a 2-3 volte l’ anno, invece che ogni due mesi. E’ Vladimir Zagladim, uomo del Pcus, a indicare le diverse modalità di pagamento, garantendo che il saldo finale di quanto convenuto non muta.

    Anche i sovietici vengono burlati dai falsari. Nel 1969 (ma il rapporto non indica la somma stanziata in quell’anno) e nel 1972 molti biglietti da 100 dollari risultano falsi. Ci sono i soldi, ma ci sono anche le aziende con una sostenuta attività di export. Infatti in quegli anni il rapporto finanziario con Mosca si articola anche in varie società commerciali, partecipate dal Pci, che hanno in Urss quote importanti del fatturato. Attività descritte così nel dossier: “Distribuzione di petrolio dall’Urss all’Italia attraverso il gruppo Monti; acquisto di tre trasportatori di ammoniaca dalla società Efim-Breda; costruzione di alberghi in Urss; fornitura di componenti atomiche; cooperazione ad ampio raggio con la società Finmeccanica…”. Anche i socialisti del Psiup hanno chiesto e ottenuto attenzione economica dal Kgb. Quasi quattro milioni di dollari (rapporto numero 126), tra il 69 e il 72, sono giunti nelle casse del Partito socialista di unità proletaria, consegnati a Francesco Lami, nome in codice “Aleksandr”. La fonte è un ex agente, “di provata affidabilità”. E, con il Psiup, pure i comunisti di San Marino hanno ricevuto un po’ di sollievo: 100mila dollari è il conto tra il ’70 e il ’77

  • Il più “bravo” dittatore della storia moderna

    Questo è Thomas Sankara, il miglior leader africano della storia contemporanea. Negli anni dal 1983 al 1987 ha trasformato la colonia francese in Africa dell’ovest chiamata Alto Volta in una delle nazioni più sviluppata dell’ Africa, il Burkina Faso.

    Sankara ottenne il potere grazie a un colpo di stato nel 1983, e fu il presidente per soli 4 anni. Durante la sua “dittatura” furono raggiunti tutti questi obiettivi:

    • 2,5 milioni di persone furono vaccinate contro la meningite, la febbre gialla e il morbillo. In solo una settimana!
    • Portò l’alfabetizzazione del suo paese dal 13% quando salì al potere fino al 73% nel 1987.
    • Per combattere la deforestazione fece piantare dieci milioni di alberi.
    • Rese fuorilegge la mutilazione genitale femminile e i matrimoni forzati, oltre a permettere alle donne di ricoprire cariche al governo.
    • Ha venduto la flotta di Mercedes usate dal governo per acquistare macchine più economiche.
    • Ha vietato a se stesso e agli ufficiali del governo di volare in prima classe negli aerei.
    • Ha portato il suo paese all’autosufficienza ( per quanto riguarda il cibo) ridistribuendo i campi di terra agli abitanti. La produzione di grano aumentò da 1700Kg per ettaro fino a 3800Kg per ettaro.
    • Ha abbassato il suo salario a soli 450$ al mese e si rifiutò di utilizzare l’aria condizionata nel suo ufficio dicendo che se nessun altro avesse potuto utilizzarla, non l’avrebbe fatto manco lui.
    • Ha aperto il primo supermercato del paese.

    Inoltre, ha cambiato il nome dello stato in “Burkina Faso”, che letteralmente vuol dire “Il paese degli uomini liberi”.Rifiutò qualsiasi tipo di aiuto esterno per la sua nazione affermando che “ Chiunque ti sfama, ti controlla” . Per collegare meglio lo stato costruì una rete di ferrovie per tutto il territorio.

    E fece tutto questo con zero aiuti esterni.

    Comunque, fu anche abbastanza autoritario, in quanto abolì i sindacati e la libertà di stampa, perché riteneva che potessero intralciare la strada per i suoi obiettivi. Per contrastare l’opposizione trovò tutti i “lavoratori pigri” e i rivoluzionari e li imprigionò.

    Nonostante tutte le buone cose, Sankara fu assassinato nel 1987, in un colpo di stato condotto da Blaise Comparoè, suo vicepresidente e fidato amico. Dietro questo colpo di stato c’erano la Costa d’Avorio e la Francia che avrebbero voluto Blaise al potere.

    E, da allora, la nazione è in declino sempre maggiore, in quanto Blaise ha annullato molte delle buone cose fatte da Sankara. Rimase presidente fino al 2014, quando fu spodestato.

    Sankara era il simbolo del potenziale dell’ Africa, libero da imperialismo, povertà e corruzione. Fu un sostenitore della teoria della pan-Africa, un’ Africa tutta unita. Chissà cosa avrebbe potuto fare se solo avesse avuto altri quattro anni? O magari altri 10 o 20?

    Il nostro mondo potrebbe essere completamente diverso ora…

  • El Che

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  • La mollezza del potere e la resa al caos

    La mollezza del potere e la resa al caos

    La mollezza del potere e la resa al caos

    A parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire, predicava Guglielmo di Occam, quello del rasoio. Eppure. Non sembra che alcun governante europeo se lo ricordi. Si interrogano, quando ne hanno voglia, su come uscire dall’angolo o inseguono la pancia degli arrabbiati, il più delle volte, senza capire che è inutile trovare un obiettivo contro cui prendersela invece di cercare di affrontare di petto la globalizzazione. In tre casi, in questi ultimi tempi, abbiamo assistito alla mollezza del potere, quello delle presunte élite, come dei nuovi sovranisti, che contro élite vorrebbero una rivoluzione. Persino nella democrazia più antica del mondo ci si sta arrendendo al caos. In Francia, in Gran Bretagna, in Italia, si innestano clamorose marce indietro in una situazione di caos.Se qualcuno si fosse preso la briga di leggere con attenzione il clamoroso manifesto in quaranta punti dei Gilet Gialli, scesi in piazza per un aumento della benzina di pochi centesimi e finiti per bloccare non solo Parigi, ma un intero paese, avrebbe capito che dietro c’è una mente molto raffinata. Nel documento, che la sinistra potrebbe tranquillamente trasformare in programma politico, si chiedono una serie di cose molto precise per ridurre le disuguaglianze che affliggono tutti i paesi occidentali: salario minimo di 15.000 euro, scala mobile, pensioni almeno a 1.300 euro, ripresa delle piccole opere pubbliche, utilizzo dei pedaggi per le manutenzioni stradali, riaperture delle piccole scuole e dei piccoli uffici postali, divieto di aprire grandi magazzini nelle zone rurali, web tax contro gli over the top. I Gilet Gialli hanno capito, più di chiunque altro abbia responsabilità di governo, che il pericolo oggi arriva dai grandi monopoli digitali che sono talmente transnazionali da permettersi di tenere parcheggiata in Europa una liquidità di 450 miliardi di euro. Una ricchezza fine a se stessa, nella maggioranza dei casi. E mentre Amazon, Apple, Facebook, lavorano per prendere il posto delle banche, delle officine e della logistica tutta, si pensa ai decimali di Maastricht. Emmanuel Macron, pur in calo di popolarità, resta un banchiere e ha capito che è molto meglio ritirare l’odiata tassa ecologica piuttosto che essere travolti da novelli sanculotti. E forse non basterà, perché restano da adempiere gli altri trentanove punti del manifesto rivoltoso.
    La retromarcia francese fa il paio con quella che potrebbe apprestarsi a fare la Gran Bretagna. Oltremanica tardivamente hanno scoperto, grazie al Procuratore Generale, che l’accordo della premier Theresa May non solo è molto peggio di quello del suo predecessore David Cameron, ma trasformerà la Brexit in una gabbia da cui gli inglesi non riusciranno mai a liberarsi veramente, lasciando l’Irlanda del Nord nell’Ue e abbandonando invece il mercato unico. A Westminster si affilano i coltelli per mandare il gabinetto a casa ma intanto gli scozzesi si sono fatti dare un parere dalla Corte di Giustizia Europea di Lussemburgo per cui, si sensi dell’articolo 50 del trattato, si può anche ritirare la notifica della sciagurata decisione di uscire dall’Ue e riportare le lancette indietro al 2016. Hanno sempre visto lungo da quelle parti, dai tempi delle vedove che sapevano dove ben investire. In questo caso, più che alla rabbia dei neo rivoluzionari francesi o dei brexiters più duri, ci si sta arrendendo al righello dei burocrati di Bruxelles, perché pare essere la soluzione alla fine migliore.
    E anche il sovranismo nostrano ha innestato da qualche giorno una poderosa inversione a U. Il governo Conte, consapevole che in far di recessione insistere su una previsione di crescita impossibile nel 2019 avrebbe comportato mandare in aria tutti i conti pubblici e una stretta creditizia, ha deciso di lasciare fuori dalla manovra (per ora) sia il reddito di cittadinanza che la revisione della legge Fornero sulle pensioni. Tutti hanno sottolineato che sull’esecutivo gialloverde avrebbero prevalso la forza molle dei commissari europei, la tirannia dello spread, l’accigliato Moscovici e i moniti del preoccupato Draghi, quando invece anche Lega e Cinquestelle hanno capito che in Italia, paese ricchissimo con uno stato povero, più che il popolo comanda il risparmio, unico sovrano, insieme ai contribuenti. Forse anche per questo i gilet li hanno indossati gli imprenditori, non la classe media arrabbiata transalpina. Gli industriali sono proprio coloro che dovrebbero sapere che il nemico è alle porte e non si nasconde in un emendamento alla manovra, bensì arriva da settori che non presidiano. Un colosso manifatturiero partito dalla mela dei Beatles apre una modalità di pagamento universale, uno spedizioniere planetario si appresta a fare la banca, un social network vende notizie, pubblicità e identità. D’altronde Steve Jobs lo aveva predetto: banking is necessary, banks not. Siamo a quel punto.
    Contro i veri attori della decrescita serve un’azione comune, senza fingere che i problemi siano altri, la Commissione, gli immigrati, Trump o Putin. E’ del tutto inutile innestare improvvise retromarce, perché denunciano la mancanza di una strategia. Il potere è sempre più debole e gli amministrati sempre più arrabbiati.

  • Il grillismo e il “fascismo eterno” (U.Eco)

    Il grillismo e il “fascismo eterno” (U.Eco)

    Con l’elezione di Roberta Lombardi a capogruppo m5s alla Camera, è venuto fuori un suo post del 21 gennaio scorso, a ridosso dell’apertura di Grillo a CasaPound,  intitolato “Italia sotto formaldeide”, nel quale spunta fuori un paragrafo che suona a elogio, sia pure indiretto, del fascismo. La Lombardi difende il suo Capo, sostenendo che comunque

    “da quello che conosco di Casapound, del fascismo hanno conservato solo la parte folcloristica (se vogliamo dire così), razzista e sprangaiola. Che non comprende l’ideologia del fascismo, che prima che degenerasse aveva una dimensione nazionale di comunità attinta a piene mani dal socialismo, un altissimo senso dello stato e la tutela della famiglia. Quindi come si vede Casapound non è il fascismo ma una parte del fascismo. E quindi solo in parte riconducibile ad esso.”

    “Infortunio” o vero e proprio  coming out? Con un’argomentazione un po’ contorta, la Lombardi vuole dimostrare che non contano i simboli (folcloristici) di ideologie che hanno esaurito la propria funzione, e che dunque esse non rappresentano una minaccia presente, ergo, lo sdoganamento di CasaPound ci può stare, anche perché il fascismo, prima di degenerare, era tutt’altra cosa. E non si possono certo confondere i clowns di CasaPound col vero fascismo!

    Ora , questo ragionamento un po’ scombinato e piuttosto avventuroso, di negazione/affermazione, mette per l’ennesima volta in luce la psicologia di massa del fascismo nel nostro sventurato Paese, che risorge al di là dei simboli, e i cui coming out conosciamo (o dovremmo conoscere) abbastanza bene attraverso le innumerevoli sparate dei leghisti, dei Bossi, dei Borghezio, dei Gentilini, di Berlusconi. Fenomeno che risale allo sdoganamento del Movimento Sociale Italiano da parte dello stesso Berlusconi, e ancora prima da parte di Craxi, che non a caso veniva chiamato Benito e non Bettino!

    Forse chiunque di noi ha conosciuto amici, giovani e meno giovani, a volte già “di sinistra”, che nel corso dell’ultimo decennio (o anche prima) hanno espresso coming out simili, improvvisamente dichiarandosi prima berlusconian-fascisti e poi fascisti tout court, con una sorta di liberazione, di sollievo, “ah! Adesso l’ho detto!”. Con il ritiro progressivo dell’egemonia culturale della sinistra, più apparente che reale, favorito dal riposizionamento a destra del PD, sempre più persone, anche fra sedicenti “alternativi”, si sono ritrovate in  sintonia psicologica e culturale col fascismo eterno, o Ur-fascismo, che non era mai morto nel proprio ambiente familiare e quotidiano.

    La nozione di ur-fascismo è stata richiamata in questi giorni da wumingfoundation.com/giap/ , e risale a un articolo del 1995  di Umberto Eco, intitolato “Totalitarismo fuzzy e ur-fascismo”, successivamente divulgato come Il fascismo eterno. Eco si chiede : “ma chi sono loro?”, i “fascisti”?

    “Se pensiamo ancora ai governi totalitari che dominarono l’Europa prima della seconda guerra mondiale, possiamo dire con tranquillità che sarebbe difficile vederli ritornare nella stessa forma in circostanze storiche diverse… Tuttavia, anche se i regimi politici possono venire rovesciati, e le ideologie criticate e delegittimate, dietro un regime e la sua ideologia c’è sempre un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni. C’è dunque ancora un altro fantasma che si aggira per l’Europa (per non parlare di altre parti del mondo)?”.

    Secondo Eco,

    “Il fascismo fu certamente una dittatura, ma non era compiutamente totalitario, non tanto per la sua mitezza, quanto per la debolezza filosofica della sua ideologia. Al contrario di ciò che si pensa comunemente, il fascismo italiano non aveva una sua filosofia.  Mussolini non aveva nessuna filosofia: aveva solo una retorica. Cominciò come ateo militante, per poi firmare il concordato con la Chiesa e simpatizzare coi vescovi che benedivano i gagliardetti fascisti. Si può dire che il fascismo italiano sia stata la prima dittatura di destra che abbia dominato un paese europeo, e che tutti i movimenti analoghi abbiano trovato in seguito una sorta di archetipo comune nel regime di Mussolini. Il fascismo italiano fu il primo a creare una liturgia militare, un folklore, e persino un modo di vestire – riuscendo ad avere all’estero più successo di Armani, Benetton o Versace. “.

    E dunque il fascismo, contrariamente a quel che pensa la Lombardi, creò fin dall’inizio, “prima che degenerasse”, un folclore, una liturgia, che poi negli anni Trenta venne ripreso in altri Paesi europei, e perfino fuori dall’Europa.

    “Fu il fascismo italiano a convincere molti leader liberali europei che il nuovo regime stesse attuando interessanti riforme sociali in grado di fornire una alternativa moderatamente rivoluzionaria alla minaccia comunista”.  Una controrivoluzione preventiva, o una “rivoluzione conservatrice”.

    Perché allora parliamo di ur-fascismo, di fascismo eterno, originario o prototipico, una denominazione pars pro toto per movimenti totalitari diversi?

    Non è sufficiente ritenere che il fascismo italiano venne prima, o che conteneva in sé  “tutti gli elementi dei totalitarismi successivi, per così dire, “in stato quintessenziale”. Al contrario, il fascismo non possedeva alcuna quintessenza, e neppure una singola essenza. Il fascismo era un totalitarismo fuzzy ( un insieme “sfumato”, “confuso”, “impreciso”, “sfocato”).Il fascismo non era una ideologia monolitica, ma piuttosto un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni.”

    Sono considerazioni simili a quelle che, come abbiamo visto ne Il-popolo-delle-scimmie-da-kipling-a-gramsci/, avevano già svolto Antonio Gramsci ed Emilio Lussu, “in diretta”. Il fascismo fu un alveare di contraddizioni, tanto da passare tranquillamente dallo spirito repubblicano alla monarchia alla “repubblica sociale” , “arricchita di accentuazioni quasi giacobine”, nel 1943. Mentre il nazismo e lo stalinismo imposero un’arte e una cultura monolitica, il fascismo accostò insieme D’Annunzio, Marinetti e le tradizioni rurali. Nelle associazioni studentesche (GUF, Gruppi Universitari Fascisti), circolavano nuove idee “senza nessun reale controllo ideologico, non tanto perché gli uomini di partito fossero tolleranti, quanto perché pochi di loro possedevano gli strumenti intellettuali per controllarle.”. Non si trattava di tolleranza, ma sgangheratezza politica e ideologica:

    “Ma era una “sgangheratezza ordinata”, una confusione strutturata. Il fascismo era filosoficamente scardinato, ma dal punto di vista emotivo era fermamente incernierato ad alcuni archetipi.”.

    Sono proprio questi archetipi emotivi a comporre una lista di caratteristiche tipiche dell’ur-fascismo o fascismo eterno. Mentre il nazismo fu uno e uno solo,

    “Al contrario, si può giocare al fascismo in molti modi, e il nome del gioco non cambia. Succede alla nozione di “fascismo” quel che, secondo Wittgenstein, accade alla nozione di “gioco”.  Il termine “fascismo” si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. “.

    Il fascismo era sgangherato, confuso e contraddittorio, ma ciononostante si possono indicare delle caratteristiche che, pur non potendosi irreggimentare in un sistema, perché molte si contraddicono reciprocamente, o sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo, coagulano una nebulosa fascista a partire anche soltanto di una di esse. L’ur-fascismo è esattamente questa nebulosa generata da una o più caratteristiche, come un codice genetico.

    Eco fa dunque la seguente lista di queste caratteristiche (che potete leggere integralmente qui  http://funkallero.altervista.org/wp-content/uploads/2013/02/fascismo_eco2.pdf ):

    • il culto della tradizione e il sincretismo,
    • il rifiuto del mondo moderno e del modernismo,
    • l’irrazionalismo, il culto dell’azione per l’azione il rifiuto della cultura e della critica (“Quando sento parlare di cultura, estraggo la mia pistola” Goebbels),
    • il sincretismo (“Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento) e la paura della differenza(“contro gli intrusi”),
    • l’appello alla frustrazione individuale o sociale (alle classi medie frustrate, compresi gli ex proletari divenuti piccola borghesia),
    • il nazionalismo (come “privilegio”  e ideologia offerti a chi non ha alcuna identità sociale, contro i nemici),
    • l’ossessione del complotto, (possibilmente internazionale, i seguaci debbono sentirsi assediati),
    • la xenofobia e l’antisemitismo,
    • l’umiliazione di fronte a nemici che appaiono allo stesso tempo “troppo forti e troppo deboli”,
    • la guerra permanente (“Siamo in guerra”) e il “complesso di Armageddon” (ci sarà una “battaglia finale”, a seguito della quale il movimento avrà il controllo del mondo; dopo la soluzione finale, ci sarà un’Era di pace, una nuova Età dell’Oro),
    •  l’elitismo popolare (Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito) (Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un “dominatore”. Dal momento che il gruppo è organizzato gerarchicamente (secondo un modello militare), ogni leader subordinato disprezza i suoi subalterni, e ognuno di loro disprezza i suoi sottoposti. Tutto ciò rinforza il senso di un elitismo di massa),
    • il culto dell’eroismo e della morte (non solo quella “eroica”, propria, ma soprattutto quella degli altri, a cui si sopravvive, E.Canetti),
    • il machismo e i giochi di guerra;
    • il populismo qualitativo, il popolo come entità monolitica che esprime la “volontà comune”; ma dal momento che nessuna quantità di esseri umani può possedere una volontà comune, il leader pretende di essere il loro interprete (il Megafono):  Avendo perduto il loro potere di delega, i cittadini non agiscono, sono solo chiamati pars pro toto, a giocare il ruolo del popolo. Il popolo è così solo una finzione teatrale. Nel nostro futuro si profila un populismo qualitativo Tv o Internet, in cui la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentata e accettata come la “voce del popolo”. A ragione del suo populismo qualitativo, l’Ur-Fascismo deve opporsi ai`putridi” governi parlamentari. (ciò veniva scritto nel 1995, e la scimmia genovese era ancora ben lungi dall’improvvisarsi arruffapopolo);  una delle prime frasi pronunciate da Mussolini nel parlamento italiano fu: “Avrei potuto trasformare quest’aula sorda e grigia in un bivacco per i miei manipoli.” Di fatto, trovò immediatamente un alloggio migliore per i suoi manipoli, ma poco dopo liquidò il parlamento. Ogni qual volta un politico getta dubbi sulla legittimità del parlamento perché non rappresenta più la “voce del popolo”, possiamo sentire l’odore di Ur-Fascismo.
    • La “neolingua”, da 1984 (G.Orwell), tutti i testi scolastici nazisti o fascisti si basavano su un lessico povero e su una sintassi elementare, al fine di limitare gli strumenti per il ragionamento complesso e critico. Ma dobbiamo essere pronti a identificare altre forme di neolingua, anche quando prendono la forma innocente di un popolare talkshow (o del “comizio” di un comico).

    Dunque, questa è una possibile lista che ognuno può sviscerare e approfondire a piacimento. Se in questa lista vi sembra riconoscere alcuni aspetti familiari del berlusconismo e del leghismo prima, del grillismo poi, non vi preoccupate, è proprio così:

    “L’Ur-Fascismo è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: “Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane!”

    Ciò sarebbe folclore, direbbe la Lombardi.

    “Ahimè, la vita non è così facile. L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo. Libertà e liberazione sono un compito che non finisce mai. Che sia questo il nostro motto: “Non dimenticate”.

  • Analfabetismo funzionale, cultura di massa e fascismo: Umberto Eco ci aveva avvisati

    Analfabetismo funzionale, cultura di massa e fascismo: Umberto Eco ci aveva avvisati

    Sarebbe bello dire che Umberto Eco (Alessandria, 5 gennaio 1932 – Milano, 19 febbraio 2016) si sbagliava, sarebbe come dare un po’ di speranza sul futuro di una società che ha smesso di essere popolo e ha ormai assunto la forma di uno sciame, una massa informe. Sarebbe bello, ma non sarebbe intellettualmente corretto.

    Chissà cosa avrebbe detto Umberto Eco quando alla sua morte iniziò a diffondersi capillarmente nella rete quella che doveva essere una sua citazione:

    Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro.

    Le abbiamo lette ovunque accompagnate dal suo volto, eppure non sono parole sue. Umberto Eco questo concetto l’ha espresso diversamente, e molto meglio, in La bustina di Minerva, l’ultima pagina che curava per L’espresso:

    Non ce ne rendiamo conto, ma la nostra ricchezza rispetto all’analfabeta (o di chi, alfabeta, non legge) è che lui sta vivendo e vivrà solo la sua vita e noi ne abbiamo vissuto moltissime. Ricordiamo, insieme ai nostri giochi d’infanzia, quelli di Proust, abbiamo spasimato per il nostro amore ma anche per quello di Piramo e Tisbe, abbiamo assimilato qualcosa della saggezza di Solone, abbiamo rabbrividito per certe notti di vento a Sant’Elena e ci ripetiamo, insieme alla fiaba che ci ha raccontato la nonna, quella che aveva raccontato Sherazade.

    Chiunque abbia letto Il nome della rosa, il best seller uscito nel 1980, ha sicuramente presente la quantità di citazioni e riferimenti puntuali con cui Eco ha riempito il romanzo, perché in quanto intellettuale era suo compito pretendere una correttezza metodologica anche all’interno di un prodotto creato per la massa.

    Non gli farebbe piacere sapere che qualcuno gli ha messo in bocca parole che non ha mai detto, ma non ne sarebbe sorpreso. Nella citazione originale si percepisce il suo biasimo nei confronti di coloro che non leggono, un biasimo che è espresso senza mezze misure in quest’altra citazione, tratta da Quanti libri non abbiamo letto?:

    Si può essere colti sia avendo letto dieci libri che dieci volte lo stesso libro. Dovrebbero preoccuparsi solo coloro che di libri non ne leggono mai. Ma proprio per questa ragione essi sono gli unici che non avranno mai preoccupazioni di questo genere.

    La sua opinione sul fenomeno degli analfabeti funzionali e le sue critiche verso le «legioni di imbecilli» sono state percepite come offensive da coloro che si sono sentiti presi in causa. Il messaggio era chiaro, la comunicazione era riuscita perfettamente.

    Umberto Eco è stato il maggiore esperto di comunicazione in Italia, colui che ha capito l’importanza di quest’azione che si svolge quotidianamente con mezzi diversi, che siano orali o scritti. È stato lui a fondare il corso di Scienze della Comunicazione negli anni Ottanta e ancora prima, nel 1971, il DAMS dell’Università di Bologna, e a tenere corsi dedicati alla comunicazione in svariate università in Italia e all’estero.

    Di fronte al suo prestigio dovremmo fare un passo indietro e dare ascolto alle sue parole, alle sue raccomandazioni, perché «di qualsiasi cosa i mass media si stanno occupando oggi, l’università se ne è occupata venti anni fa e quello di cui si occupa oggi l’università sarà riportato dai mass media tra vent’anni».

    Prima di internet e dei social per parlare, o scrivere, ad un grande numero di persone bisognava prima averne acquisito il diritto. Ora è come se chiunque potesse salire su un palco di fronte a un pubblico potenzialmente illimitato, dire quello che vuole senza assumersene le responsabilità, essere acclamato o criticato, e tornare alla sua vita.

    Quello che dice potrebbe essere – e spesso lo è – una falsità, ma la maggior parte della massa, disabituata a un atteggiamento critico verso ciò che sente, gli crederebbe e contribuirebbe a diffonderla. Gli esempi sono sotto i nostri occhi ogni giorno.

    Umberto Eco, esperto della cultura di massa e dei mass media, è stato tra i primi ad avvisarci di questo pericolo e non solo. Nel libro Il fascismo eterno, edito dalla Nave di Teseo nel gennaio 2018 (precedentemente era uscito nel 1997 col titolo Cinque scritti morali), è contenuta una lezione che Eco tenne nel 1995 alla New York Review of Books, nella quale individuava una correlazione tra dittatura e cultura di massa.

    Le caratteristiche ricorrenti sono il culto dell’azione per l’azione, il disaccordo come tradimento, la paura delle differenze, l’appello alle classi medie frustrate, il populismo qualitativo e altre ancora, tutte forme smascherate nel loro riprodursi da sempre.

    Non penso sia un caso che questo libro sia stato riproposto in Francia durante le scorse elezioni e adesso in Italia, in un periodo storico in cui, tra accuse di esagerazione e dubbi, si sta assistendo alla ricomparsa di fatti dalle sembianze storicamente note.

  • Uno vale uno

    Uno vale uno

    Mariacristina Ferraioli

    Il movimento 5 Stelle presumibilmente vincerà le elezioni e non lo farà per via della tanto decantata onestà. Parliamoci chiaro, se l’onestà fosse un valore diffuso e condiviso per questo paese non avremmo il tasso più alto di lavoro nero d’Europa né il più alto numero di evasori fiscali. I 5 Stelle vinceranno perché hanno sedotto quella parte del paese inetta e rancorosa con l’idea che siamo tutti uguali e che lo studio, l’impegno e il sacrificio nella vita siano in fondo un dato relativo. Perché uno vale uno, come nella Fattoria degli animali di Orwell, in nome di una libertà che è in realtà la peggiore forma di dittatura. Così ci ritroviamo un Di Maio che si sente De Gasperi, pur senza averlo mai sentito neanche nominare De Gasperi, una cloaca di sprovveduti che discute di economia o di politica internazionale senza mai aver aperto un manuale di storia e soprattutto una società di persone che pensano di potersi sedere di fronte a chiunque per discutere di qualsiasi cosa. Le conseguenze sociali del movimento 5 Stelle vanno oltre la barzelletta di avere un premier come Di Maio che coniuga i verbi peggio dello studente che ho bocciato lo scorso anno. Il vero dramma causato dai cinque stelle è che hanno offerto la spalla a qualsiasi persona di sentirsi all’altezza di parlare di ogni cosa. Oltre la medicina, oltre chi ha passato la vita nei laboratori e a studiare, oltre i premi Nobel. È gente che non ha coscienza di cosa sia lo studio e quanto sacrificio ci sia dietro ad una ricerca, dietro ad una professione, che non pensano ai ragazzi che hanno passato la vita sui libri per far progredire questo paese. È la presunzione fine a se stessa. L’onestà di cui il movimento si riempie la bocca continuamente non è un vanto. È il grado zero della civiltà cosa che sarebbe nota perfino a loro se avessero studiato un po’ di latino. Occupare un posto che non si è in grado di occupare, essere pagati per un lavoro che non si è grado di fare quella è la peggiore forma di disonestà civile. E come diceva quel vecchio saggio di Seneca “la vergogna dovrebbe proibire a ognuno di noi di fare ciò che le leggi non proibiscono”.

  • Ma quante belle prospettive per i nuovi fascisti !

    Ma quante belle prospettive per i nuovi fascisti !

    L’Austria è un Paese piccolo e domenica hanno votato meno di 4 milioni di persone, di cui un milione e 300 mila per Norbert Hofer, il candidato nazionalista e identitarista. Poca roba: quindi, in teoria, su di lui potremmo fare spallucce.
    Su di lui così come sul fatto che negli Stati Uniti il candidato alla presidenza dei Repubblicani sia Donald Trump. O che in Francia aumentano ogni giorno le probabilità che la Le Pen arrivi almeno al ballottaggio. O (anche) che in Italia la destra ex berlusconiana sia sempre più rappresentata dal duo Salvini-Meloni. Per non dire di tutti gli altri movimenti populisti (In Italia il M5S)  , in crescita in quasi tutta Europa.

    Se invece pensiamo che il fenomeno ci riguardi, dopo l’anatema potremmo anche cercare di capire perché tanta gente vota da quelle parti. Magari aiutandoci dando un’occhiata ai grandi cambiamenti tecnologici ed economici contemporanei, quelli che stanno dietro quest’ondata. E con qualche riferimento storico.
    Tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800, ad esempio, scoppiò in Inghilterra quel fenomeno che passa sotto il nome di luddismo, dal mitico Ned Ludd: personaggio forse neppure esistito, ma a cui veniva attribuita la prima distruzione di un telaio meccanico. È possibile che Ludd fosse uno degli artigiani che nel 1770 avevano preso d’assalto la casa e le macchine di James Hargreaves, il tizio che aveva inventato lo “spinning jenny”: quel dispositivo a pedale che consentiva a un singolo operatore di filare otto fili per volta. Il telaio meccanico, appunto.
    L’introduzione di strumenti industriali in quel periodo stava trasformando radicalmente e abbastanza in fretta l’organizzazione del lavoro precedente. In particolare i tessitori del Lancashire vedevano crollare i prezzi dei loro prodotti e quindi avevano solo la chance di trasformarsi in operai (a bassissimo reddito e in condizioni di lavoro disumane) mettendosi al servizio proprio dei nuovi telai, cioè gli stessi che ne avevano causato la proletarizzazione. Abbastanza normale che volessero distruggerli a randellate.
    Quello che sta succedendo nel mondo all’inizio del XXI è un fenomeno di portata anche maggiore rispetto all’introduzione dei telai meccanici e delle macchine a vapore. E ha ragioni di fondo tecnologiche ed economiche.

    Mai come adesso assistiamo a un mutamento rapido delle relazioni di produzione, lavoro rarefatto e parcellizzato, voucher, piattaforme di manodopera liquida, a cottimo o all’ora.
    Ma le trasformazioni tecnologiche di oggi sono anche quelle che costringono ogni singolo produttore di qualsiasi cosa, nel pianeta, a concorrere con qualsiasi altro produttore della stessa cosa nel resto del pianeta. E quelle che hanno consentito le esternalizzazioni delle produzioni nei Paesi in cui il lavoro orario costa molto meno.
    O semplicemente, pensate ad altri e più banali cambiamenti tecnologici: quelli che, con i satelliti e Internet, hanno portato l’Occidente nelle case di un miliardo di africani, creando quindi il desiderio-bisogno di lasciare il proprio villaggio di fango e capre per venire qui da noi.
    E occhio perché ancora più “disruptive” saranno le trasformazioni che ci aspettano: l’intelligenza artificiale è ancora nella sua età infantile, rispetto all’incidenza che porterà nelle relazioni produttive nei prossimi due o tre decenni. La sharing economy anche. E forse nessuno ha davvero idea dell’impatto sulla produzione della stampa in 3D, oggi vista dai più come un’eccentrica curiosità, ma che invece è un altro pezzo della nuova rivoluzione industriale.
    Spiegava qualche giorno fa Bernard Guetta (vedi articolo allegato infondo al post), proprio parlando dell’ascesa dei parafascismi in Europa e Usa, che oggi «ai salariati non resta che scegliere tra il persistere di elevati tassi di disoccupazione e l’accettazione di un’ininterrotta erosione dei diritti acquisiti». Sicché «sulle due sponde dell’Atlantico si è venuta a creare un’enorme angoscia sociale, terreno fertile per Trump e le estreme destre europee». E sia Trump sia Marine Le Pen, i vari Grillo e Salvini, sia i loro analoghi «propongono di tornare al protezionismo, vedono nei Paesi emergenti il nemico, sono ostili verso l’immigrazione. Tutti, in sintesi, provano nostalgia per i tempi in cui l’Occidente era formato da Stati forti, che non soffrivano la concorrenza di Paesi dalle tutele sociali inesistenti»
    Già. Perché a fronte dei cambiamenti contemporanei e in arrivo, ci si può comportare in due modi.
    Il primo è appunto quello che vediamo ogni giorno nei discorsi di Trump o Salvini: metaforicamente, prendere a randellate i telai meccanici. Cioè, oggi, immaginare o creare muri, rinfocolare identità nazionali. Nostalgia, come dice Guetta.
    Il secondo è capire invece che i nuovi telai meccanici invece sono qui per restare, ci piaccia o no: e quindi rivolgere ogni sforzo per rovesciare il modo in cui vengono gestiti e usati oggi dai poteri economici e politici. Cioè nell’interesse di pochissimi, per accumulare e accentrare capitale.
    Proprio come 200 anni fa, del resto.
    A proposito: i luddisti erano probabilmente ingenui, ma non così stupidi da non capire — dopo i primi anni di rabbia accecata — che il problema stava soprattutto nelle condizioni di lavoro e di vita a cui erano costretti dai proprietari dei nuovi telai. «Fate che i superbi cessino di opprimere gli umili e Ludd rinfodererà la spada», diceva una canzone luddista diffusa in Inghilterra al tempo. La loro inutile rivolta sarebbe quindi finita se le cose per loro fossero migliorate: in termini di orari, reddito, oppressione dagli “umili” da parte dei “superbi”.

    Il compito che abbiamo oggi, certo, è spiegarlo a chi vota Grillo, Trump, o Salvini, o Le Pen o Norbert Hofer.
    Ma soprattutto è spiegarlo ai superbi di oggi, che di tutto questo sono la causa vera.

    Il futuro roseo del nuovo fascismo

    Non dobbiamo cadere preda della paura sbagliata: di Donald Trump non preoccupa il fatto che possa conquistare l’investitura repubblicana, perché sarebbe molto improbabile per lui riuscire a insediarsi alla Casa Bianca. Negli Stati Uniti gli elettori “indipendenti” – quelli decisivi di centro – non voteranno per lui, perché sono tutto salvo che estremisti.

  • Vi spiego i benefici della nuova Costituzione. Parla il prof. Clementi

    Vi spiego i benefici della nuova Costituzione. Parla il prof. Clementi

    Dopo l’esito della consultazione del 17 aprile, le attenzioni politiche e mediatiche si spostano ora sul referendum confermativo della riforma costituzionale. Ecco l’opinione di Francesco Clementi, docente di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia che nel 2013 ha fatto parte della Commissione dei saggi istituita da Giorgio Napolitano ed Enrico Letta

    Nonostante un Parlamento altamente diviso e frammentato, figlio del risultato elettorale del 2013, fatto di vinti più che di vincitori,Renzi è riuscito a costruire una maggioranza rispettando la procedura dell’articolo 138 della Costituzione e a far approvare una riforma costituzionale che migliorerà la qualità della democrazia in Italia”. Il costituzionalista Francesco Clementi non ha dubbi: con l’ultimo sì – martedì scorso alla Camera – è stato varato un testo destinato a portare il nostro Paese allo stesso livello delle “miglioriliberal-democrazie europee”. Clementi – che insegna Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia e alla School of Government della Luiss e che nel 2013 ha fatto parte della Commissione dei saggi istituita da Giorgio Napolitano ed Enrico Letta – sottolinea, in primo luogo, il metodo scelto per mandare in porto la riforma: “Si è pienamente rispettata la procedura di revisione costituzionale prevista dall’articolo 138 della Costituzione, senza scorciatoie, essendo da sempre correttamente quella l’unica vera strada obbligata da percorrere.

    Professore, esistevano strade alternative per arrivare all’approvazione definitiva?

    Negli ultimi decenni non sono mancati i tentativi di aggirare la norma costituzionale, di eluderla di fronte alla fatica e ai rischi politici che quel lungo e complesso percorso prevede. Solo attraverso quella strada obbligata – che appunto costringe a maggioranze larghe e a passaggi parlamentari ripetuti e pure rigidamente distanti tra loro – si poteva trovare la forza di superare le rilevanti e gravi difficoltà politiche emerse dopo le elezioni del 2013, tali da costringere le Camere a rieleggere, prima volta nella storia del nostro Paese, il Presidente della Repubblica uscente.

    C’è già un vincitore?

    Considerati il quadro di contesto e le premesse politiche di partenza, questo è senza dubbio un successo. Il merito è certamente del Parlamento e dei parlamentari che l’hanno voluta, a partire dai senatori. Evidentemente, si tratta di un successo anche per il Governo, il quale è nato – è bene ricordarlo – proprio per affrontare con la dovuta risolutezza la sfida delle riforme mettendoci la faccia. Una scelta di trasparente responsabilità, fatta senza cercare alibi e senza voler “galleggiare” sopra le riforme per rimanere in carica, come si è invece visto molte volte nella storia di questo Paese.

    C’è però un pezzo del Parlamento che contesta duramente la riforma.

    La sesta e ultima votazione di martedì scorso ha dimostrato che si possono fare le riforme rispettando riga per riga la Costituzione, anche se ciò costa fatica, comporta rischi e accende polemiche e dibattiti nel Paese, provocando conseguenze politiche anche rilevanti. Le cose fatte bene, in genere, cominciano per bene. Questa, a me pare, un ottimo esempio.

    C’è però chi accusa il governo di aver fatto questa riforma a colpi di maggioranza. Come si risponde a questa critica?

    Considerate le premesse, torno a dire che la strada era obbligata: si sono rispettate, punto per punto, le maggioranze previste dalla Costituzione per la sua riforma, quelle indicate dal Costituente. Lo ribadisco: non si è elusa la strada, la si è percorsa a viso aperto. E questo è un fatto davvero da non sottovalutare nel tempo della crisi della rappresentanza politico-parlamentare. Capisco che nelle sei votazioni sono emerse maggioranze disomogenee tra loro, frutto dei movimenti della politica e delle difficoltà di una rappresentanza parlamentare ancora – in non pochi casi – in cerca d’identità e di nuovi leaders. Ma ciò, nel rispetto formale del dettato costituzionale, conferma l’eccezionalità e il valore – vorrei dire – storico del voto. Per il nostro Paese si dischiude la possibilità di approvare quello che, altrove, è regola democratica da sempre.

    Perché – a suo modo di vedere – questa riforma ha valore storico?

    Per rendersene conto basta rileggere due discorsi chiave di questi ultimi tre anni. Il primo l’ha pronunciato Giorgio Napolitano – il 22 aprile 2013 di fronte alle Camere riunite il giorno del suo secondo insediamento – a memento delle ragioni della prosecuzione della legislatura proprio in funzione di riforme necessarie e non più eludibili. Più di recente – per sottolineare gli effetti di una eventuale e mancata conclusione della transizione istituzionale italiana – il discorso che il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha fatto il 21 dicembre scorso alle alte cariche dello Stato: in esso, il Presidente della Repubblica rilevava come “il senso di incompiutezza rischierebbe di produrre ulteriori incertezze e conflitti, oltre ad alimentare sfiducia, all’interno verso l’intera politica e all’esterno verso la capacità del Paese di superare gli ostacoli che pure si è proposto esplicitamente di rimuovere”. Mi auguro che ogni dibattito, da qui ad ottobre, avrà come premessa almeno la lettura di questi due testi.

    Lei ha detto che questa riforma migliorerà la qualità della democrazia. Per quale motivo?

    Perché affronta i principali problemi che da decenni vengono sottolineati da ogni partito o schieramento politico rispetto all’inadeguatezza delle nostre istituzioni di fronte al tempo che cambia.

    Di quali problemi sta parlando?

    Il primo è il bicameralismo paritario che tutto è tranne che perfetto. Grazie a questa riforma – come accade in tutti i bicameralismi delle moderne democrazie – ci sarà una Camera che rappresenterà l’indirizzo politico, ossia il circuito della forma di governo in senso stretto, e l’altra Camera – il Senato – che rappresenterà invece la morfologia istituzionale del Paese, ossia la sua forma di Stato. I problemi che saranno risolti, però, sono molteplici.

    Quali sono?

    Ci sarà un miglioramento della qualità della legislazione, tanto nel suo procedimento, quanto nelle sue fonti: dalla decretazione d’urgenza ai referendum propositivi e di indirizzo che entrano per la prima volta nel nostro ordinamento. E, ancora, entrerà in Costituzione lo statuto delle opposizioni, a connotare ulteriormente la fine dell’alternativa ideologica in favore dell’alternanza programmatica, regolamentata e trasparentemente garantita, lungo l’asse maggioranza/opposizione. Ciò inoltre consentirà di dare un volto preciso a quello che si deve considerare a buon diritto come un “governo in attesa”. Per non parlare poi, della semplificazione istituzionale, dal Cnel che sparisce alle province che vengono de-costituzionalizzate. O del nuovo rapporto – più responsabile anche sul fronte dell’autonomia di spesa – tra lo Stato e le Regioni. Infine, come ultima annotazione, segnalo che per la prima volta entra nella nostra Costituzione il termine trasparenza. Un fatto che non sarà improduttivo di effetti.

  • François Cavanna (uno dei fondatori di Charlie Hebdo)

    François Cavanna (uno dei fondatori di Charlie Hebdo)

    Vous,
    les chrétiens,
    les Juifs,
    les musulmans,
    les bouddhistes,
    les hindouistes,
    les shintoïstes,
    les adventistes,
    les panthéistes,
    les « Témoins de ceci-cela,
    les satanistes,
    les gourous,
    les mages,
    les sorciers,
    les yogis,
    les qui coupent la peau de la quéquette
    aux petits garçons,
    les qui cousent le pipi aux petites filles,
    les qui prient à genoux,
    les qui prient à quatre pattes,
    les qui prient sur une jambe,
    les qui ne mangent pas ceci-cela,
    les qui se signent par la droite,
    les qui se signent par la gauche,
    les qui se vouent au diable parce que déçus de Dieu,
    les qui prient pour que tombe la pluie,
    les qui prient pour gagner au Loto,
    les qui prient pour que ça ne soit pas le sida,
    les qui mangent leur dieu en rondelles,
    les qui ne pissent jamais contre le vent,
    les qui font l’aumône pour gagner le ciel,
    les qui lapident le bouc émissaire,
    les qui égorgent le mouton,
    les qui se figurent survivre en leurs enfants,
    les qui se figurent survivre en leurs œuvres,
    les qui ne veulent pas descendre du singe,
    les qui bénissent les armées,
    les qui bénissent les chasses à courre,
    les qui commenceront à vivre après la mort…

    Vous tous,
    qui ne pouvez vivre sans un Père Noêl et sans un Père Fouettard,

    vous tous,
    qui ne pouvez supporter de n’être rien de plus que des vers de terre avec un cerveau,

    vous tous,
    qui avez besoin de n’être pas nés pour mourir et qui êtes prêts à avaler tous les mensonges rassurants,

    vous tous,
    qui vous êtes bricolé un dieu « parfait» et « bon » aussi stupide, aussi mesquin, aussi sanguinaire,
    aussi jaloux, aussi avide de louanges que le plus stupide, le plus mesquin, le plus sanguinaire, le
    plus jaloux, le plus avide de louanges d’entre vous,

    vous tous, oh, vous tous,

    FOUTEZ-NOUS LA PAIX!

    Faites vos salamalecs dans le secret de votre gourbi, fermez bien la porte, surtout, et ne cor rompez pas nos gosses.

    Foutez-nous la paix, chiens!

    François Cavanna, [qui doit bien se retourner dans sa tombe! heureusement qu’il nous a quitté avant la boucherie à Charlie]Lettre ouverte aux culs-bénits, Albin Michel, 1994

    “Voi,

    i cristiani,

    gli ebrei,

    i musulmani,

    i buddisti,

    gli scintoisti,

    gli avventisti,

    i panteisti,

    i testimoni di questo e di quello,

    i satanisti,

    i guru,

    i maghi,

    le streghe,

    i santoni,

    quelli che tagliano la pelle del pistolino ai bambini,

    quelli che cuciono la passerina alle bambine,

    quelli che pregano ginocchioni,

    quelli che pregano a quattro zampe,

    quelli che pregano su una gamba sola,

    quelli che non mangiano questo e quello,

    quelli che si segnano con la destra,

    quelli che si segnano con la sinistra,

    quelli che si votano al Diavolo,

    perché delusi da Dio, quelli che pregano per far piovere,

    quelli che pregano per vincere al lotto,

    quelli che pregano perché non sia Aids,

    quelli che si cibano del loro Dio fatto a rondelle,

    quelli che non pisciano mai controvento,

    quelli che fanno l’elemosina per guadagnarsi il cielo,

    quelli che lapidano il capro espiatorio,

    quelli che sgozzano le pecore,

    quelli che credono di sopravvivere nei loro figli,

    quelli che credono di sopravvivere nelle loro opere,

    quelli che non vogliono discendere dalla scimmia,

    quelli che benedicono gli eserciti,

    quelli che benedicono le battute di caccia,

    quelli che cominceranno a vivere dopo la morte…
    Tutti voi,
    che non potete vivere senza un Babbo Natale e senza un Padre castigatore.

    Tutti voi,
    che non potete sopportare di non essere altro che vermi di terra con un cervello.
    Tutti voi,
    che vi siete fabbricati un dio “perfetto” e “buono” tanto stupido, tanto meschino, tanto sanguinario, tanto geloso, tanto avido di lodi quanto il piu’ stupido, il piu’ meschino, il piu’ sanguinario, il piu’geloso, il più avido di lodi tra voi.
    Voi, oh, tutti voi
    NON ROMPETECI I COGLIONI!

    Fate i vostri salamelecchi nella vostra capanna, chiudete bene la porta e soprattutto non corrompete i nostri ragazzi.
    Non rompeteci i coglioni!»

    Lasciateci in pace, cani!
    François Cavanna (uno dei fondatori di Charlie Hebdo)

  • Democrazia malata, parla Bauman

    Democrazia malata, parla Bauman

    Democrazia malata, parla Bauman

    Internet non ne è la causa, ne è solo un veicolo. Oggi i vecchi strumenti non funzionano più ma quelli nuovi non ci sono ancora. Intervista al teorico della “società liquida”

    Zygmunt Bauman, il grande sociologo teorico della “società liquida”, di recente ha riservato molte riflessioni a Internet, in particolare ai social media accusati di creare l’illusione di una rete affettiva in realtà inesistente. Parte quindi da questi temi la conversazione de “l’Espresso” con Bauman per allargarsi però all’attualità politica, dai cosiddetti “partiti antisistema” europei alle primarie americane.

    Professor Bauman, la sua è una critica esistenzialista alla Rete?

    «Internet rende possibili cose che prima erano impossibili. Potenzialmente, dà a tutti un comodo accesso a una sterminata quantità di informazioni: oggi abbiamo il mondo a portata di un dito. In più la Rete permette a chiunque di pubblicare un suo pensiero senza chiedere il permesso a nessuno: ciascuno è editore di se stesso, una cosa impensabile fino a pochi anni fa. Ma tutto questo — la facilità, la rapidità, la disintermediazione — porta con sé anche dei problemi. Ad esempio, quando lei esce di casa e si trova per strada, in un bar o su un autobus, interagisce volente o nolente con le persone più diverse, quelle che le piacciono e quelle che non le piacciono, quelle che la pensano come lei e quelle che la pensano in modo diverso: non può evitare il contatto e la contaminazione, è esposto alla necessità di affrontare la complessità del mondo. La complessità spesso non e un’esperienza piacevole e costringe a uno sforzo. Internet è il contrario: ti permette di non vedere e non incontrare chiunque sia diverso da te.

    Ecco perché la Rete è allo stesso tempo una medicina contro la solitudine — ci si sente connessi con il mondo — e un luogo di “confortevole solitudine”, dove ciascuno è chiuso nel suo network da cui può escludere chi è diverso ed eliminare tutto ciò che è meno piacevole».

    Ci sono però interi movimenti politici che sono nati dalla Rete o si sono diffusi grazie a essa. Le primavere arabe, ad esempio, ma anche Podemos in Spagna e il Movimento 5 Stelle in Italia…

    «È una questione ricca di ambivalenze. In generale però le ricerche sociali mostrano che la maggior parte delle persone usa Internet non per aprire la propria visione ma per chiudersi dietro degli steccati, per costruire delle “comfort zone”. Un po’ come quei quartieri fuori città circondati da cancelli, da guardie armate e da telecamere a circuito chiuso, dove le persone vivono in una sorta di mondo immaginario, senza controversie, senza conflitti, senza esporsi alle differenze. Poi, certo, grazie alla Rete oggi puoi convincere le persone del tuo network ad andare in piazza a manifestare contro qualcosa o qualcuno, ma l’incidenza sul reale di queste mobilitazioni nate nelle “comfort zone” è un altro discorso. Lei ad esempio mi citava le primavere arabe: non mi sembra che abbiano mai portato a un’estate».

    Quindi secondo lei non c’è un collegamento tra la diffusione della Rete e la protesta antisistema?

    «Certo che c’è, ma Internet non ne è la causa, ne è solo un veicolo. Le cause delle proteste antisistema vanno cercate invece nella crisi di fiducia verso la democrazia. E questa a sua volta deriva dal fatto che viviamo in un pianeta globalizzato e con una grandissima interdipendenza, ma gli strumenti che abbiamo a disposizione per gestire questa nuova condizione sono quelli ereditati dai nostri nonni e propri dello Stato nazionale: quando cioè una decisione presa in una capitale aveva realizzazione nel territorio di quel Paese e non valeva cinque centimetri più in là.

    Adesso invece l’interdipendenza è mondiale e gli Stati nazionali sono incapaci di gestirla.

    Così oggi i governi sono sotto una doppia pressione: da un lato devono rispondere agli elettori, i quali pretendono che i politici realizzino ciò per cui li hanno votati; dall’altra parte, la realtà globale interdipendente — i mercati, le borse, la finanza e altri poteri mai eletti da nessuno — impediscono che questi impegni vengano mantenuti. La crisi di fiducia nasce da questa doppia pressione. Sentiamo tutti che ormai le democrazie non funzionano, ma non sappiamo come aggiustarle o con che cosa rimpiazzarle».

    Di qui nascono i movimenti antisistema?

    «Direi piuttosto che da qui nascono i sentimenti antisistema: attenzione a parlare di movimenti. Che sono un concetto sociologico, mentre il sentimento è un concetto psicologico».

    E questi sentimenti non si traducono in movimenti?

    «Le persone si scambiano reazioni emotive sui social network e magari da lì si organizzano per andare in piazza a protestare. Gridano tutti gli stessi slogan, ma in realtà ciascuno ha interessi diversi e aspettative deluse diverse. Poi si torna a casa contenti della fratellanza con gli altri che si è creata in piazza, ma è una solidarietà falsa.

    Io la chiamo “carnival solidarity” perché mi ricorda appunto quegli eventi in cui per quattro o cinque giorni ci si mette la maschera, si canta e si balla insieme, fuoriuscendo per un tempo definito dall’ordine delle cose.

    Ecco, quelle proteste consentono l’esplosione collettiva di problemi diversi e istanze individuali per un arco di tempo breve, come a carnevale, ma la rabbia non si trasforma in un cambiamento condiviso».

    Alcuni partiti che quanto meno incanalano questi sentimenti però esistono, seppur molto diversi tra loro. Cosa ne pensa?

    «Si trovano anche loro di fronte alla crisi della democrazia di cui abbiamo parlato. E a questa crisi rispondono chi provando a rafforzare la democrazia, chi invece proponendo un “uomo forte” o qualche forma di fondamentalismo politico-religioso. Del resto, se le democrazie non riescono a realizzare le aspettative, non è strano che si cerchi qualcuno a cui attribuire una funzione salvifica, l’uomo “di polso” che sembra in grado di realizzare ciò che le democrazie non sanno mantenere. Un esempio recente è Donald Trump: oggi molti elettori americani possono restare sedotti da chi attacca le istituzioni democratiche e ne deride le rappresentanze. In più il miliardario Trump rappresenta il trasferimento dei consensi dalla leadership al management: dove la leadership è la capacita di fare le cose giuste, “to do right things”, mentre il management è semplicemente la capacità di fare le cose bene, “to do things right”. C’è una grande differenza».

    Questo crollo di fiducia verso la democrazia spiega anche la caratteristica “populista” che viene spesso attribuita ai movimenti antisistema? E lei è d’accordo con questa definizione?

    «“Populisti” in politica sono sempre gli altri, gli avversari. In realtà ogni buon partito dovrebbe essere “populista”, cioè ascoltare cosa pensano e cosa chiedono le persone ordinarie, i semplici cittadini. Invece nel dibattito pubblico la parola viene usata in senso dispregiativo.

    No, non sono preoccupato per la presunta minaccia del “populismo”, ma per la possibile risposta autoritaria alla crisi della democrazia».

    Ma perché in alcuni Paesi la protesta antisistema si è declinata a destra, come in Francia, e in altri a sinistra, come in Spagna?

    «Perché siamo in un interregno, per citare Gramsci quando diceva che “se il vecchio muore e il nuovo non nasce, in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.

    Oggi i vecchi strumenti non funzionano più ma quelli nuovi non ci sono ancora.

    Destra e sinistra erano concetti pieni di significato fino a pochi decenni fa, ma lo sono molto meno nella complessità policentrica del presente».

    In che cosa consiste questa complessità policentrica?

    «Dopo la caduta del Muro di Berlino, alcuni pensatori ipotizzarono la fine della storia, la conclusione del conflitto politico all’interno di un pacifico e definitivo sistema liberal-capitalistico. Si sbagliavano. Il pianeta è molto più diviso e conflittuale di prima, pieno di scontri locali più difficili da capire rispetto a quelli che opponevano tra loro i due blocchi: pensi solo a quello che sta succedendo in Asia centrale, dove arabi musulmani uccidono altri arabi musulmani. Ecco, questo policentrismo complesso sta anche nella politica, dove si intrecciano istanze scollegate tra loro, spesso difficili definire come “di destra” o “di sinistra”. Prima il confronto era tra conservatori e progressisti, tra chi voleva una società basata sul profitto e chi sulla cooperazione: oggi i conflitti sono anche maggiori, ma meno semplici e meno netti».

    Quindi anche quegli apparenti segnali di “ritorno alla sinistra” come Jeremy Corbyn nel Regno Unito o Bernie Sanders negli Stati Uniti sono solo effetti ottici?

    «Sanders rappresenta un fenomeno nuovo e interessante, ma ci sono Paesi in cui la sinistra non esiste più, come nell’est europeo. In generale, il problema contemporaneo della sinistra è la sua “constituency”, il suo blocco elettorale. Una volta era la classe dei lavoratori, che la sinistra difendeva. Oggi però, con i capitali che si muovono in fretta da un paese all’altro, anche gli strumenti con cui prima si tutelavano gli interessi delle classi più basse sono tra quelli che non funzionano più, a iniziare dagli scioperi: se i lavoratori incrociano le braccia, un secondo dopo il proprietario trasferisce la produzione in un Paese in via di sviluppo dove trova gente contenta di guadagnare un paio di dollari al giorno. In questo contesto, molti politici eredi della sinistra sono spaventati dall’idea di irritare le Borse, i mercati, la finanza, insomma i poteri che possono mandare gambe all’aria un Paese in un giorno. Quindi parlano d’altro: ad esempio, si autodefinisce di sinistra la parte politica favorevole ai matrimoni omosessuali. Bello, giusto, d’accordo, ma cosa c’entra con il significato della sinistra? Cosa c’entra con la giustizia sociale, che era la ragion d’essere della sinistra? Poi sì, ci sono anche altri, come Sanders, che invece vogliono rappresentare la protesta contro le leggi globali dei mercati e si candidano per sfidarle. Ne ho molto rispetto, ma non vorrei che si creassero troppe aspettative su quello che si può davvero fare con gli strumenti non più funzionanti propri dell’era dell’interregno. Altrimenti si rischia di restare delusi in fretta, come è avvenuto con Tsipras in Grecia».


    (pubblicato in origine su gilioli.blogautore.espresso.repubblica.i

  • Che cos’è l’Ur-Fascismo?

    Che cos’è l’Ur-Fascismo?

     

     

    Spesso ci troviamo di fronte a personalità politiche, a singole proposte o a interi programmi che suscitano in noi accuse di “fascismo”, pur sapendo che nulla esse hanno a che fare con il fascismo storicamente inteso.

    E non solo il “fascismo” si riscontra in occasioni e in persone temporalmente distanti dal fu Partito Nazionale Fascista: nel corso della storia i detrattori ne hanno ritrovato le caratteristiche in ambiti geograficamente disconnessi.

    Scrive Umberto Eco nel suo saggio Il fascismo eterno (pubblicato come “Totalitarismo fuzzy e ur-fascismo” su La Rivista dei Libri, n°7/8 Luglio/agosto 1995):

    Perché un’espressione come “Fascist pig” veniva usata dai radicali americani persino per indicare un poliziotto che non approvava quello che fumavano? Perché non dicevano: “Porco Caugolard”, “Porco falangista”, “Porco ustascia”, “Porco Quisling”, “Porco Ante Pavelic”, “Porco nazista”?

    Eco parte da questa constatazione per tracciare una distinzione tra i tre principali regimi del Novecento: mentre il nazismo e lo stalinismo furono veri e propri totalitarismi, lo stesso non si può dire del fascismo italiano, il quale rimase una “semplice” dittatura.

    Un regime totalitario, per quanto liberticida e violento sia, è estremamente coerente nei confronti dell’ideologia da cui scaturisce e all’infuori della quale non è dato parlare. Non esiste pensiero fuori dall’unica, vera, filosofia che scorre in ogni angolo del corpo sociale.

    Il nazismo aveva un cuore anticristiano e neopagano, e un testo sacro completo, il Mein Kampf; Stalin fondò il suo regime sulla versione ufficiale del marxismo sovietico, il Diamat, essenzialmente materialista e ateo. Al contrario, il fascismo fu un regime estremamente incoerente e ideologicamente sgangherato, spiega Eco:

    Mussolini non aveva nessuna filosofia: aveva solo una retorica … fu il fascismo italiano a convincere molti leader liberali europei a un’alternativa moderatamente rivoluzionaria alla minaccia comunista … la parola “fascismo” divenne una sineddoche, una pars pro toto per movimenti totalitari diversi … Il fascismo era un totalitarismo fuzzy, un alveare di contraddizioni … nacque proclamando il suo nuovo ordine rivoluzionario ma era finanziato dai proprietari terrieri più conservatori.

    Inoltre, da convinto anticlericale qual era, in quegli anni Mussolini firmò i Patti Lateranensi e non disdegnava di farsi chiamare “l’uomo della Provvidenza”.

    Molti di quelli che diverranno intellettuali del Partito Comunista, dopo l’esperienza nelle fila dei partigiani per la liberazione, negli anni Trenta avevano trovato spazio nei Gruppi Universitari Fascisti. E questo non per contiguità ideologica o per tolleranza dei fascisti verso idee filosofiche o artistiche diverse (Eco cita l’esempio degli ermetici), quanto per l’incapacità dell’apparato intellettuale fascista di controllare e quindi censurare sul nascere fermenti ideologici differenti. La dissidenza veniva violentemente perseguita solo quando diventava socialmente pericolosa per il regime: da qui lo squadrismo con le sue aggressioni a sfondo politico, gli assassinii di Matteotti e dei fratelli Rosselli, il confino ad mortem di Gramsci, la soppressione della libertà di stampa, di associazione, lo smantellamento dei sindacati, il controllo governativo dei mass media e dell’attività legislativa del parlamento fino all’emanazione delle leggi razziali fasciste nell’agosto del 1938.

    In sintesi, «Ci fu un solo nazismo … al contrario, si può giocare al fascismo in molti modi». Il fascismo è una di quelle nozioni che, usando Wittgenstein, indica una serie di attività accomunate da qualche “somiglianza di famiglia”. È quello che accade alla nozione di gioco. Tra le configurazioni possibili, sopravvive una «lista di caratteristiche tipiche» di quello che Eco chiama «Ur-Fascismo o “fascismo eterno”».

    1. Tradizionalismo o culto della tradizione: il fascismo utilizza un approccio sincretistico alla cultura che mette sullo stesso piano conoscenze, anche contraddittorie tra loro, che alludono a una qualche verità primitiva. Il tradizionalismo impedisce così qualsiasi avanzamento del sapere.

    2. Anti-modernismo: l’ideologia del sangue e della terra (Blut und Boden) condanna la Ragione celebrata invece dall’illuminismo.

    3. Irrazionalismo: l’Ur-Fascismo ammira l’azione per l’azione, senza riflessione alcuna. La cultura e il mondo intellettuale sono perciò visti con sospetto (ricordiamo il tradizionalismo).

    4. Anti-criticismo: un approccio sincretistico, teso a racchiudere nello stesso concetto di verità immagini eterogenee tra loro, non tollera le distinzioni operate naturalmente dallo spirito critico. «Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento».

    5. Le distinzioni operate dallo spirito critico sulla realtà danno forma al diverso. Il fascismo eterno, opponendosi al criticismo, è quindi essenzialmente xenofobo e razzista.

    6. Timore per la pressione delle classi subalterne: l’Ur-Fascismo si appella alla frustrazione della classe media e fa leva sul suo horror proletariati.

    7. Complottismo od ossessione del complotto: intimamente legato alla xenofobia (paura del diverso), storicamente si traduce nel nazionalismo dei regimi fascisti. L’ossessione del complotto come strumento di governo individua anche nemici interni allo stato (gli ebrei ne sono il modello).

    8. Incapacità di valutare la forza del nemico: la psicologia fascista alterna senso di umiliazione nei confronti del nemico, troppo forte, alla convinzione della propria superiorità su un nemico in realtà infinitamente più debole. «I fascismi sono condannati a perdere le loro guerre».

    9. Guerra permanente e “vita per la lotta” da cui dedurre una soluzione finale che porti a una pacificata Età dell’Oro, concetto che contravviene però, alla vita come eterna guerra.

    10. Elitismo: l’Ur-Fascismo disprezza i deboli. Storicamente però, dovendo attirare le masse popolare, l’elitismo si è manifestato nel provincialismo dei regimi fascisti.

    11. Eroismo e culto per la morte. Troppo bonario per sognare di morire e per vivere continuamente di lotta, il fascista nel suo quotidiano ripiega su un più semplice

    12. Machismo. Che poi indica una ben più banale invidia penis.

    13. Populismo “qualitativo”: secondo Eco, il fascismo utilizza il concetto di popolo come «entità monolitica che esprime la volontà comune (e non “generale”, aggiungiamo noi)». Da questo populismo comprendiamo l’anti-parlamentarismo e il disinteresse verso la maggioranza. «Nel nostro futuro si profila un populismo qualitativo TV o Internet, … l’Ur-Fascismo deve opporsi ai “putridi” governi parlamentari».

    14. Neolinguismo: per neolingua si intendono alcuni impieghi strumentali del linguaggio e dello studio, impiegati a sostegno del potere costituito. L’Ur-Fascismo promuove l’ignoranza e disprezza il ragionamento, caratteristiche riscontrabili tanto nei talk-show televisivi berlusconiani quanto nel «lessico semplice ed elementare dei testi scolastici nazisti e fascisti».

    La lista qui sopra dà corpo storico alla tesi di Eco secondo cui il fascismo non è un regime totalitaristico, poiché impiega queste caratteristiche senza rispettare uno schema ideologico coerente, disponendone con lo scopo del rafforzamento del proprio potere sull’ordine sociale . Può aiutarci a escludere politici vecchi e nuovi che si ripresentano nella corsa al potere. Con l’augurio di un buon voto.

  • La lezione di Pareto. La politica senza élite non è vera politica

    La lezione di Pareto. La politica senza élite non è vera politica

    L’ingegnere-economista ci ha insegnato che l’essenza della democrazia (assieme al popolo) è la classe dirigente. Più che mai assente oggi in Italia…

    E se il difetto fosse nel manico? Se il problema fosse nella democrazia che non seleziona e non riconosce classi dirigenti ma solo demagoghi, istrioni o emissari dei «poteri forti»? Da anni il dibattito politico è inchiodato all’alternativa tra populismo e democrazia dei partiti, tra presidenzialismo e parlamentarismo.

    Il populismo è una risposta, a volte rozza, spesso semplificatrice, al deficit di sovranità, di politica e di democrazia delle società globali sempre più dominate dalle oligarchie. Ma il populismo, come le oligarchie di partito o d’affari, lascia degenerare un processo necessario a ogni società: la formazione e la circolazione delle élite. S’interrompe la selezione delle classi dirigenti, tutto è affidato agli umori della piazza, al fascino seducente dei leader o all’opposto agli interessi forti tutelati dalle oligarchie, siano esse finanziarie, tecniche o partitocratiche. Da decenni si è spezzato il circuito rigenerativo delle élite.

    L’Italia non forma da anni classi dirigenti e negli ultimi tempi, per restare alla distinzione di Gramsci, non ha più nemmeno una vera e propria classe dominante. Chi domina, bene o male, si occupa dei dominati, li opprime ma li comanda. Da alcuni anni, invece, la classe dominante si è fatta classe sovrastante; cioè vive al di sopra e al di fuori del Paese, non si assume precise responsabilità di comando, nemmeno nel segno della dominazione. Si estranea, non coopta nuove energie, preferisce diminuire i rapporti con la plebe, lascia che un ceto medio sempre più vasto si proletarizzi e sprofondi nel disagio del benessere calante e si ritira in un mondo inaccessibile. La degenerazione è dunque doppia: da classe dirigente a classe dominante e da questa a classe sovrastante. Chi si occupa delle sorti del Paese, quali sono i luoghi in cui si formano le classi dirigenti e si premiano le eccellenze? Processi sempre più anonimi, impersonali, poteri opachi e remoti, flussi e logaritmi. Né si delinea alcun blocco storico e sociale in ascesa. Il flusso vitale è interrotto. Non c’è né il lento e continuo mutarsi senza dissolversi della classe dirigente di cui parlava il conservatore Gaetano Mosca né la lotta tra due élite concorrenti di cui parlava il più audace Vilfredo Pareto (1848-1923). Mosca, Pareto e Michels sono noti come machiavellans . Al pari di Machiavelli si attengono al realismo, ritengono invariabile la natura umana sotto l’egida della necessità, della virtù e della fortuna; si governa con la forza e con l’astuzia. Per loro anche le democrazie sono guidate da minoranze attive, non è mai esistito un governo del popolo; la sovranità è sempre nelle mani di pochi, la storia è un cimitero di aristocrazie e la lotta politica è una competizione tra élite in ascesa e in declino. Una società è sana e vitale se riconosce e promuove le élite al potere e la loro circolazione.

    Degli autori citati, Pareto ha lo sguardo più ampio e più lungo, da economista e da sociologo, oltre che da osservatore della storia e della politica, dei caratteri e dei personaggi. Cent’anni fa scrisse la sua opera capitale, il Trattato di sociologia , che però vide la luce a guerra inoltrata, quando alcune delle sue previsioni si stavano già avverando: in Russia, in Italia e nel resto d’Europa. La sua lezione sull’impossibile autodirezione delle masse ebbe allievi diversi come Lenin e Mussolini, ma anche Gramsci e Gobetti. Si racconta che i due leader si siano sfiorati solo una volta nella vita, a Losanna, seguendo le lezioni di Pareto. Partendo da un giovanile socialismo e poi un disilluso liberismo, Pareto si accorse che le ideologie erano gusci vuoti senza due ingredienti essenziali: la forza e il mito. Qui Pareto combacia con un altro filosofo che accomunò Mussolini e Lenin, ma anche Gramsci e Gobetti: Sorel.

    Pareto e Sorel, due ingegneri convertiti alla storia delle idee. Il mito di Sorel è lo sciopero generale, il mito di Pareto è la nazione. Pareto fu definito il Karl Marx del fascismo; incoraggiò Mussolini al tempo della Marcia su Roma («Ora o mai più»), scrisse sulla rivista mussoliniana Gerarchia e rappresentò l’Italia fascista alla Società delle Nazioni, ma morì troppo presto – il 1923 – per vedere il seguito. Cent’anni fa polemizzò con Maffeo Pantaleoni sugli esiti del conflitto mondiale: Pareto sosteneva che avrebbe favorito rivoluzioni socialiste, Pantaleoni che avrebbe rilanciato lo spirito patriottico. Ebbero ragioni entrambi perché sorsero il bolscevismo e il fascismo, dopo il biennio rosso. Pareto colse nella storia residui e derivazioni. I primi sono fattori non logici ma persistenti, le seconde sono invece la loro rielaborazione logica. Tra i residui spiccano due impulsi opposti: l’istinto delle combinazioni che produce dinamismo e mix innovativi e la persistenza degli aggregati che induce a permanere negli assetti precedenti. Ambedue le spinte sono necessarie in ogni società per garantire equilibrio tra continuità e novità ma oggi ci sembrano entrambi carenti. Deficit di tradizione e di innovazione. Ci sono anche i residui sessuali sui quali si erige il mito virtuista col suo puritanesimo sessuofobo, che Pareto sferza con sagacia.

    Dietro ogni teoria c’è la lotta per la conquista del potere: l’uguaglianza, ad esempio, è un mito che serve prima per rovesciare le classi superiori, poi per affiancarle e infine sottometterle alle classi in ascesa, istituendo così nuove diseguaglianze. La storia e la società sono mosse dal conflitto incessante tra élite che detengono il potere e le altre che vogliono subentrarvi. Anche la democrazia è succube di questa tensione e non c’è suffragio universale che non celi un passaggio di potere da una minoranza a un’altra. La stagnazione uccide i regimi almeno quanto il vorticoso turnover delle élite. Ma è impensabile che una società possa sopravvivere senza classi dirigenti. Da qui la necessità di ripensare alle aristocrazie come a una priorità assoluta per una società che procede con piloti automatici, rotte prestabilite dalla tecno-economia e leader politici ridotti a livello di guitti e animatori, steward e hostess. Si tratta di ripristinare i circuiti in cui si formano le élite – scuole, laboratori, palestre – e i luoghi, il clima, la cultura in cui si riconoscono meriti, qualità e capacità.

    Nella politica come nella società urge ripartire dalle classi dirigenti. Non c’è capo, demos o sistema di leggi che possa compensare la mancanza di élite alla guida del Paese. Pareto lo aveva capito già prima dell’avvento della democrazia globale di massa. Anche una democrazia senza élite è decapitata e destinata a morire, al pari di una democrazia senza popolo.