Il tema della responsabilità nella questione eutanasica è cruciale. Chi è abile a ponderare le cose ha generalmente l’onere della responsabilità, della risposta con un atto all’evenienza delle cose.
Il rimpallo delle responsabilità è gioco ottuso nelle moderne selve dell’amministrazione democratica. La decisionalità e l’adecisionalità sono compagne assai frequenti dell’irresponsabilità per cui di norma accade che tutto venga agito nella più grande libertà senza che nessuno risulti responsabile. L’opacità della responsabilità è il frutto conseguente del guazzabbuglio delle regole. La libertà si presenta vieppiù come azione priva di responsabilità. Chi desidera essere libero desidera ancor di più sottrarsi alle responsabilità. Ogni conquista di libertà avviene con più che proporzionale delega della responsabilità.
Se altrove si percepisce ormai con sufficiente chiarezza, sulla questione eutanasica –
e in generale nel merito dei rapporti tra individui e Stato – il rapporto tra crescita delle libertà e delega delle responsabilità è eclatante.
Forse così si assolve il gravoso compito di comprendere come mai, prima ancora di aver sottratto allo Stato il diritto di comminare una forma della morte, la società dei buoni scalpita per attribuirgli, con l’eutanasia, di nuovo, il potere di uccidere.
La società, per sentirsi libera, chiede allo Stato di assumersi l’onere delle responsabilità che i singoli non vogliono più avere.
Sono tanti i settori nei quali lo Stato è un surrogatore di prestazioni che tolgono ai singoli e alle loro tanto decantate famiglie le responsabilità sociali da cui intendono sottrarsi a tutti i costi.
Il rapporto tra crescita delle libertà e ipertrofia delle deleghe di responsabilità dello Stato ha una lunga gestazione.
La solidarietà sociale tra lavoratori per esempio inizia come mutuo soccorso e viene presto delegata e ingabbiata nello Stato e dallo Stato.
È allo Stato che viene delegata ormai quasi completamente la responsabilità della cura.
C’è una forma della libertà alla quale viene prestato scarso interesse. È la libertà dalla responsabilità e dalla cura. Si desidera essere liberi di non pulire la casa, di non cucinare, di non accudire i bambini, di non curare i genitori anziani. Si desidera essere liberi da ogni responsabilità. L’emancipazione dalle responsabilità di cura avviene o in forma di pecunia se se ne ha la possibilità o delegando allo stato tutto ciò che è possibile delegare.
In quella delega ci si svincola dalle responsabilità, inoltre si rimane titolari a pieno titolo del privilegio alla critica, alla lamentela, alla pretesa di ottenere di più, sempre di più non per il servizio in sé, ma per sottrarsi alle responsabilità che moralmente permane come basso continuo di frustrazione e di indicibilità.
È così che il più assatanato antistatalista non si avvede né della contraddizione né dell’ignominia di pretendere uno Stato ipertrofico.
Lo Stato è condannato perciò a divenire responsabile delle irresponsabilità dei suoi abitanti. Più liberi pretendono di essere, più lo stato deve cumulare poteri. Ecco il potere di delegare i poteri. In questo Stato ricettacolo della irresponsabilità, ciascuno desidera di essere libero di fare ciò che vuole delegando lo Stato a fare tutto ciò che ciascuno non desidera fare e che non riesce, non vuole o non può pagarsi.
È nelle corde di ogni libertario. Predicare la morte dello Stato ma renderlo immortale. Desiderare la morte e renderla immortale. Desiderare la vita è considerarla mortale. Volere uno Stato debole, ma nel contempo ipertrofico.
Così si è liberi dallo Stato solo se si è liberi nello Stato.
Liberi dalla responsabilità, tronfi nel diritto.
Vuoti di responsabilità pieni di diritti.La deresponsabilità dei singoli accresce la responsabilità dello Stato. E ne nutre l’irresponsabilità e l’orrore.
Categoria: Politica per i nipoti
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Res Ponso Abili
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Morte di Stato – Suicidio assistito e analgotanasia
Anche se l’eutanasia non è affatto buona come si pretende, rimane, tutto intero, il problema di evitare la sofferenza superflua in dipartita.
Fino a che punto è lecito che un individuo sopporti livelli intollerabili di sofferenza.
Quando a ciascuno è data la possibilità, se è data, di finire di soffrire?
Sul final campo meglio evitare di sguazzare nell’ovvio.
Anche nella sofferenza l’uguaglianza non esiste. Il gradiente di sopportazione della sofferenza è estremamente differenziato. Vi sono persone che non sopportano neanche l’idea di soffrire. Vi sono persone che vivono male nella sofferenza. Vi sono persone che nella sofferenza esprimono il meglio di sé. Vi sono persone che amano soffrire. Non c’è scandalo. Ciascuno ha diritto di vivere al suo livello di sopportazione.
Chi può sapere veramente se quanto e come si soffre nella dipartita.
Ciascuno ha diritto di pensare ciò che vuole della vita e della morte, quando inizia la vita e quando comincia la morte, cosa c’è prima della vita e cosa dopo della morte.
Sul fatal caso, ciascuno ha diritto di tenersi i propri pensieri le proprie idee e le proprie credenze.
Solo con la forza di tali premesse le parole acquistano senso. Anziché parlare di buona morte meglio parlare dunque di morte indolore, di analgotanasia, posto ma non assodato che il dolore o la sua assenza al momento della dipartita siano comparabili con quelli esperiti nella restante vita.
Se l’eutanasia è aberrazione meglio optare per il suicidio assistito a condizione che non sia lo Stato a comminare la morte del suicida assistito.
La differenza tra suicidio e suicidio assistito è abissale. Con il suicidio ciascuno può di propria mano infliggersi la morte indipendentemente dalle condizioni di salute.
Ogni condanna di tal gesto è inutile e presuntuosa, in ogni caso tardiva. Si può affrontare il problema del suicidio in chiave pedagogica e sociale, ma qualsiasi singulto moralistico è fuori luogo. Dividersi tra stoici, favorevoli, ed epicurei, contrari, ha scarso senso.
Il suicidio assistito invece riguarda quei casi nei quali, vista l’intollerabilità della sofferenza, assodata l’assenza di speranza, viene prestato suicidio aiuto senza passare per gli spesso tristi sentieri del suicidio.
Il suicidio assistito può avvenire in due forme. La prima prevede che il medesimo suicida compia l’atto finale somministrandosi un farmaco o ordinando la fine dell’accanimento terapeutico.
La seconda, laddove l’atto autonomo risulti impossibile, prevede che altri somministrino il farmaco o ordinino la fine dell’accanimento terapeutico in vece del suicida.
In quest’ultimo caso: chi deve prestare materialmente aiuto? Chi deve somministrare il farmaco o ordinare la fine dell’accanimento terapeutico? Chi è giusto che si assuma questa responsabilità? A chi deve essere richiesta responsabilità così delicata? A un ente estraneo e terzo o a una persona di prossimità? A qualcuno a cui freddamente viene demandata una tecnicalità o a qualcun altro in grado di compiere un gesto caldo e amorevole.
Non si dovrebbero nutrire dubbi in proposito, ma coltivare certezze. La responsabilità e l’atto del suicidio assistito dovrebbero tangere esclusivamente le persone di maggiore prossimità. Coniugi, figli, parenti, amici indicati preventivamente in testamento biologico e preventivamente d’accordo. Solo in assenza di persone di prossimità andrebbe ricercato un aiuto terzo, di volontari, ma mai dello Stato per mano di suoi funzionari.
Lo Stato, le strutture mediche, devono solo predisporre che le cose avvengano in modo chiaro e congruo onde evitare confusione e abusi.
Così tra l’altro si ovvierebbe ai casi, si presume numerosi, di obiezione di coscienza.
Lo Stato deve essere sottratto con ogni forza al ruolo di comminatore della morte.
Lo Stato può e deve permettere che il suicidio assistito avvenga. Lo Stato può e deve regolarlo, senza mai comminarlo in proprio.
Il suicidio assistito è già praticato ma andrebbe diffuso universalmente sottraendolo al privilegio, agli abusi e al lucro. -
Morte di Stato – Dallo stato di morte alla morte di Stato
Il concetto di buona morte dell’antichità nulla ha a che fare con la contemporaneità.
In epoca moderna per eutanasia si intende l’atto caritatevole compiuto per porre fine a sofferenze inenarrabili e ad atroci agonie.
Se nell’antichità la buona morte è lo specchio della buona vita, nella contemporaneità l’eutanasia è un espediente per evitare la sofferenza e contrarre verso lo zero il tempo dell’agonia.
La buona morte della contemporaneità non ha alcun legame con la buona vita.
Indipendentemente da come ha condotto la propria esistenza, chiunque lo voglia – se vive in uno dei paesi che la contempla – ha diritto all’eutanasia. La buona morte non è assegnata solo ai meritevoli, ma è indicato come diritto universale.Lo Stato della morte
Ma la differenza che più interessa il filosofare è: chi è il soggetto comminatore dell’eutanasia.
Nell’antichità l’eutanasia era propinata dalla natura – vecchiaia – o dalla propria natura– suicidio o eroismo.
Nella contemporaneità l’eutanasia non si ha né per diritto di natura né per inclinazione alla propria natura, ma per diritto eventualmente sancito dallo Stato.
Ed è lo Stato eventualmente a garantirla, a regolarla e a comminarla.
In questo acrobatico passaggio – dalla sfera naturale o singolare alla sfera statale – i movimenti eutanasici non ci vedono nulla di male. Non lo ritengono un problema.
Questo problema – il fatto cioè che l’eutanasia comminata dallo Stato non sia visto come un problema – rischia di essere più importante del problema in sé dell’eutanasia. Come mai e perché non ci si avvede del pericolo tombale che a comminare la morte possa e debba essere lo Stato? Quel medesimo recalcitrante Stato a cui con immensa fatica, e con risultati non ancora del tutto universali, in una
battaglia che dura millenni, si tenta di sottrarre il potere di comminare la morte a seguito di una condanna.
La contrarietà verso la condanna a morte deriva da un principio etico immarcescibile: qualunque sia la colpa, chiunque sia il colpevole, nessuno, tanto meno lo Stato, ha diritto di uccidere perché uccidendo si macchierebbe di una colpa superiore. La colpa di esponenziare il torto anziché di ripararlo. La colpa di divenire aguzzino ingrassando il circolo dell’abominio. Gli aguzzini assurti a vittime e le vittime smaniose di passare nel campo dell’aguzzinio.
Vietandogli la condanna a morte si nega allo Stato il diritto di uccidere. Quel medesimo diritto di uccidere contemporaneamente lo si chiede a gran voce con l’eutanasia non per eseguire una condanna ma per evitare una pena non giuridica, il dolore dell’agonia o i morsi inguaribili della malattia. Prima ancora di aver definitivamente sottratto allo Stato il suo potere di uccidere, si pretende che lo Stato sia ripristinato nel suo potere di comminare la morte. Questa iperbolica contraddizione si può giustificare solo con la solita giustificazione che ignora il giusto: il fin di bene giustifica il male. Ciò che risulta deplorevole – la condanna a morte comminata dallo Stato – risulta augurabile se agita a fin di bene. Ma chi decide qual è il bene? E chi decide qual è il fin di bene.
Il bene e il buono hanno slittamenti semantici repentini. Si trovano a volte con disinvoltura in compagnia dei peggiori dei mali. Ciò non avviene solo per marcata ingenuità. Accade perché il male è mimetico. Niente, nessuno è capace di mimetizzarsi come il male.
L’eutanasia nel secolo scorso si è ben sposata con l’eugenetica. Eugenetica ed eutanasia rischiano di tornare coppia vincente adesso che la specie ha imparato a dare la caccia a ogni malformazione genetica. Forse avremo geni perfetti, magari diverremo immortali ma per continuare a pretendere l’euzoia, la buona vita, non sarebbe il caso di non assegnare mai più, per nessun altro fine, allo Stato il diritto di uccidere?
La morte di Stato, per qualunque fine venga comminata, è sempre un abominio.
Salvarsi da quell’abominio è fondamentale se si vuole per davvero alleviare qualsiasi pena, pur anche quella della morte.Ma: esiste la buona morte?
La morte è la morte. Catalogarla come buona o cattiva è errore filosofico di notevoli proporzioni. Meglio fermarsi all’obiettivo ultimo del significato che il termine eutanasia, forzando l’etimologia, ha assunto nella contemporaneità: la morte indolore, privata dalla prolungata sofferenza con cui spesso accade. La placida mors dei latini.
Se la buona morte non esiste, se esiste la morte (di cui nulla si sa e nulla si può sapere, soltanto si è in grado di percepire essere qualcosa di differente dalla esperienza della comune vita; sulla quale sospendere il giudizio non per pigrizia etica, ma in quanto la morte si sottrae a qualsiasi giudizio) l’eutanasia antica come quella contemporanea è un’aberrazione. Aberrazione che si moltiplica per almeno altre cinque aberrazioni su cui urgerebbe discussione pubblica priva di contesa sulla cittadella dei supposti, nonché fatui, poteri.1) Con l’eutanasia si giudica la buona dalla cattiva morte giocando con l’assurdo.
2) Con l’eutanasia si propina la morte di Stato e a comminarla è lo stesso Stato.
3) Con quale coerenza lo Stato, privato nella gran parte dei paesi dalla pena di morte, propina la morte di sua propria mano?
4) Se chi viene in nome dello Stato delegato a propinare la morte si rifiuta, diviene, per convinzione o per pretesto, obiettore di coscienza, si potrà lasciarlo libero di obiettare o la sua libertà varrà meno della libertà di praticare l’eutanasia?
5) Quale libertà vale più di altre libertà? -
Morte di Stato (1)
Attivisti d’ogni campo credono disputarsi la morte.
Pretendono sapere quando la morte è buona, eutanasia, e quando invece è cattiva, distanosia o cacatonasia.
Quando è dolorosa, algotanasia, e quando non lo è, analgotanasia.
Si disputano la morte intuendo la vitalità capitale della partita. In quel sacco terminale, di fatti, si spenge e si illumina ogni anelito di vita.
In verità si disputano l’aggettivazione della morte, buona-dolce-amara-cattiva, senza porsi il problema di definire il sostantivo.
Che cosa è la morte. Qualcuno se lo domanda più? Domandarselo è forse inutile per la specie che tocca di propria mente il miraggio dell’immortalità. Ma se non si ha un’idea precisa di cosa sia la morte disputarsi quando sarebbe buona e quando invece è cattiva è sterilità pura.
Tanto più che il tribunale del tempo giudica buono ciò che un tempo non lo era.
Eutanasia in origine vuol dire buona morte. Ma il termine ha subìto nel tempo un poderoso slittamento semantico.
Nella Grecia antica per eutanasia si intendeva per lo più la morte naturale, priva di dolore, accettata con animo sereno, perfetto compimento della perfetta vita. La buona morte dell’antichità avveniva per cause naturali, ma accadeva anche come atto volontario o come esito di una vicenda eroica. Il suicida o l’eroe che muore in battaglia non erano esenti da eutanasia. La buona morte li comprendeva.
Il presupposto etico e teorico dell’eutanasia classica è che il volto della morte assuma le medesime forme della vita. Chi vive nella saggezza è sereno in vita e in morte.
Affronta con tranquillità ogni evento della vita, anche quello ultimo e definitivo con cui la vita finisce di compiersi. Nell’accadere della morte, il compimento della vita deve essere coerente con lo svolgimento dell’intera vita.
Il presupposto più cogente dell’eutanasia antica è che vi può essere buona morte solo se c’è stata buona vita.
Purtroppo per il pensiero antico, per fortuna per le società d’ogni tempo, questo presupposto è privo di fondamento. Che i meritevoli in vita meritino una buona morte magari è auspicabile ma non è affatto dato. La fenomenologia della morte può essere coerente con la fenomenologia della vita, e qualche volta lo è, ma solo per caso. I filosofi dell’antichità hanno forzato il caos del caso trasformandolo in una necessità morale. Hanno preteso di costringere l’accadere in griglie etiche e causali destituite d’ogni fondamento.
Ecco la cornice paradigmatica dell’eutanasia antica:
Ciò che è deve combaciare con ciò che deve essere.
Chi ha condotto buona vita è giusto che abbia buona morte e senz’altro l’avrà.
L’eutanasia è l’atto finale dell’euzoia, della buona vita.
Chi merita è giusto che consegua il bene in ogni campo, chi demerita invece no.
Tale cornice paradigmatica – soprattutto nei lati estremi, che impregnano ogni altro sapere – era e rimane una delle dannazioni principali della filosofia.
Diversamente da quei presupposti, la vita ci dice che, anche secondo i canoni della classicità, vi può essere buona vita e cattiva morte e viceversa non è raro rilevare che a vita cattiva corrisponda una buona morte.
L’idea che l’eutanasia costituisca un giusto premio per chi ha vissuto nella giustizia e nella bontà è avvelenata dalla premialità.
Il premio è un riconoscimento del merito solo per chi non ha mai davvero meritato.
Chi per davvero merita nel premio scruta il trucco, la corruzione, l’ipocrisia. Il premio di chi per davvero merita non è la medaglia al valore o la gratifica. Il premio si compie e si esaurisce nell’atto meritevole, nelle pulsazioni che l’atto meritevole compie per colonizzare i non meritevoli i quali altrimenti continueranno a pretendere premi come risarcimento narcisistico per il congenito demerito del loro agire. -
FASCISMO MAINSTREAM
«Un nuovo fascismo sarà la forma di governo che ci accompagnerà dal nostro presente fino alla catastrofe ecologica?». Se lo chiede Valerio Renzi nel suo ultimo libro “Fascismo Mainstream”. E considerando le risposte reazionarie dei governi globali a crisi sociale e catastrofe climatica, la domanda appare lecita.
«Un nuovo fascismo sarà la forma di governo che ci accompagnerà dal nostro presente fino alla catastrofe ecologica?». Se lo chiede Valerio Renzi nel suo ultimo libro, Fascismo Mainstream (Fandango Libri 2021). E la domanda non sembra affatto campata in aria, soprattutto a ben vedere le deboli e vacue risposte dei governi globali al dramma dell’emergenza climatica, e le crudeli e disumane risposte degli stessi a quei fenomeni migratori di massa che spesso e volentieri nascono proprio dai disastri ecologici.
La stessa domanda se l’era posta qualche anno fa Peter Frase nel suo Quattro modelli di futuro (Treccani 2019) in cui combinando automazione e crisi climatica l’autore individuava quattro possibili sistemi sociali ed economici a venire: il comunismo (abbondanza e uguaglianza), il renditismo (abbondanza e gerarchia), il socialismo (scarsità e uguaglianza) e lo sterminismo (gerarchia e scarsità).
Per evitare che sia l’ultimo a prendere il sopravvento, come molti indicatori sembrano prefigurare, è quindi necessario individuare la dottrina alla base dello stadio più avanzato dello sviluppo capitalista: quello che Valerio Renzi chiama “Fascismo Mainstream”. «Un orizzonte possibile nel nostro futuro» scrive l’autore, «perché i valori, l’organizzazione sociale e la ratio profonda dei rapporti sociali espressi da questo nuovo pensiero reazionario, non solo sono perfettamente compatibili con il capitalismo neoliberista, ma ne rafforzano alcuni elementi diventando una possibile via di fuga dentro la crisi».
Se come avvertiva Mark Fisher non siamo più in grado d’immaginare mondi diversi e possibili – perché abbiamo introiettato che dal presente neoliberale non c’è alcuna via di fuga, il famigerato «there is no alternative» sentenziato dalla “Iron Lady” –, ecco che il (nuovo) fascismo trova il suo fertile terreno.
L’ideologia migliore per sopravvivere in un sistema fondato sul continuo replicarsi e acuirsi delle diseguaglianze (di classe, genere, etnia…) alla ricerca di un biglietto della lotteria che non capiterà mai, è quella fascista: una dottrina sapientemente ibrida e confusa, terrorizzante e salvifica, che ci permette di trovare sempre qualcuno sotto di noi su cui scaricare le nostre frustrazioni.
«Il funzionamento di questo universo discorsivo» scrive Renzi, «non sarebbe stato possibile senza una salda egemonia neoliberista sulle società occidentali, senza la disgregazione della solidarietà di classe, l’abbassamento della conflittualità sindacale e sociale, l’allenamento all’individualismo proprietario e alla competizione.»
A questo punto, se la catastrofe ecologica sembra inevitabile, forse possiamo ancora fare qualcosa per evitare che sia accompagnata da un sistema sociale e politico fondato sullo “sterminismo” di cui parla Frase. Il compito è quindi duplice: innanzitutto capire come e perché siamo arrivati fino a qui; in secondo luogo, dotarci degli strumenti per riconoscere il Fascismo Mainstream non solo nelle sue plastiche rappresentazioni – come possono esserlo i vari Trump, Salvini e Bolsonaro – ma anche e soprattutto nella sue forme più infide e nascoste.
Per intraprendere la prima parte del percorso Valerio Renzi, giornalista e attivista che da anni si occupa dei fenomeni dell’estrema destra, ci accompagna lungo un doppio binario. Non solo l’evoluzione del pensiero fascista-reazionario, da Julius Evola alla nouvelle droite di Alan De Benoist, il cosiddetto gramscismo di destra che ha avuto l’abilità di teorizzare per primo alcune degli elementi oggi al cuore del Fascismo Mainstream, ma anche e soprattutto gli errori della sinistra.
Da una parte quella che l’autore, aumentando il concetto di sacralizzazione della memoria della Shoah teorizzato dalla ricercatrice Valentina Pisanty, chiama “Religione Antifascista di Stato”. Una fossilizzazione del pensiero che «si è trovata a difendere il mondo così come lo conosciamo. È diventata un’ideologia conservatrice, utile a confermare la realtà così com’è, una foglia di fico morale per l’inconsistenza della democrazia liberale, per l’impotenza di un sistema politico ormai esautorato dal capitalismo finanziario».
Dall’altra l’adesione totale e totalizzante della sinistra occidentale ai precetti non tanto del libero mercato, cui già era iscritta, quanto della sua variante austriaca con il portato della sua nefasta ideologia. Per di più tradotta in ordinamento giuridico come hanno spiegato benissimo Pierre Dardot e Christian Laval in La nuova ragione del mondo (DeriveApprodi 2013). Un percorso cominciato negli anni ‘90 con i vari Clinton e Blair che hanno portato la sinistra occidentale a essere incapace di reagire alle varie crisi del capitale del 2008 e del 2011.
E siamo alla seconda questione: come riconoscere il Fascismo Mainstream – cioè il nuovo e spaventoso fascismo che imperversa in modo apparentemente innocuo nei programmi televisivi in prima serata e nei post su Facebook dello zio sorrentiniano – oltre le sue rappresentazioni più plastiche ed evidenti, ovvero nelle sue forme di governo e nel proliferare di attentati di estremisti di destra per nulla solitari e sempre più connessi e organizzati?
Valerio Renzi individua le fondamenta della dottrina del Fascismo Mainstream in due capisaldi, o come acutamente rilevava lo storico Furio Jesi per il fascismo, in due “miti”: il differenzialismo e il politicamente corretto. Due termini d’uso talmente comuni da sembrare ormai neutri, ma che racchiudono invece una molteplicità di ideologie tossiche, pericolose e aberranti.
Il differenzialismo è un razzismo all’apparenza non biologico ma culturale, introdotto dalla nouvelle droite, che al mito del “sangue” sostituisce quello del “suolo”. Non ci sono più, o non ci sono solo, o ci sono ma non lo si dice, razze inferiori biologicamente, più stupide o più cattive, con le quali non ci si deve mischiare. Ma ci sono razze diverse, con bisogni e desideri diversi, che non dobbiamo assimilare ma che dobbiamo “aiutare a casa loro”. Inutile approfondire come sia il “noi” privilegiato della parte di mondo che detiene il 99% della ricchezza globale, dopo averla estratta e depredata all’altra parte, a decidere come sia meglio che gli “altri” restino lì dove sono.
Il politicamente corretto è invece quella foglia di fico, quella mistificazione della realtà dietro cui si nasconde, come spiega molto bene la giurista Kimberlé Crenshaw, l’attacco dei privilegiati all’intersezionalità, ovvero la rivendicazione dell’impossibilità di scindere le oppressioni di classe, genere e razza. Ecco che il maschio bianco, nei secoli proprietario dei mezzi di produzione, della terra, delle donne e degli schiavi – perché ogni fascismo nasce sempre e solo per difendere la proprietà e il sistema sociale ed economico che la garantisce – sentendosi minacciato accusa l’esistenza di una fantomatica dittatura, quella del “politicamente corretto”.
Ribaltando completamente il senso comune, negando decenni di conquista di diritti attraverso le lotte, secondo i proprietari che si sentono minacciati vivremmo oggi in tempi bui, in cui non si possono più insultare le minoranze, infierire contro chi è più debole di noi, altrimenti si erigerebbe una terribile censura orchestrata da fantomatiche lobby di femministe, di non bianchi, di omosessuali. Inutile approfondire, anche qui, come dietro queste fantomatiche lobby che impediscono ai fascisti di essere tali si celi sempre l’antica e innominabile idea che a governare il mondo ci siano loro: gli ebrei.
Avendo accolto il concetto di “Fascismo Mainstream” proposto dall’autore come cassetta degli attrezzi per comprendere il presente, e avendo stabilito come questo sia la forma di governo più semplice e facilmente attuabile per governare la catastrofe, agli essere umani dotati ancora di un minimo di buona volontà resta un solo compito: individuare le manifestazioni di questo inedito pensiero reazionario non tanto nelle sue rappresentazioni più becere ma in quelle apparentemente più innocue, in chi professandosi liberale attacca la fantomatica dittatura del politicamente corretto, in chi da sinistra blatera di “esercito industriale di riserva” per giustificare il suo odio nei confronti dei migranti e ricacciarli indietro. E sarebbe il caso di riconoscere queste persone per quelle che sono: i nuovi fascisti.
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Il popolo di nessuno
A) Sul piano politico interno, in Italia più che altrove accade la messinscena della teatrocrazia con la specifica che c’è un doppio potere del teatro. C’è il potere del teatro che viene inscenato rappresentando i dati di realtà e il potere che si esprime direttamente nella realtà intesa come teatro della vita. A ciascuno è dato di esprimersi nell’una o nell’altra forma.
B) La politica non vive nella realtà del teatro. Aleggia la sua vanagloria nel teatro della realtà, in quel teatro di autoreferenzialità che prende a pugni la realtà delle cose, simulandola maldestramente, e dove nessun attore conta qualcosa fuori dalla scena.
La politica nell’era del suo sfinimento non è più in grado di sussulti eroici. Non dipende dall’incapacità degli attori. Dipende dalla realtà della scena della democrazia contemporanea. In essa il potere del popolo si esercita tanto più quanto il rappresentante esercita solo un metapotere di facciata.
C) Un tempo c’era il popolo democristiano o fascista o comunista.
Ora c’è solo il popolo di nessuno. Il popolo di nessuno coincide con la popolazione.
La politica gli è indifferente e questa indifferenza
non esprime un assenza di desiderio di libertà, ma al contrario una ricerca affannosa di essa. Il popolo di nessuno desidera essere libero ma vive la sua libertà al di fuori della sfera politica.
L’indifferenza verso il potere politico non è percepita dal popolo di nessuno come una limitazione della propria libertà; è viceversa percepita come la forma superiore di libertà nelle democrazie contemporanee.
D) Le libertà sono vieppiù scisse dal potere politico. Non è più il potere politico a decidere quali forme di libertà può tollerare, ma sono le libertà diffuse della popolazione che decidono quali forme di potere politico tollerare. Il potere è avvertito come ostile appena supera la sua soglia di indifferenza verso le libertà della popolazione. E) Ciò che conta ai popoli di nessuno non è quello che avviene nelle sfere dei diritti politici, ma in quelle dei diritti civili. I diritti politici sono un semplice
passpartout per garantirsi, quando occorre, i diritti civili.
F) I diritti civili sono la forma superiore di protagonismo delle masse contemporanee che partecipano così alla vita collettiva nonostante l’indifferenza verso il resto della sfera politica.
G) Chi, con le vicende del covid o del climate change, teme un collasso della democrazia prende
un abbaglio. Nella sospensione di alcune regole democratiche della politica contemporanea non c’è nessuno stato d’eccezione da reincarnare come uno stolido infinito avatar di Karl Schmidt. In quel presunto collasso c’è l’orgasmo della democrazia.
H) Il potere del popolo di nessuno – sempre orrifico, come qualsiasi potere di qualcuno – muta le forme della democrazia, ne mette in mora alcune e ne esalta altre onde adattarsi allo stato della diffusione spazio temporale dei poteri.
I) La democrazia – quel potere che permette i privilegi di parte con il formale consenso di tutti – è viva proprio perché alcuni suoi istituti appaiono morti.
L) I partiti, per esempio. Chi ne ha nostalgia? Come dice il loro nome, fanno gli interessi di una parte, ma le parti della contemporaneità sono troppo fluide per essere rappresentate stabilmente. Infatti, i partiti trionfano e collassano in tempi rapidissimi. Il loro trionfo è già nella caduta.
M) Fin quando sopravvivono, per sopravvivere, i partiti residui fanno ciò che devono fare. Non essendo in grado di decidere, sono costretti a fare ciò che la realtà delle cose ha già deciso. Prendono decisioni non conformi alle idee, che mancano o sono sempre emendabili, ma alla possibilità di racimolare qualche, per quanto fatuo, consenso. Sono attratti da quel consenso che li ossigena e subito dopo li fa
morire.
N) Chi non ha problemi di consenso, Draghi e i suoi avatari, esercita un ruolo efficace fintanto che, e solo se, è in grado di porsi anziché come ostaggio delle parti, al di là e al di sopra di esse.
O) Draghi e i suoi avatari non esistono in rappresentanza dei partiti ma come espressione delle istituzioni.
P) Draghi e i suoi avatari riflettono il primato in questa fase storica delle istituzioni rispetto alla politica e ai politici.
Q) Ciò che sta profondamente cambiando è il regime politico che chiamiamo democrazia. Diversamente da altri periodi storici, il potere tanto più si esercita diffusamente tanto meno necessita che questo esercizio venga rappresentato dalla mediazione politica classica. Dal primo lato, dall’esercizio del potere diffuso, i regimi attuali, in particolare in Europa, sono iperdemocratici. Dal secondo lato, appaiono sempre più ipodemocratici. Il funzionamento del regime politico più diffuso nella contemporaneità – che per comodità si chiama ancora democrazia – esige nel contempo massima diffusione del potere e massima concentrazione della decisione formale a condizione che l’uno e l’altra non vadano in corto circuito.
R) C’è un gran peana sulla crisi della democrazia
che si riflette nella perdita di ruolo dei votati e dei partiti. I partiti sono divenuti un simulacro della democrazia. Il simulacro dei partiti esigerebbe che la democrazia esistesse perché ci sono e fintanto che i partiti esistono. Occorre invece registrare che la democrazia vige nonostante i partiti. Le istituzioni anziché collassare ricevono linfa dalla necrosi dei partiti.
S) I legislatori fanno meno le leggi di quanto le leggi fanno i legislatori. L’Italia rimane una repubblica parlamentare nonostante il Parlamento abbia un ruolo sempre più marginale e il Parlamento approvi decisioni prese in buona parte altrove.
T) Un altro simulacro della democrazia è diventato il voto. Siccome si vota si è in un regime di democrazia. Questo è il pensiero comune. E a un superiore numero di votanti corrisponde un maggiore gradiente di democrazia. Questo è il corollario.
Eppure, la realtà dice altro. Dice che senza alcun bisogno di votare, si conoscono in ogni momento le opinioni del popolo di nessuno. Si vota per necessità e per ritualità.
Ma non è nelle forme più o meno massive in cui si esprime il voto che si possono intuire benessere e malessere delle democrazie.
V) Quando votano tutti vuol dire che c’è paura di qualcuno, quando votano in pochi vuol dire che c’è
indifferenza verso l’esito delle elezioni, indifferenza che significa
assenza di paura. Nell’astensione dal voto il popolo di nessuno dice: non ho paura.
Tutto sommato, nell’astensione politica non c’è una crisi di fiducia, ma al contrario la consapevolezza che, comunque vadano le cose, chiunque sia eletto, i semafori continueranno a funzionare, la macchina istituzionale governerà la sua inerzia.
Z) L’indifferenza verso la politica è una forma di libertà, un lusso, che le società democratiche avanzate si possono permettere.
ZZ) Il voto è diventata una forma di consumo. Si vota se se ne sente la necessità e fino a quando quel voto viene ritenuto abile a qualcosa.
ZZ..) Il voto usa e getta esprime una sensibilità diffusa al consumismo della politica.
Il voto oltre il consumismo è una forma di dipendenza. Il voto come forma di dovere, come feticcio, che il popolo di nessuno avverte sempre meno.
ZZ.. ) Un tempo, ciascuno aveva bisogno del voto per sentirsi, almeno un po’, sovrano. Ora, è il sovrano che ha bisogno del voto, per sentirsi, ancora un po’, re.
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Teatrocrazia della Repubblica
In Italia nasce la diarchia dell’uno. Contro ogni principio giuridico, i due poteri su cui si è appoggiata l’architrave della democrazia degli ultimi lustri rimangono formalmente differenti ma vengono unificati nello stesso nome.
La contemporaneità irride i canoni consunti del diritto e della politica. Le regole costituite, i protocolli del diritto e della politica prevedono che il Presidente del Consiglio non possa ricoprire anche la carica di Presidente della Repubblica.
Nella matematica della realtà l’uno non può diventare due così come il due non diviene uno.
Nella realtà formale l’Italia non ha ciò che è già nella realtà delle cose.
Il fatto è che, comunque vada, il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica sono Mario Draghi.
La realtà formale si srotola secondo la Teatrocrazia di platonica memoria. La realtà delle cose invece accade su un piano parallelo, quello di una matematica virtuale in cui si contempla la possibilità che al di là di divenire formalmente l’uno o l’altro –
Presidente del Consiglio o Presidente della Repubblica – Mario Draghi sia già l’uno e l’altro, uno e bino – Presidente del Consiglio e Presidente della
Repubblica.
Per ricoprire le due cariche è indifferente che egli venga eletto Presidente della Repubblica o rimanga alla Presidenza del Consiglio. Chiunque eletto formalmente nella carica non ricoperta da Draghi è un suo avataro.2
Se anche le due cariche non risultano formalmente ricoperte da lui, sono comunque suoi avatari. L’avataro di Draghi, sia ben inteso, non risponde al suo comando. Non è né un suo clone né un suo ologramma. Draghi, egli medesimo, infatti, è un avataro di Draghi. L’avataro di Draghi ha poco a che fare con le identità posticce dove proliferano improbabili credenze, regni soporiferi e supereroi della frustrazione.
L’avataro di Draghi nasce dalla realtà dinamica della storia contemporanea la cui vivescenza brilla proprio dove più appare sfinita.
Il due dell’uno non è l’uno reincarnato. È l’uno che appare anche in forma di due o di tre. In questo caso, è Draghi sia se si chiama come lui, sia se assume altro corpo e nome.
È ridicolo quando a una singola persona vengono attribuiti i meriti o le infamie di un’intera comunità. Lei, quella persona, a meno dei deliri egoici sempre partoribili, sa bene di essere un avataro di ciò che è inscritto nel suo nome, dell’azione storica che interpreta
più o meno degnamente. In lei si esprime ciò che intere comunità balbettano sul palcoscenico della storia. Lei, quella persona, pur balbettando e 2 Chiamiamo avataro l’ubiquitaria forma di chi mantiene i suoi caratteri essenziali anche quando muta corpo o nome. L’avataro non è uguale all’originale sia perché l’originale esso stesso di continuo muta sia perché pur nell’ubiquità due cose uguali non esistono.
incespicando come ha fatto il 17 febbraio 2021 Draghi da Presidente del consiglio chiedendo la fiducia – ricordate? “… in questo momento due milioni sono ricoverati in terapia intensiva” – deve semplicemente risultare, nonostante i propri spasmi e le proprie meschinità, all’altezza di quella storia inscenata davanti ai suoi occhi.
Draghi e i suoi avatari assumono le forme di un accadere storico che li prescinde incarnandoli. Il vero avataro di Draghi, ciò che lo muove in ogni istante, ha un nome: Italia mundi. L’Italia che non appartiene solo a se stessa ma al mondo intero.3
La realtà è teatro. Il teatro della realtà non può prescindere dalla realtà, ma è costretto a stargli sempre o troppo avanti o troppo indietro. Vi sono le retroguardie e le avanguardie. La politica sta in retroguardia, asfittica e impotente. Le cose stanno in avanguardia.
In avanguardia ci sono le Istituzioni, c’è Draghi Presidente del Consiglio e Draghi Presidente della Repubblica. In retroguardia ci sono i politici, i partiti, e il parlamento.
Nessuno vuole Draghi alla Presidenza della Repubblica, ma siccome nessuno è in grado di decidere chi altro eleggere si finisce per votarlo o si vota un suo avataro.
Nel caso di un moto improprio, dell’elezione di un partigiano non avataro di Draghi, l’eletto si adegua presto a lui o va a schiantarsi tra Scilla e Cariddi dell’Europa.
Non è semplice pusillanimità italica. La politica in ogni parte del pianeta è incapace di agire. Reagisce tardi e a fatica solo sul baratro.
Draghi e i suoi avatari non prenderebbero forma se nella realtà del teatro politico contemporaneo non fossero accadute grandi trasformazioni. In particolare, sul piano internazionale:
1) Dopo l’uscita del Regno Unito, l’Italia suo malgrado svolge un ruolo centrale nell’UE.
2) L’austerità, anche grazie al generale Covid, non intossica più l’aria europea.
3 Per questo concetto si rimanda a Europa Mundi, rilasciato da pianetica.org nel settembre 2021
3) Per effetto di una perdurante inadeguatezza, gli Usa non sono in grado di tenere un profilo d’equilibrio nella situazione internazionale. Il caso Ucraina è eclatante. Eppure, in quel contesto l’avataro di Draghi avrebbe già una proposta: è inutile che l’Ucraina entri nel moribondo involucro della Nato –
la Russia ha un buon pretesto a chiedere che non vi entri – a condizione che l’Ucraina possa, quando lo vorrà e quando ne avrà i presupposti, entrare nella UE. Nei territori contesi, il modello Alto Adige – riconoscimento delle specificità lingustiche, privilegi anziché discriminazioni nell’appartenere a un Paese d’altra lingua – è pronto ad assicurare pace e prosperità della frontiera.
4) Tutti gli attori geopolitici che disgraziatamente ancora sgomitano per avere un peso maggiore nelle gerarchie mondiali necessitano di un punto oblativo di contatto e di mediazione. Questo punto oblativo sempre più chiaramente si chiamerà: Europa. Ne hanno bisogno la Russia, la Cina, gli Usa, il mondo intero.
5) Le crisi planetarie devastanti e ricorrenti non possono essere affrontate secondo gli interessi delle singole parti. Emerge sempre più chiaramente che nessun interesse particolare può essere coltivato prima e contro l’interesse planetario.
6) Sugli aspetti fondamentali, gli interessi dell’Europa, dunque dell’Italia, coincidono con gli interessi planetari. Europa mundi è Italia mundi.
7) Ne consegue che all’Italia tocca giocare in Europa lo stesso ruolo che compete all’UE nel resto del pianeta.
8) In questo momento storico allo spazio geografico chiamato Italia tocca un ruolo mai avuto dai tempi della massima unità di Augusto o della massima frammentazione dei Comuni. Un essere per il mondo al di là della particolarità dell’essere. Ecco la singolarità d’avanguardia – personale, spaziale, temporale
– ai tempi della Pianetica4.
Per il concetto di Pianetica si rimanda al libro in uscita: Pianetica, di Pino Tripodi e Giuseppe Genna, Milano 2022
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Prima dello gnomologio tanatologico.
Una di noi è penetrato con difficoltà, almeno pari alla lucidità, per non dire al coraggio, e quindi alla paura e all’amore che la rinfocola, quasi la paura ne fosse la carnagione – una di noi è penetrato in territori estremi, dove la mortevita è vitamorte, laddove l’ossigeno sembrerebbe troppo puro e saturante, cosicché a quelle latitudini il respiro si fa quasi impossibile. Come avremmo desiderato essere innervati in polmoni più capaci!, o comunque di fattezze altre, per riuscire a innescare il fiato più ampio, per corroborarci all’aria ultrafina, che rende le nostre
bisacce più macre e inadatte alle lontananze dei cosmi, in cui avremmo in animo di adattarci. . Terre di gas nobilissimi e impossibili, crotti nei massicci asperrimi. Climi estremi in radure estreme. Asperità geometriche, come quarzi scuri, barbagli di un sole che fatica a penetrare e risplendere, così come fatica a penetrare e risplendere chi di noi è giunto là, dove lo spazio della mortevita e della vitamorte barbaglia e inghiotte. Pare un fuoco freddo e fatuo ciò che ci prende, noi grigie stole nella corona gelida dei territori mutili di tutto, privi di bandiera, poiché nessuno Stato ha qui reclamato la proprietà di lande e monti, di abissi. La Scizia del respiro. Dietro quelle altissime alture squadrate e quei crepacci e orridi non si pensa cosa c’è, lo si conosce soltanto. Ogni Prometeo incatenato, sarà costretto a scatenarsi, prima o poi.
L’altra di noi, spaventato e riottoso, ha provato l’impresa, ma le forze lo hanno abbandonato. Crede di avere esplorato quei territori, sorvolandoli con le ali del pensiero, parole sibilline gli sono state sussurrate all’orecchio e le mastica e le rimastica negli anni e negli annali, prima di intraprendere il percorso diaccio, la formula delle decreazioni lo atterrisce e la esalta. Tutto è incerto: significa forse che non c’è controllo? Urla, scalpita, punta i talloni, non va dove è andato l’altro, ama
forse non trascorrere verso il clima geometrico e duro dall’aria tepida in cui è stato finora e che ha il
calore della guancia e dalla primavera che arrugginisce.
Il cambiamento climatico.
L’una di noi, penetrato in quelle terre di follia, torna indietro a riprendere l’altra di noi. Così fanno i compagni di viaggio. Sono fratelli e sorelle, sono padri e madri, sono figlie e figli e tutto ciò assieme, sconvolta ogni forma, esclusa la confusione, che regna sovrana.
La confusione è sovrana.
Ricongiuntisi, l’una di noi e l’una di noi annottano in una tenda, male in arnese, attorno al fornello chimico che un minimo di calore garantisce loro, di stare su una porziuncola di terra, di bere un poco di acqua scaldata al fuocherello, di inspirare l’aria non raddensata dal gelo finale.
Discutono della morte, della vita, della morte della morte, della vita della vita.
Discordano. S’agitano. Tentano ipotesi, le vedono sbricolarsi come cartigli egizi, lacerti di cartapecora vergati dal popolo emblematico, che ha elaborato per sempre e per mai il proprio universale libro dei morti.
Si accapigliano, sembrano divorarsi l’un l’altra. Il crepitio delle loro parole incrina l’atmosfera? No.
Perché, come se fossero vivi, vestiamo i morti?
Quanto più casta e giusta è la nudità dei corpi, che li avvicina al loro finalmente disincarnarsi. .
Ma l’una di noi e l’una di noi confliggono, non credono all’altro e credono a se stessi.
Questa è la filìa. E’ stare attenti, nella confusione che genera l’accordo e il disaccordo, forme generali che si partoriscono da sé nella filìa. Essere amici della sapienza è anzitutto essere amici. Così come la vita della vita, che è la morte della morte, si illustra nelle forme della vita e negli esiti della morte, anche la filìa, che è sapienza della sapienza e ignoranza dell’ignoranza, si definisce, transitoria e priva di supplica, nelle forme dell’accordo e del disaccordo.
Siamo in disaccordo nella filìa.
Un attimo stiamo parlando.
Della morte diremo, della morte della morte, forse, qualche sillaba in più.
Stiamo, stanno, estendendo il loro Gnomologio Tanatologico.
Sono sentenze oscure, sbagliate, sballate, balbettano, sono barbare.
Qualche sentenza, smozzicata dal viverla, la sentenza, arriverà.
Non c’è discorso sul cosmo che non contempli la fine del cosmo. Loro sono a quel punto, loro che
siamo noi.
Abbiamo detto qualcosa. Abbiamo detto il qualcosa.
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Res Ponso Abili
Il tema della responsabilità nella questione eutanasica è cruciale. Chi è abile a ponderare le cose ha generalmente l’onere della responsabilità, della risposta con un atto all’evenienza delle cose.
Il rimpallo delle responsabilità è gioco ottuso nelle moderne selve dell’amministrazione democratica. La decisionalità e l’adecisionalità sono compagne assai frequenti dell’irresponsabilità per cui di norma accade che tutto venga agito nella più grande libertà senza che nessuno risulti responsabile. L’opacità della responsabilità è il frutto conseguente del guazzabbuglio delle regole. La libertà si presenta vieppiù come azione priva di responsabilità. Chi desidera essere libero desidera ancor di più sottrarsi alle responsabilità. Ogni conquista di libertà avviene con più che proporzionale delega della responsabilità.
Se altrove si percepisce ormai con sufficiente chiarezza, sulla questione eutanasica –
e in generale nel merito dei rapporti tra individui e Stato – il rapporto tra crescita delle libertà e delega delle responsabilità è eclatante.
Forse così si assolve il gravoso compito di comprendere come mai, prima ancora di aver sottratto allo Stato il diritto di comminare una forma della
morte, la società dei buoni scalpita per attribuirgli, con l’eutanasia, di nuovo, il potere di uccidere.
La società, per sentirsi libera, chiede allo Stato di assumersi l’onere delle responsabilità che i singoli non vogliono più avere.
Sono tanti i settori nei quali lo Stato è un surrogatore di prestazioni che tolgono ai singoli e alle loro tanto decantate famiglie le responsabilità sociali da cui intendono sottrarsi a tutti i costi.
Il rapporto tra crescita delle libertà e ipertrofia delle deleghe di responsabilità dello Stato ha una lunga gestazione.
La solidarietà sociale tra lavoratori per esempio inizia come mutuo soccorso e viene presto delegata e ingabbiata nello Stato e dallo Stato.
È allo Stato che viene delegata ormai quasi completamente la responsabilità della cura.
C’è una forma della libertà alla quale viene prestato scarso interesse. È la libertà dalla responsabilità e dalla cura. Si desidera essere liberi di non pulire la casa, di non cucinare, di non accudire i bambini, di non curare i genitori anziani. Si desidera essere liberi da ogni responsabilità. L’emancipazione dalle responsabilità di cura avviene o in forma di pecunia se se ne ha la possibilità o delegando allo stato tutto ciò che è possibile delegare.
In quella delega ci si svincola dalle responsabilità, inoltre si rimane titolari a pieno titolo del privilegio alla critica, alla lamentela, alla pretesa di ottenere di più, sempre di più non per il servizio in sé, ma per sottrarsi alle responsabilità che moralmente permane come basso continuo di frustrazione e di indicibilità.
È così che il più assatanato antistatalista non si avvede né della contraddizione né dell’ignominia di pretendere uno Stato ipertrofico.
Lo Stato è condannato perciò a divenire responsabile delle irresponsabilità dei suoi abitanti. Più liberi pretendono di essere, più lo stato deve cumulare poteri. Ecco il potere di delegare i poteri. In questo Stato ricettacolo della irresponsabilità, ciascuno desidera di essere libero di fare ciò che vuole delegando lo Stato a fare tutto ciò che ciascuno non desidera fare e che non riesce, non vuole o non può pagarsi.
È nelle corde di ogni libertario. Predicare la morte dello Stato ma renderlo immortale. Desiderare la morte e renderla immortale. Desiderare la vita è considerarla mortale. Volere uno Stato debole, ma nel contempo ipertrofico.
Così si è liberi dallo Stato solo se si è liberi nello Stato.
Liberi dalla responsabilità, tronfi nel diritto.
Vuoti di responsabilità pieni di diritti.
La deresponsabilità dei singoli accresce la responsabilità dello Stato. E ne nutre l’irresponsabilità e l’orrore.
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Suicidio eutanasia
Morte di Stato
Attivisti d’ogni campo credono disputarsi la morte. Pretendono sapere quando la morte è buona, eutanasia, e quando invece è cattiva, distanosia o cacatonasia.
Quando è dolorosa, algotanasia, e quando non lo è, analgotanasia.
Si disputano la morte intuendo la vitalità capitale della partita. In quel sacco terminale, di fatti, si spenge e si illumina ogni anelito di vita.
In verità si disputano l’aggettivazione della morte, buona-dolce-amara-cattiva, senza porsi il problema
di definire il sostantivo.
Che cosa è la morte. Qualcuno se lo domanda più? Domandarselo è forse inutile per la specie che tocca di propria mente il miraggio dell’immortalità. Ma se non si ha un’idea precisa di cosa sia la morte disputarsi quando sarebbe buona e quando invece è cattiva è sterilità pura.
Tanto più che il tribunale del tempo giudica buono ciò che un tempo non lo era.
Eutanasia in origine vuol dire buona morte. Ma il termine ha subìto nel tempo un poderoso slittamento semantico.
Nella Grecia antica per eutanasia si intendeva per lo più la morte naturale, priva di dolore, accettata con animo sereno, perfetto compimento della perfetta vita. La buona morte dell’antichità avveniva per cause naturali, ma accadeva anche come atto volontario o come esito di una vicenda eroica. Il suicida o l’eroe che muore in battaglia non erano esenti da eutanasia. La buona morte li comprendeva.
Il presupposto etico e teorico dell’eutanasia classica è che il volto della morte assuma le medesime forme della vita. Chi vive nella saggezza è sereno in vita e in morte.
Affronta con tranquillità ogni evento della vita, anche quello ultimo e definitivo con cui la vita finisce di compiersi. Nell’accadere della morte, il compimento
della vita deve essere coerente con lo svolgimento dell’intera vita.
Il presupposto più cogente dell’eutanasia antica è che vi può essere buona morte solo se c’è stata buona vita.
Purtroppo per il pensiero antico, per fortuna per le società d’ogni tempo, questo presupposto è privo di fondamento. Che i meritevoli in vita meritino una buona morte magari è auspicabile ma non è affatto dato. La fenomenologia della morte può essere coerente con la fenomenologia della vita, e qualche volta lo è, ma solo per caso. I filosofi dell’antichità hanno forzato il caos del caso trasformandolo in una necessità morale. Hanno preteso di costringere l’accadere in griglie etiche e causali destituite d’ogni fondamento.
Ecco la cornice paradigmatica dell’eutanasia antica:
Ciò che è deve combaciare con ciò che deve essere.
Chi ha condotto buona vita è giusto che abbia buona morte e senz’altro l’avrà.
L’eutanasia è l’atto finale dell’euzoia, della buona vita.
Chi merita è giusto che consegua il bene in ogni campo, chi demerita invece no.
Tale cornice paradigmatica – soprattutto nei lati estremi, che impregnano ogni altro sapere – era e rimane una delle dannazioni principali della filosofia.
Diversamente da quei presupposti, la vita ci dice che, anche secondo i canoni della classicità, vi può essere buona vita e cattiva morte e viceversa non è raro rilevare che a vita cattiva corrisponda una buona morte.
L’idea che l’eutanasia costituisca un giusto premio per chi ha vissuto nella giustizia e nella bontà è avvelenata dalla premialità.
Il premio è un riconoscimento del merito solo per chi non ha mai davvero meritato.
Chi per davvero merita nel premio scruta il trucco, la corruzione, l’ipocrisia. Il premio di chi per davvero merita non è la medaglia al valore o la gratifica. Il premio si compie e si esaurisce nell’atto meritevole, nelle pulsazioni che l’atto meritevole compie per colonizzare i non meritevoli i quali altrimenti continueranno a pretendere premi come risarcimento narcisistico per il congenito demerito del loro agire.
Dallo stato di morte alla morte di Stato
Il concetto di buona morte dell’antichità nulla ha a che fare con la contemporaneità.
In epoca moderna per eutanasia si intende l’atto caritatevole compiuto per porre fine a sofferenze inenarrabili
e ad atroci agonie.
Se nell’antichità la buona morte è lo specchio della buona vita, nella contemporaneità l’eutanasia è un espediente per evitare la sofferenza e contrarre verso lo zero il tempo dell’agonia.
La buona morte della contemporaneità non ha alcun legame con la buona vita.
Indipendentemente da come ha condotto la propria esistenza, chiunque lo voglia –
se vive in uno dei paesi che la contempla – ha diritto all’eutanasia. La buona morte non è assegnata solo ai meritevoli, ma è indicato come diritto universale.
Lo Stato della morte
Ma la differenza che più interessa il filosofare è: chi è il soggetto comminatore dell’eutanasia.
Nell’antichità l’eutanasia era propinata dalla natura – vecchiaia – o dalla propria natura
– suicidio o eroismo.
Nella contemporaneità l’eutanasia non si ha né per diritto di natura né per inclinazione alla propria natura, ma per diritto eventualmente sancito dallo Stato.
Ed è lo Stato eventualmente a garantirla, a regolarla e a comminarla.
In questo acrobatico passaggio – dalla sfera naturale o singolare alla sfera statale – i movimenti eutanasici non ci vedono nulla di male. Non lo ritengono un problema.
Questo problema – il fatto cioè che l’eutanasia comminata dallo Stato non sia visto come un problema – rischia di essere più importante del problema in sé dell’eutanasia. Come mai e perché non ci si avvede del pericolo tombale che a comminare la morte possa e debba essere lo Stato? Quel medesimo recalcitrante Stato a cui con immensa fatica, e con risultati non ancora del tutto universali, in una
battaglia che dura millenni, si tenta di sottrarre il potere di comminare la morte a seguito di una condanna.
La contrarietà verso la condanna a morte deriva da un principio etico immarcescibile: qualunque sia la colpa, chiunque sia il colpevole, nessuno, tanto meno lo Stato, ha diritto di uccidere perché uccidendo si macchierebbe di una colpa superiore. La colpa di esponenziare il torto anziché di ripararlo. La colpa di divenire aguzzino ingrassando il circolo dell’abominio. Gli aguzzini assurti a vittime e le vittime smaniose di passare nel campo dell’aguzzinio.
Vietandogli la condanna a morte si nega allo Stato il diritto di uccidere. Quel medesimo diritto di uccidere contemporaneamente lo si chiede a gran voce con l’eutanasia non per eseguire una condanna
ma per evitare una pena non giuridica, il dolore dell’agonia o i morsi inguaribili della malattia. Prima ancora di aver definitivamente sottratto allo Stato il suo potere di uccidere, si pretende che lo Stato sia ripristinato nel suo potere di comminare la morte. Questa iperbolica contraddizione si può giustificare solo con la solita giustificazione che ignora il giusto: il fin di bene giustifica il male. Ciò che risulta deplorevole – la condanna a morte comminata dallo Stato – risulta augurabile se agita a fin di bene. Ma chi decide qual è il bene? E chi decide qual è il fin di bene.
Il bene e il buono hanno slittamenti semantici repentini. Si trovano a volte con disinvoltura in compagnia dei peggiori dei mali. Ciò non avviene solo per marcata ingenuità. Accade perché il male è mimetico. Niente, nessuno è capace di mimetizzarsi come il male.
L’eutanasia nel secolo scorso si è ben sposata con l’eugenetica. Eugenetica ed eutanasia rischiano di tornare coppia vincente adesso che la specie ha imparato a dare la caccia a ogni malformazione genetica. Forse avremo geni perfetti, magari diverremo immortali ma per continuare a pretendere l’euzoia, la buona vita, non sarebbe il caso di non assegnare mai più, per nessun altro fine, allo Stato il diritto di uccidere?
La morte di Stato, per qualunque fine venga comminata,
è sempre un abominio.
Salvarsi da quell’abominio è fondamentale se si vuole per davvero alleviare qualsiasi pena, pur anche quella della morte.
Esiste la buona morte?
Ma: esiste la buona morte?
La morte è la morte. Catalogarla come buona o cattiva è errore filosofico di notevoli proporzioni. Meglio fermarsi all’obiettivo ultimo del significato che il termine eutanasia, forzando l’etimologia, ha assunto nella contemporaneità: la morte indolore, privata dalla prolungata sofferenza con cui spesso accade. La placida mors dei latini.
Se la buona morte non esiste, se esiste la morte (di cui nulla si sa e nulla si può sapere, soltanto si è in grado di percepire essere qualcosa di differente dalla esperienza della comune vita; sulla quale sospendere il giudizio non per pigrizia etica, ma in quanto la morte si sottrae a qualsiasi giudizio) l’eutanasia antica come quella contemporanea è un’aberrazione. Aberrazione che si moltiplica per almeno altre cinque aberrazioni su cui urgerebbe discussione pubblica priva di contesa sulla cittadella dei supposti, nonché fatui, poteri.
1) Con l’eutanasia si giudica la buona dalla cattiva morte giocando con l’assurdo.
2) Con l’eutanasia si propina la morte di Stato e a
comminarla è lo stesso Stato.
3) Con quale coerenza lo Stato, privato nella gran parte dei paesi dalla pena di morte, propina la morte di sua propria mano?
4) Se chi viene in nome dello Stato delegato a propinare la morte si rifiuta, diviene, per convinzione o per pretesto, obiettore di coscienza, si potrà lasciarlo libero di obiettare o la sua libertà varrà meno della libertà di praticare l’eutanasia?
5) Quale libertà vale più di altre libertà?
Suicidio assistito e analgotanasia
Anche se l’eutanasia non è affatto buona come si pretende, rimane, tutto intero, il problema di evitare la sofferenza superflua in dipartita.
Fino a che punto è lecito che un individuo sopporti livelli intollerabili di sofferenza.
Quando a ciascuno è data la possibilità, se è data, di finire di soffrire?
Sul final campo meglio evitare di sguazzare nell’ovvio.
Anche nella sofferenza l’uguaglianza non esiste. Il gradiente di sopportazione della sofferenza è estremamente differenziato. Vi sono persone che non sopportano neanche l’idea di soffrire. Vi sono persone che vivono male nella sofferenza. Vi sono persone che nella sofferenza esprimono il meglio di sé. Vi sono persone che amano soffrire. Non c’è scandalo. Ciascuno ha diritto di vivere al suo livello di sopportazione.
Chi può sapere veramente se quanto e come si soffre nella dipartita.
Ciascuno ha diritto di pensare ciò che vuole della vita e della morte, quando inizia la vita e quando comincia la morte, cosa c’è prima della vita e cosa dopo della morte.
Sul fatal caso, ciascuno ha diritto di tenersi i propri pensieri le proprie idee e le proprie credenze.
Solo con la forza di tali premesse le parole acquistano senso. Anziché parlare di buona morte meglio parlare dunque di morte indolore, di analgotanasia, posto ma non assodato che il dolore o la sua assenza al momento della dipartita siano comparabili con quelli esperiti nella restante vita.
Se l’eutanasia è aberrazione meglio optare per il suicidio assistito a condizione che non sia lo Stato a comminare la morte del suicida assistito.
La differenza tra suicidio e suicidio assistito è
abissale. Con il suicidio ciascuno può di propria mano infliggersi la morte indipendentemente dalle condizioni di salute.
Ogni condanna di tal gesto è inutile e presuntuosa, in ogni caso tardiva. Si può
affrontare il problema del suicidio in chiave pedagogica e sociale, ma qualsiasi singulto moralistico è fuori luogo. Dividersi tra stoici, favorevoli, ed epicurei, contrari, ha scarso senso.
Il suicidio assistito invece riguarda quei casi nei quali, vista l’intollerabilità della sofferenza, assodata l’assenza di speranza, viene prestato suicidio aiuto senza passare per gli spesso tristi sentieri del suicidio.
Il suicidio assistito può avvenire in due forme. La prima prevede che il medesimo suicida compia l’atto finale somministrandosi un farmaco o ordinando la fine dell’accanimento terapeutico.
La seconda, laddove l’atto autonomo risulti impossibile, prevede che altri somministrino il farmaco o ordinino la fine dell’accanimento terapeutico in vece del suicida.
In quest’ultimo caso: chi deve prestare materialmente aiuto? Chi deve somministrare il farmaco o ordinare la fine dell’accanimento terapeutico? Chi è giusto che si assuma questa responsabilità? A chi
deve essere richiesta responsabilità così delicata? A un ente estraneo e terzo o a una persona di prossimità? A qualcuno a cui freddamente viene demandata una tecnicalità o a qualcun altro in grado di compiere un gesto caldo e amorevole.
Non si dovrebbero nutrire dubbi in proposito, ma coltivare certezze. La responsabilità e l’atto del suicidio assistito dovrebbero tangere esclusivamente le persone di maggiore prossimità. Coniugi, figli, parenti, amici indicati preventivamente in testamento biologico e preventivamente d’accordo. Solo in assenza di persone di prossimità andrebbe ricercato un aiuto terzo, di volontari, ma mai dello Stato per mano di suoi funzionari.
Lo Stato, le strutture mediche, devono solo predisporre che le cose avvengano in modo chiaro e congruo onde evitare confusione e abusi.
Così tra l’altro si ovvierebbe ai casi, si presume numerosi, di obiezione di coscienza.
Lo Stato deve essere sottratto con ogni forza al ruolo di comminatore della morte.
Lo Stato può e deve permettere che il suicidio assistito avvenga. Lo Stato può e deve regolarlo, senza mai comminarlo in proprio.
Il suicidio assistito è già praticato ma andrebbe diffuso universalmente sottraendolo al privilegio, agli abusi e al lucro.
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Europa mundi – Pianetica
Europa non è europea. Lo dice il mito.
L’Europa non è solo europea. Lo chiarisce la storia.
La geografia lo mostra: Europa è pregna di sconfini che rendono ardui e mutevoli i tentativi di definirla in una sua fisicità. E i mari e l’Atlantico, a suon di flutti, ora la dividono ora la uniscono al suo restante mondo.
L’Europa è uno spazio alquanto indefinito che smargina il tempo e sopporta le sue slabbrature.
In summa, l’Europa, che è anche europea, ha nei suoi geni i caratteri di Europa mundi.
L’Europa esiste solo in quanto è Europa mundi. L’Europa del mondo.
L’esplodere della crisi afghana ha reso baliosi e incontinenti i lamenti sull’inconsistenza militare dell’Europa, sulla necessità che essa crei un esercito proprio, rafforzi in armi la sua difesa, si metta al pari delle altre grandi potenze per giocare un ruolo analogo nei destini del mondo contemporaneo. Tali posizioni, prive di contraddittorio, nuocciono non solo all’Europa ma al mondo intero e mettono seriamente in pericolo i suoi abitanti.
Per offrire una diversa chiave al problema, è utile chiedersi:
Cos’è l’Europa?
Qual è la sua forza?
Dove inizia, dove finisce, quando e come si definisce? È uno spazio politico o è una politica dello spazio?
La politica vive nell’imperituro imbarazzo di misurare l’Europa. Quanto è grande?
Quanto è piccina?
L’ossessione per la precisione tiene l’errore in agguato.
Eppure, è possibile, forse anche conveniente, prendere le misure dell’Europa in modo non autistico, concependole come espressioni di relazione tra l’Europa e il suo mondo che è Europa solo se è l’intero mondo.
Le misure dell’Europa come unità di relazione anziché come identità assoluta permettono di concepirla grande in grazia della sua piccolezza militare e piccina quando manifesta pruriti di grandezza.
Al contrario di ciò che il canone politico ritiene, la forza dell’Europa sta nella sua debolezza militare, la sua consistenza strategica è direttamente proporzionale all’inconsistenza dei suoi armamenti, il suo benessere non è limitato dalla sua scarsa forza bellica ma è seriamente messo in pericolo dalla sua,
per ora solo accennata, volontà di potenza.
Inoltre, se l’Europa provasse a superare il gap militare con le altre grandi potenze, quanto tempo impiegherebbe? Con quali costi? E nella corsa agli armamenti, non finirebbe dissanguata come l’URSS?
Ogni soggetto politico ritiene sempre valida l’equazione potere militare=forza economica.
Ogni soggetto politico desidera aumentare la sua sfera d’influenza ritenendo così di
ottenere enormi vantaggi competitivi.
Le sfere d’influenza un tempo cristallizzavano le gerarchie di potere planetario. Ora sono ingiallite mummie dell’impotenza globale.
Ma l’Europa non è un soggetto politico pari agli altri. L’Europa unita – una prima, larvale espressione dell’Europa a venire – deve il suo potere alla sua flebile potenza bellica. L’Europa unita non nasce da una grande vittoria militare, ma dall’infamia della più grande sconfitta.
L’Europa unita è resa possibile solo dall’abbraccio tra nemici inceneriti dalle proprie guerre dopo secoli di contesa del medesimo spazio.
La politica è tarda di memoria. Eppure chiunque, nell’ultimo tempo, abbia puntato sull’intervento militare, ha ricevuto solo reiterate umiliazioni sul campo,
ottenendo in più solo svantaggi in termini di penetrazione economica e di controllo delle aree geografiche interessate. Di contro, i paesi al riparo dalla competizione militare e dai suoi immensi costi di protezione, hanno avuto ritmi di sviluppo prodigiosi.
Le macerie sono il mercato ideale per le armi ma il mercato delle armi da almeno un secolo è un’infinitesima parte del mercato totale.
I mercanti di armi non sono solo stolti assassini, sono anche dei pessimi mercanti.
Anche l’Europa ha i suoi Afghanistan: tra gli altri, la Siria e la Libia dove più paesi che si pretendono europei hanno pensato stoltamente di inzupparsi nel torbido sicuri di ottenere notevoli vantaggi.
Dal Vietnam alla Libia, passando per l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria, gli attori politici del mondo intero si comportano come vivessero ancora ai tempi di Machiavelli. Ma le regole della guerra sono nel frattempo completamente mutate.
Le vere guerre del presente non si vincono con le armi, anzi si perdono con esse.
Per vincere davvero una guerra nello spazio terrestre bisogna evitare accuratamente di usare le armi. Solo chi ci riesce può ritenersi vittorioso.
I contendenti di una guerra a base d’armi sono
sconfitti già prima di iniziare a combattere indipendentemente dall’esito militare del conflitto.
Le armi sono solo zavorra di cui liberarsi se si vuole volare.
È in ambiente extraterrestre lo spazio prediletto delle guerre prossime venture.
Nello spazio extraterrestre e nel giuoco. Il rapporto tra giuoco e guerra si è invertito.
Un tempo il giuoco simulava la guerra. Ora è la guerra a simulare il giuoco. Non è più il giuoco a preparare gli umani alla guerra, ma al contrario, la guerra a preparare gli umani al giuoco.
Per l’economia globale l’esercizio delle armi ha un effetto molto più inibitorio che benefico.
Per esportare la qualsiasi cosa non servono le armi. Le informazioni in forma di idee, di spettacolo, di bit, di denaro e di relazioni bastano e avanzano.
Il multipolarismo, il bipolarismo o l’impero non funzionano più. Resistono come antichi retaggi di una storia consunta. Sconfitta irrimediabilmente dalle sue stesse armi.
L’Europa non è condannata a rimanere un soggetto politico, ma a divenire un vettore pianetico.
L’Europa vettore pianetico. Cosa vuol dire? Vuol dire che, proprio in virtù della sua inconsistenza militare, l’Europa è costretta a guardare il pianeta da
altra prospettiva.
Non come parte in ansia di conquistare il tutto, ma come parte di un tutto interamente da definire e da condividere, oggi, domani e sempre.
Il carattere dell’Europa è oblativo. Il suo disinteresse è nell’interesse del mondo intero.
L’Europa per riconoscersi ha bisogno di specchiarsi nel pianeta.
Ogni altro luogo non può che guardare all’Europa se l’Europa si sottrae allo sguardo proprietario.
Il Pianeta è uno spazio aperto in cui chiunque è in grado di giocare la sua parte a condizione che tutti possano giocare senza carte truccate dalle armi.
Non ha senso tentare di esportare la democrazia o di imporre i propri valori. Essi, se hanno sensibilità, affetti e forza diffusiva, si impongono da sé senza bisogno di agenti autoritari e armati a esportarli.
I valori dell’Europa, ammesso che qualcuno riesca con precisione a definirli, non sono migliori o peggiori di altri. Ciascuno li vede tali solo se indossa gli occhiali dell’identità che rendono ciechi anche i falchi.
Non c’è bisogno di modelli. Il pianeta si modella secondo le sue volontà che sono
molteplici, come i suoi valori, e sempre in discussione poiché in perenne gestazione.
Riconoscersi peggiori o migliori è l’atto principiale del disastro.
L’Europa non aspira a nessun primato.
L’Europa è prima in ogni cosa come ogni altra cosa.
Prima tra tutti i primi resi tali solo se si abbandona la folle voglia di diventare primi degli ultimi o primi fra gli ultimi.
Non avere alcun primato da salvaguardare o da rivendicare è la condizione fondamentale per divenire primi anche tra non pari. Per divenire prima in tal guisa l’Europa non può che abdicare alla forza militare rendendo così più forte il pianeta sia nel suo insieme sia in ogni singola parte.
Ciò che si prospetta non è un mero modello pacifista. La pace è la condizione agognata di ogni guerra. Guerra e pace sono gemelli siamesi. Nella contesa chiunque è colpevole tranne i disertori e gli abdicanti.
La geopolitica dell’Europa fa cilecca.
La politica, nata in quello spazio definito Europa, qui ha mostrato il suo fallimento.
Non c’è governo della polis senza governo del pianeta. Ma il governarsi del pianeta non è affare di comandanti militari, di condottieri, di produttori d’armi.
L’Europa ha bisogno di difendersi. Ma la sua più grande difesa non sono gli eserciti, il nucleare, le armi. La sua difesa massima è l’intelligenza. L’intelligenza che è l’esatto contrario dell’intelligence. Non sono i servizi segreti a tenerla in salvo. Sono invece
i servizi evidenti.
Intorno al covid, alle questioni monetarie e al cambiamento climatico Europa mundi ha iniziato molto timidamente a intravedersi.
Se il pianeta è libero, l’Europa lo sarà. Se il pianeta è salvo, l’Europa non mancherà di godere della sua salvezza. Se il pianeta è ricco, l’Europa non si trastullerà nella miseria.
L’Europa è la placca dell’idea di mondo necessaria per bloccare la deriva politica di questo come di ogni altro spazio incontinente.
Europa mundi è terra, oceano, cielo. Europa mundi è in Asia, è Africa. Europa mundi è sponda del mondo intero. È il mondo nuovo di ogni mondo. Ed è il mondo di ogni nuovo mondo.
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Il comunismo
Il comunismo é il tempo dedicato alla dimensione comune e sociale.
Pratichi concretamente il comunismo ogni volta che fai sport o ti dedichi alla tua crescita personale e alla crescita degli altri, quando fai volontariato, quando ti dedichi ai tuoi cari quando viaggi per svago e fai il turista, quando cioè puoi dedicarti, oltre che al lavoro necessario per produrre il reddito che ti consente di vivere, anche al tempo extra, al tempo condiviso, solidale, comunitario.
Questa è l’unica definizione rigorosa, fondata, filologica, del comunismo secondo Karl Marx.
Nel corso di due secoli, specie in Europa, c’è stato molto comunismo realizzato.
Questa affermazione é evidentemente fondata solo che si consideri che questo stile di vita, quando Marx era in vita era appannaggio solo delle persone molto ricche. Tutti gli altri, cioè i trisavoli della quasi totalità delle persone che stanno leggendo, per mangiare doveva lavorare dall’età di sette -otto anni per sei sette giorni a settimana, per 10–12 ore al giorno, finché non moriva di malattie e di stenti. Marx voleva liberare le persone dal lavoro salariato, da quel lavoro salariato confidando nella capacità del sistema produttivo industriale implementato dalla borghesia grazie al capitalismo (si, proprio dalla classe borghese e dal capitalismo di cui Marx era un estimatore), il comunismo é ottenuto mediante la proprietà comune dei mezzi di produzione. La proprietà comune non è la proprietà di Stato.
- ‘Nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosí come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico‘.
K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, pag. 24
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Vassalli o liberi dagli americani?
Abbiamo dichiarato guerra agli Stati Uniti nel 1941. Dopo avergli spedito milioni di emigranti italiani e senza che gli USA ci avessero torto un capello. E pure a tradimento gliel’abbiamo dichiarata, poche ore dopo che avevano subito la coltellata alla schiena dell’attacco a Pearl Harbor.
E abbiamo perso la guerra.
Sono arrivati, ci hanno cacciato dall’Africa, ci hanno invaso e alla fine ci hanno sconfitto. E non contenti, ci siamo divisi in due e una metà dell’Italia ha continuato a combattere contro gli americani.
Chiunque altro ci avrebbe massacrati, triturati nel macinino da caffè e utilizzato la polvere come concime, trasformando l’Italia nel 51° stato dell’unione.
Invece, non solo non ci hanno massacrati, né hanno massacrato i nostri emigrati. Ci hanno dato una mano a liberarci dai nazisti, ci hanno finanziato la ricostruzione e oggi siamo del tutto liberi di fare domande come questa e di scrivere una marea di risposte e commenti antiamericani che una marea di imbecilli non tarderà a postare.
Direi che possiamo considerarci alleati. E fortunati.
Dall’altra parte, sono stati invasi, conquistati, massacrati e occupati. E se qualcuno si azzardava a dire una parola contro i sovietici, finiva per concimare i licheni in Siberia. Non a spargere concime. Proprio lui diventava concime. E oggi con la Russia è lo stesso: se ti va bene finisci in galera, se ti va male ti entrano in casa con i carri armati, dopo una spruzzata di razzi e bombe come aperitivo.
Direi che quelli erano (e qualcuno lo è ancora) vassalli.
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Cause guerra Ucraina
Lo storico greco Polibio diceva che le guerre hanno tre cause:
- La profasis: la scusa raccontata al popolo per giustificare il conflitto e il sacrificio.
- L’aitia: la causa effettiva della guerra, riscontrabile spesso in un interesse economico.
- L’arché: l’evento o la scusa che porta, in concreto, all’inizio della guerra
Tali aspetti si possono riscontrare in tutti i conflitti, basti pensare alla prima guerra mondiale. In essa, l’arché (la scusa), è stato l’omicidio dell’arciduca Ferdinando d’Austria e della moglie ad opera di uno studente serbo. L’aitia, cioè il vero motivo, era il controllo dei Balcani.
Nella guerra di secessione americana, il motivo apparente (profasis) era la liberazione degli schiavi dal sud del paese, ma la vera ragione era che il nord non riusciva a competere contro i prezzi troppo bassi del sud dovuti alla manodopera gratuita. Inoltre, al nord servivano operai per le industrie e gli schiavi potevano essere una soluzione. L’arché è stata la dichiarazione di indipendenza di alcuni stati meridionali.
Nell’Unità d’Italia la profasis è stata l’unificazione nazionale, ma l’aitia è stata la paura dell’Inghilterra nei confronti dell’espansione francese verso sud e l’economia sempre più crescente dei Borboni.
Ora, ritornando all’Ucraina.
La profasis è la scusa russa di “denazificare” l’Ucraina. Una paura ancora viva in Russia. Una parte dell’Ucraina orientale aveva chiesto l’indipendenza i quanto si sente vicina all’identità russa. Vi furono delle repressioni assai sanguinose con dei crimini contro l’umanità compiuti da Kiev e riconosciuti nel 2016 dall’ONU. Alcuni battaglioni ucraini erano famosi per essere spalleggiati da estremisti di destra. Il presidente Zelensky non ha mai preso le distanze da questi eventi e ciò ha incrementato la profasis.
L’aitia, il vero motivo, è riscontrabile sul fronte economico. La Russia ha investito molto nella parte orientale dell’Ucraina. Essa è anche la zona più ricca di risorse, come il grano e giacimenti minerali. Possiede i più grandi giacimenti di litio: metallo sempre più richiesto per la realizzazione di batterie. Vi sono anche tante centrali nucleari e parecchia manodopera. Inoltre, vi è il passaggio dei gasdotti, per cui gli ucraini volevano rivendicare il diritti di passaggio.
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Il dramma di Meloni
Per chi crede ancora nelle ragioni della buona politica, il Riformista fa un regalo prezioso: le riflessioni di uno degli ultimi “Grandi vecchi” della politica italiana: il senatore Rino Formica.
In molti hanno parlato e scritto di quelle del 25 settembre come di elezioni “storiche”. Lei che la storia politica italiana l’ha vissuta per decenni da protagonista, come la vede?
In questo Paese diventa storico il suono della sveglia. Quel voto è una sveglia. Il Paese era nell’area della tranquillità, della serenità. Nella politica italiana vi sono due periodi fondamentali: uno fino al ’92 e poi quello dal ’92-’94 e seguenti. Sino al ’92 questa tranquillità di fondo veniva data da un forte rapporto fiduciario tra il cittadino e la democrazia organizzata. Era quasi un rapporto di carattere religioso. È come la fede nella religione. Anche la religione ha un problema di rapporto tra fede e ragione. Nella fase di sviluppo naturale della democrazia in Italia, nei primi 40-50 anni di vita repubblicana, essa era in parte legata alla ragione delle classi dirigenti e in parte alla fede di massa. Il legame tra fede di massa e ragione delle classi dirigenti portava ad una sintesi tra fede e ragione. Questo si è rotto all’inizio degli anni ’90.Perché senatore Formica?
Perché è venuto meno il sistema di rete della democrazia organizzata. Questa mancanza di rete della democrazia organizzata è stata interpretata dalle classi dirigenti, che si sono immediatamente adeguate al nuovo corso dimostrando così tutta la natura profonda dell’opportunismo e del trasformismo di cui erano intrise ma che era coperto da una condizione che era propria della democrazia organizzata, e così abbiamo avuto un progressivo distacco tra masse popolari e non solo la democrazia organizzata nell’interno del sistema ma un distacco con le istituzioni. Questo distacco dalle istituzioni non modificava le condizioni di diseguaglianza di carattere economico, sociale, civile e territoriale del Paese. Quelle restavano tutte in piedi e questo in un mondo che stava cambiando con la globalizzazione. E la globalizzazione portava a un nuovo e diverso livello le conoscenze di massa in sede globale. L’elemento della coscienza per via di conoscenze da parte delle masse nel mondo, non aveva però un elemento coagulante e unificante su scala globale. Perché su scala globale restava unificante la forza impetuosa del capitalismo che sganciato dai compromessi nazionali diventava sempre di più una forza di un imperial capitalismo. Questo imperial capitalismo era sbilanciato. Perché da una parte era l’imperial capitalismo tutelato da minoranze detentrici del potere dell’ineguaglianza nella società e dall’altra parte vi erano le grandi masse che prendevano coscienza che non era sufficiente la presenza ma il protagonismo per cambiare le condizioni andando al cuore del capitalismo imperiale. Tutto questo poneva un problema…Quale?
Il problema che quello che era stato detto e gabellato e cioè che la società evolvendo, il progresso di carattere economico e la diffusione del benessere nel mondo sia pure in parti ineguali, spegneva la lotta di classe. La lotta di classe c’è. Sicuramente è più complicato poterla interpretare e poterla guidare perché le classi non sono più regolabili in un conflitto sociale su base nazionale ma su base universale dove le lotte di classe sono differenziate, ineguali e diverse tra di loro. E qui nasce il problema.Di che problema si tratta?
Se si osserva bene, si coglie il fatto che le uniche forze che hanno un elemento di unificazione a livello sovranazionale sono le grandi religioni. Le grandi religioni hanno percepito questo elemento di inquietudine generale. Il mondo è inquieto. Cosa vuol significare il Papa quando dice che bisogna cambiare il modello di sviluppo? Questo era il linguaggio che negli anni ’70 era degli extraparlamentari. Cambiare il modello di sviluppo. Cioè si pone il problema della inadeguatezza dell’imperial capitalismo. Ma le religioni non sono in condizioni di condurre una lotta politica perché per condurre una lotta politica le religioni devono perdere il loro carattere universale e diventare nazionali. Come lo è diventata improvvisamente la Chiesa ortodossa russa che ha dovuto perdere il carattere universale e ha dovuto affermare, per diventare nazionale, che c’è una sanatoria dei peccati se vai a combattere in Ucraina. Resta il fatto, enorme, che le religioni universali pongono il problema non solo dell’inadeguatezza ma della ingiustizia intrinseca, strutturale, di quei processi politici, economici e sociali che non soltanto non hanno attenuato le condizioni dell’ineguaglianza ma che hanno esasperato le vecchie ineguaglianze e creato delle nuove. Qui sta la crisi della politica e delle sue forme organizzate. Il non essere all’altezza di questa sfida del cambiamento globale e globalizzato. D’altro canto la storia del Novecento sta lì a ricordare che il capitalismo quando si è trovato in difficoltà è diventato repressivo e guerrafondaio. E questo può accadere anche con l’imperial capitalismo che, messo alle strette o comunque in difficoltà, trova la soluzione della guerra. Noi ci troviamo di fronte al rischio che la riflessione di carattere politico generale della nuova globalizzazione delle conoscenze, che potrebbe spingere l’umanità a creare delle forze internazionaliste di organizzazione delle condizioni umane differenziate che ci sono nella società, i deboli con i deboli contro i forti che sono una minoranza non solo nelle realtà nazionali ma sempre più minoranze nell’assetto globale, si possa bloccare questo processo di riflessione attraverso una espansione del conflitto oggi in Europa e domani chissà dove.Quelle che lei ha fin qui sviluppato sono riflessioni di portata epocale. Ma venendo alla politica italiana, lei non ritiene che una sinistra o comunque una forza progressista, il Pd, per provare a ritrovare ragione di sé proprio su queste grandi tematiche dovrebbe cimentarsi e non avvitarsi nella spirale mortifera di una resa dei conti sul nuovo segretario?
Ma porta su di sé il peso enorme di trent’anni in cui ha sposato la linea dello svuotamento del sistema politico. La sinistra è stata artefice dello svuotamento politico del sistema. E qui sta il suicidio politico. Perché lo svuotamento politico del sistema colpiva innanzitutto la sinistra.Perché, senatore Formica?
Vede, i conservatori hanno una politica oggettiva che cammina da sé. Conservare l’esistente. A sinistra la politica è intrecciata indissolubilmente al cambiamento. E quando questa politica viene meno all’interno del sistema, viene meno l’esigenza del cambiamento e con essa la sinistra stessa. Ciò che ci si dovrebbe chiedere, l’interrogativo attorno al quale provare a sviluppare una riflessione collettiva dalla quale dipende l’esistenza stessa futura della sinistra, è perché la sinistra è andata progressivamente perdendo consenso, entusiasmo, passione, capacità di essere forza creativa nella società, capace di modificare, di innovare, di riformare. Perché?Una domanda “esistenziale”. Qual è la sua di risposta?
Perché si è lasciata guidare dalla destra. Il minimalismo sociale è una scelta ideologica. Il minimalismo sociale non può non produrre che il populismo massimalista. L’indifferenza istituzionale non può non provocare che l’abbandono della via democratica alla costruzione del proprio sistema di vita e all’ingresso di forze dominanti che finiscono per diventare prima reazionarie e poi repressive. Ecco perché hanno ragione coloro che dicono che la responsabilità non è del gruppo dirigente in carica nel momento dell’ultima clamorosa sconfitta della sinistra. La responsabilità è di tutta quanta la classe dirigente, il ceto politico dominante della sinistra da trent’anni a questa parte, accumulando una serie impressionante di errori. Alcuni dei quali sono partiti non con la consapevolezza dell’errore ma come una furbizia per mimetizzare la propria determinazione di rovesciare il tavolo senza che nessuno se ne accorgesse, spacciando una presunta furbizia per machiavellica capacità tattica. Ma alla fine la legge bronzea della quotidianità del vivere ha fatto sì che il trasformismo delle classi dirigenti sia diventato un trasformismo per adeguamento e per rassegnazione delle masse popolari. Ma di questo non possono godere neanche i vincitori di queste elezioni, cioè Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni. Vuol sapere qual è il vero dramma della Meloni?Sono tutto orecchie, senatore Formica.
Lei avrebbe avuto tanto, ed era attrezzata per poterlo fare, un gran desiderio di poter essere l’Evita Peron della socialità di massa populista in Italia. Ma sarà condannata dalla forza delle cose ad essere una burbera Thatcher senza neanche avere l’autonomia della guida. Perché la guida spetta ad altri. Su sede sovranazionale. Ne vuole la prova?Certo che sì.
Questa maggioranza si riunirà il 13 ottobre. Con la maggioranza che ha, con il tempo che ha avuto per ristabilire l’ordine al proprio interno, per avere la certezza di una maggioranza di governo, in tre giorni Meloni avrebbe potuto definire gli organismi dirigenti interni, eleggere i suoi organi di rappresentanza in Parlamento, avere l’incarico dal Presidente della Repubblica e presentare in ventiquattr’ore il nuovo Governo. Sarebbe stato un gesto corrispondente al superamento di una legge elettorale balorda. Almeno si poteva dire di lei che in tre-quattro giorni aveva saputo eleggere gli organi per l’efficienza del Parlamento e gli organi di Governo del Paese. Invece no. Il “lord protettore” le ha detto che il 20 di ottobre alla riunione dei capi di Governo dell’Unione Europea va lui. E che la campanella passerà di mano alla fine di ottobre. E la Meloni non ha risposto con l’orgoglio di una maggioranza indicata dal voto popolare, sia pure con una legge balorda, e insediata in Parlamento, col dire: no il 20 ci sarà probabilmente il nuovo Governo e a quella riunione ci sarò io che di quel Governo sarò la premier.Quando fa riferimento al “lord protettore” della premier in pectore, il suo nome e cognome è Mario Draghi.
Mario Draghi adesso ma chi per lui domani. Un “lord protettore” che guiderà la destra italiana a stare nel solco del conservatorismo parassitario europeo ci sarà comunque. È la funzione che conta non il nome di chi sarà chiamato ad esercitarla. Noi siamo sotto protettorato. Oggi il “lord protettore” più credibile sul piano internazionale e più disponibile per il momento è Draghi. E probabilmente lo sarà. Sicuramente per il primo semestre di questo Governo. -
La dettatura europea
Sovente viene evocata a sproposito la nozione di dittatura: dittatura sanitaria, dittatura di Bruxelles…
La dittatura evocata esprime il timore pallido – non la convinzione granitica – che il potere politico si concentri in un solo organo o in una sola persona.
Al timore agito enfaticamente e demagogicamente su ogni genere di media si accompagna tutto un lamento inscenato e insensato sul bisogno di politica e sui guasti dell’antipolitica. La politica viene richiesta a gran voce come nobile rimedio per ogni situazione mentre è essa, la politica, la causa di tanti problemi. Il motivo è semplice: la politica è organicamente incapace di far fronte alle questioni preminenti della contemporaneità i quali necessitano di uno sguardo largo e cooperativo, pianetico, non dello sguardo miope e proprietario tipico della politica. [1]
La politica non è una leva di progresso, ma solo una componente macchinale e consunta dell’organizzazione sociale.
La nozione di dittatura poco serve a visualizzare l’immagine dei poteri politici presenti, non solo in Europa.
Più utile potrebbe risultare la nozione di dettatura.
Per quanto abbiano delle affinità linguistiche e musicali, la dettatura è ben diversa dalla dittatura ma non è di minore importanza.
Differentemente dalla dittatura, la dettatura indica una situazione nella quale le decisioni da prendere sono storicamente segnate. La dettatura è indifferente agli organi o alle persone, si enuncia con le cose in divenire, con le cose da realizzare indipendentemente dalle persone che la interpretano.
La dittatura nasce da uno stato incerto e dalla speranza che la forza ( di una persona o di un partito) sia in grado di risolvere i problemi.
La dettatura nasce invece dallo stato di certezza e dalla sicurezza che la strada intrapresa sia in grado, se non proprio di risolvere i problemi, di affrontarli al meglio secondo i canoni costituiti.
La dittatura concentra il potere e lo personalizza.
La dettatura al contrario rende possibile la massima diffusione del potere e ne istituzionalizza la parte macchinica, politica.
La dittatura annulla la democrazia distruggendo tutti i suoi riti.
La dettatura è una più alta forma di democrazia perché mantiene intatti i suoi riti e rende possibile il massimo potere diffuso del demos sottraendogli ed evitandogli la responsabilità e la noia della decisione della macchina politica.
La dittatura arriva dove la democrazia perisce.
La dettatura dove la democrazia mantiene i suoi riti anestetizzandone gli spasmi.
La dettatura non si fonda sul primato degli uomini, ma su quello delle cose.
La dettatura è amnio e alveo entro cui si decidono e si producono le cose quando il cammino è ben segnato.
La dettatura non è un limite della macchina politica o il canto del cigno della democrazia, ne è invece il rituale compimento.
L’indifferenza alla politica sotto il regime della dettatura non marca la generale insensibilità, anzi può avvenire in presenza di una sensibilità sociale diffusa capace di esprimersi in tutti gli altri campi della vita vivente.
Nell’epoca della dettatura, la politica si muove entro binari definiti. Finché questi binari assicurano l’esercizio del potere diffuso, il potere rituale del popolo – i rappresentanti, le elezioni, le istituzioni – è salvo.
La dettatura è dunque la forma che il potere politico assume quando la direzione è certa. In Italia e in Europa, in questo momento, l’orizzonte è chiaro.
Ciò che occorre fare, ciò che si può fare, è già interiorizzato dalla macchina istituzionale che è avviata nella sua direzione.
L’Italia è sotto dettatura. Comunque vadano le cose, per chiunque si voglia votare, il regime della dettatura comporta che le cose proseguano il loro corso nell’alveo già fissato da almeno 6 anni.
L’amnio della dettatura è segnato:
- dal nuovo corso dell’Unione europea dopo l’uscita del Regno unito;
- dal ruolo di leadership che il Paese inevitabilmente deve avere in Europa;
- dal ruolo autonomo e pianetico che l’Unione europea inevitabilmente assume;
- dalla crisi climatica;
- dall’asimmetria demografica.
Tali priorità rendono fantasmatiche le frontiere e necessiterebbero di una visione pianetica, la quale impone una totale messa in mora dei paradigmi della politica.
In assenza di una visione pianetica, i governi sono costretti a comportarsi seguendo, magari in modo acefalo e tortuoso, l’onda. Quando deviano dalla direzione di marcia sono costretti – dopo aver sbattuto contro la realtà delle cose – non da qualcuno ma da quella medesima direzione a riseguitare il cammino. In questo caso, mancando alla politica – per intrinseca deficienza – la capacità d’interpretare la direzione e di seguirla, tocca alle istituzioni dettare le regole, istituzioni generalmente guidate da persone indipendenti dalla politica o che si rendono tali in forza del loro ruolo istituzionale.
La dettatura diviene il luogo della decisione effettiva al di là di ciò che deciderebbe la politica e in forza della sua impotenza.
In regime di dettatura, alla politica tocca solo l’indispensabile ruolo di confermare tramite tutti i rituali del voto le decisioni già dettate dalle forza delle cose.
L’Italia vive da tempo sotto la dettatura di Mattarella e di Draghi, ma anche in loro assenza la dettatura rimarrebbe in vigore. Solo in caso di rivolgimento regressivo e funesto della situazione la dettatura verrebbe meno.
In caso di shock – uscita dall’UE e dall’Euro, indifferenza ai problemi climatici, distruzione dei diritti civili, guerra ai migranti -, quando si rischia che il cammino prestabilito venga disarcionato, allora si comincerebbe a sentire il lezzo della dittatura.
Dettatura, democrazia e libertà
L’Italia e l’Europa sono sotto dittatura? Ha ancora senso che ci siano le elezioni? Qualcuno pensa ancora di votare veramente? Se sì, per chi? Per che cosa? Gli eletti hanno voce in capitolo?
E il parlamento, è in grado di decidere qualcosa?
Tutte legittime domande poste ogni qualvolta in Europa si replica l’indispensabile benché esausto rito delle elezioni.
Esausto perché privo di pathos, privo di passione, incapace di elevare anche il meno nobile impeto dell’animo umano, capace solo di intercettare qualche profanissimo interesse della mediocrità generale. Rito stancamente riprodotto su scene calcate da attori stinti, improvvisate passerelle di transeuntissimi protagonisti dell’ultima chiacchiera di cortile, pessimi presunti salvatori di patrie ormai estinte.
Tutto questo orrifico circo della politica prolifera tra annoiati commentari ma anche tra estese voci che ostentano indignazione mentre piluccano nella consunzione generale.
La storia quando è esausta non abbandona facilmente i riti. Spesso li conserva anche quando risultano botulinosi.
Non è sragione la sua, anzi è raziocinio puro. I riti della politica infatti tanto sono esausti tanto risultano essere ancora indispensabili.
La domanda alla quale occorre rispondere è proprio questa: perché ciò che esausto anziché perire in fretta prolunga all’infinito la sua agonia?
La sfinitudine della politica si esprima con la massima impotenza nel rito elettorale.
Nel rito elettorale non c’è la festa, non c’è l’attesa. L’entusiasmo non è di casa illo tempore.
Per ridare un po’ di carica fibrillatoria alla noia elettorale ci sarebbe bisogno di qualche pallida o effettiva paura (il fascismo alle porte, l’aborto cancellato, l’invasione dei migranti).
In effetti, in Francia, in Italia, in Svezia o altrove si è vista qualche minimale paura all’opera, ma poi inevitabilmente la paura sfuma in fretta. Chi ha vinto, chi ha perso e chi ha pareggiato nelle ultime elezioni, dopo qualche spasmo digitale, si rimette in carreggiata. La marcia della democrazia riprende a macinare i suoi felpati passi lungo il cammino della dettatura.
Tutto sembra inutile, eppure tutto rimane così indispensabile. Perché?
Perché, per quanto decerebrato, è nel rito elettorale che si coglie il carattere indispensabile della democrazia.
Senza libere elezioni non c’è democrazia. Senza democrazia niente libere elezioni.
La democrazia è nota per essere il peggiore regime politico esclusi tutti gli altri.
Nonostante tutti i suoi limiti, non c’è regime politico migliore della democrazia. La democrazia è la più alta forma di politica. Lo è perché tutti i suoi ciclopici limiti intrinseci anziché assassinarla la rafforzano.
La democrazia è il regime politico che rende possibile sentirsi universalmente liberi. Sentirsi liberi equivale a essere effettivamente liberi? Ovviamente no.
È il sentirsi liberi al di là dell’esserlo effettivamente.
Nella democrazia tutto può essere deciso finché le masse pensano di deciderlo tramite il voto.
Il voto, questo esausto rito, è lì a dimostrare che la libertà è data proprio nel momento in cui essa viene meno.
La democrazia è il regime della facoltà. La facoltà, in questo regime, conta più dell’effettività. La facoltà di votare, per esempio, conta più del voto. In effetti, una parte considerevole della popolazione non esercita il suo diritto.
Nella facoltà si esprime l’intima connessione tra la simulazione e la realtà, tra la rappresentazione e l’espressione.
La rappresentazione elettorale simula l’espressione sociale senza mai poterla realmente compiere.
Tanto più la simulazione si tiene in vita tanto più l’espressione sociale è attiva.
La simulazione – per quanto marginale – è parte costitutiva della realtà.
La libertà ha a che fare con la facoltà. Essa si esprime nel suo esercizio, ma si esalta quando l’esercizio viene sospeso da chi lo possiede. La libertà non si esprime quando si ha l’obbligo di esercitarla ma quando è facoltà che può non essere esercitata. Non c’è musica senza silenzio.
La facoltà di votare fa sentire liberi, ma il non esercizio del voto – volontario, autonomo da ogni prescrizione – non è contrario della libertà, né la limita, tutt’altro. Ne è semmai intima espressione, privilegio afferente a chi presume che l’inesercizio del voto non metta in alcun modo a rischio il resto delle facoltà.
L’indifferenza verso la politica nella contemporaneità, anziché marcare, come i più ritengono, l’insensibilità generale della popolazione, esprime questo privilegio. Simile privilegio si manifesta – soprattutto tra la popolazione giovane – riguardo alle attività e al tempo di lavoro. Anche la scelta tra lavorare e non lavorare, tra attività autogestite o eterodirette, con tempi di lavoro limitati o espansi a tutta la giornata biologica va a marcare il tempo presente.
La libertà esiste se c’è possibilità di scelta. La prima opzione – votare o non votare – non inibisce la libertà, anzi la esalta.
Chi non vota perché non desidera esercitare la facoltà non è detto che si senta meno libero di chi si comporta in modo avverso, anzi.
L’indifferenza verso il voto e verso la politica – anche se è espressione di variegatissime situazioni – indica comunque una diversa concezione della libertà.
Tale concezione può esprimersi con due metafore, dei semafori e dei pompieri.
Ciò che interessa alle persone comuni – ciò che le fa sentire libere, ciò che permette loro di essere libere – è che i semafori funzionino e che i pompieri intervengano celermente in caso d’incendio.
Una volta tranquilla sui semafori e sui pompieri, chiunque può concentrarsi sui suoi interessi, sulla sua vita, indifferente al chiacchiericcio politico.
Ma questo sentirsi liberi ha davvero a che fare con la libertà?
Chi si sente libero non è detto che non lo sia.
Si sente libero chi crede di sviluppare i propri interessi, le proprie attitudini senza subire pregiudiziali limitazioni esterne.
Chi si sente libero certamente lo è, ma ben al di sotto di quanto presume, ben meno delle reali possibilità. È libero fino ai limiti imposti dalla situazione. Se oltrepassa i limiti, se li vìola, se li sfida, la sua libertà se ne va a ramengo.
La politica è un limite alla libertà o è una sua leva?
La democrazia è il regime peggiore, esclusi gli altri, perché il potere del demos – che ufficialmente viene esercitato per suo conto dai rappresentanti o si esercita in modo diretto – rimane in buona parte al demos. Quel demos che delega volentieri la parte politica del potere come escamotage per trattenere tutto il resto.
La democrazia permette che l’esercizio del potere diffuso marginalizzi nella società e nell’esperienza della vita singolare il ruolo della politica.
Quel demos indistinto che ha interessi, passioni, gusti attitudini, attributi, comportamenti estremamente variegati. Più questa variegazione è in grado di esprimersi, meno è importante il potere sul demos. La politica si sgonfia in misura proporzionale alla crescita di questa variegazione.
Tutto questo insieme esprime il vero status del potere contemporaneo. Intenderlo ancora come attributo unico o preponderante della politica è anticaglia priva di qualsiasi valore.
Il potere diffuso è il miglior antidoto contro il potere politico.
Alla politica rimane di governare a fatica soltanto la sua incapacità di governare.
La dittatura è l’espressione più nefasta della politica.
La dettatura è un bagno di luce sul suo tramonto.
Il tramonto della politica annuncia la necessità della pianetica.
La dettatura è la fase necessaria e transitoria tra la politica e la pianetica.
[1] Per approfondire la differenza tra la nozione di Politica e quella di Pianetica, vedasi Lettera al Presidente Putin, maggio 2022, rilasciata dalla news letter di Pianetica, e Pino Tripodi – Giuseppe Genna, Pianetica, febbraio 2022, libro autoprodotto disponibile al link https://milieuedizioni.it/product/pianetica/
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Il discorso di Draghi
Il discorso integrale di Mario Draghi in Senato
Nel suo discorso programmatico chiede unità, fiducia e coesione e traccia la rotta dell’azione di governo su alcuni punti fermi: accelerare il piano vaccinale, affrontare con misure immediate l’emergenza economica e sociale, usare al meglio le risorse del Recovery Fund seguendo le linee segnate da Bruxelles su digitale e ambiente
tempo di lettura: 47 min
MARIO DRAGHI SENATO
aggiornato alle 11:29
17 febbraio 2021
discorso integrale mario draghi senato
© Monaldo Pool / AGF – Mario Draghi
Il primo pensiero che vorrei condividere, nel chiedere la vostra fiducia, riguarda la nostra responsabilità nazionale. Il principale dovere cui siamo chiamati, tutti, io per primo come presidente del Consiglio, è di combattere con ogni mezzo la pandemia e di salvaguardare le vite dei nostri concittadini.
Una trincea dove combattiamo tutti insieme. Il virus è nemico di tutti. Ed è nel commosso ricordo di chi non c’è più che cresce il nostro impegno. Prima di illustrarvi il mio programma, vorrei rivolgere un altro pensiero, partecipato e solidale, a tutti coloro che soffrono per la crisi economica che la pandemia ha scatenato, a coloro che lavorano nelle attività più colpite o fermate per motivi sanitari. Conosciamo le loro ragioni, siamo consci del loro enorme sacrificio e li ringraziamo.
Ci impegniamo a fare di tutto perché possano tornare, nel più breve tempo possibile, nel riconoscimento dei loro diritti, alla normalità delle loro occupazioni. Ci impegniamo a informare i cittadini di con sufficiente anticipo, per quanto compatibile con la rapida evoluzione della pandemia, di ogni cambiamento nelle regole.
Il Governo farà le riforme ma affronterà anche l’emergenza. Non esiste un prima e un dopo. Siamo consci dell’insegnamento di Cavour:”… le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano”. Ma nel frattempo dobbiamo occuparci di chi soffre adesso, di chi oggi perde il lavoro o è costretto a chiudere la propria attività.
Nel ringraziare, ancora una volta il presidente della Repubblica per l’onore dell’incarico che mi è stato assegnato, vorrei dirvi che non vi è mai stato, nella mia lunga vita professionale, un momento di emozione così intensa e di responsabilità così ampia. Ringrazio altresì il mio predecessore Giuseppe Conte che ha affrontato una situazione di emergenza sanitaria ed economica come mai era accaduto dall’Unità d’Italia.
Dobbiamo occuparci di chi soffre adesso, di chi oggi perde il lavoro o è costretto a chiudere la propria attività
Si è discusso molto sulla natura di questo governo. La storia repubblicana ha dispensato una varietà infinita di formule. Nel rispetto che tutti abbiamo per le istituzioni e per il corretto funzionamento di una democrazia rappresentativa, un esecutivo come quello che ho l’onore di presiedere, specialmente in una situazione drammatica come quella che stiamo vivendo, è semplicemente il governo del Paese. Non ha bisogno di alcun aggettivo che lo definisca. Riassume la volontà, la consapevolezza, il senso di responsabilità delle forze politiche che lo sostengono alle quali è stata chiesta una rinuncia per il bene di tutti, dei propri elettori come degli elettori di altri schieramenti, anche dell’opposizione, dei cittadini italiani tutti. Questo è lo spirito repubblicano di un governo che nasce in una situazione di emergenza raccogliendo l’alta indicazione del capo dello Stato.
La crescita di un’economia di un Paese non scaturisce solo da fattori economici. Dipende dalle istituzioni, dalla fiducia dei cittadini verso di esse, dalla condivisione di valori e di speranze. Gli stessi fattori determinano il progresso di un Paese.
Si è detto e scritto che questo governo è stato reso necessario dal fallimento della politica. Mi sia consentito di non essere d’accordo. Nessuno fa un passo indietro rispetto alla propria identità ma semmai, in un nuovo e del tutto inconsueto perimetro di collaborazione, ne fa uno avanti nel rispondere alle necessità del Paese, nell’avvicinarsi ai problemi quotidiani delle famiglie e delle imprese che ben sanno quando è il momento di lavorare insieme, senza pregiudizi e rivalità.
Si è detto e scritto che questo governo è stato reso necessario dal fallimento della politica. Mi sia consentito di non essere d’accordo
Nei momenti più difficili della nostra storia, l’espressione più alta e nobile della politica si è tradotta in scelte coraggiose, in visioni che fino a un attimo prima sembravano impossibili. Perché prima di ogni nostra appartenenza, viene il dovere della cittadinanza.
Siamo cittadini di un Paese che ci chiede di fare tutto il possibile, senza perdere tempo, senza lesinare anche il più piccolo sforzo, per combattere la pandemia e contrastare la crisi economica. E noi oggi, politici e tecnici che formano questo nuovo esecutivo siamo tutti semplicemente cittadini italiani, onorati di servire il proprio Paese, tutti ugualmente consapevoli del compito che ci è stato affidato.
Questo è lo spirito repubblicano del mio governo.
La durata dei governi in Italia è stata mediamente breve ma ciò non ha impedito, in momenti anche drammatici della vita della nazione, di compiere scelte decisive per il futuro dei nostri figli e nipoti. Conta la qualità delle decisioni, conta il coraggio delle visioni, non contano i giorni. Il tempo del potere può essere sprecato anche nella sola preoccupazione di conservarlo. Oggi noi abbiamo, come accadde ai governi dell’immediato Dopoguerra, la possibilità, o meglio la responsabilità, di avviare una Nuova Ricostruzione. L’Italia si risollevò dal disastro della Seconda Guerra Mondiale con orgoglio e determinazione e mise le basi del miracolo economico grazie a investimenti e lavoro.
Spesso mi sono chiesto se noi, e mi riferisco prima di tutto alla mia generazione, abbiamo fatto e stiamo facendo per loro tutto quello che i nostri nonni e padri fecero per noi, sacrificandosi oltre misura
Ma soprattutto grazie alla convinzione che il futuro delle generazioni successive sarebbe stato migliore per tutti. Nella fiducia reciproca, nella fratellanza nazionale, nel perseguimento di un riscatto civico e morale. A quella Ricostruzione collaborarono forze politiche ideologicamente lontane se non contrapposte. Sono certo che anche a questa Nuova Ricostruzione nessuno farà mancare, nella distinzione di ruoli e identità, il proprio apporto. Questa è la nostra missione di italiani: consegnare un Paese migliore e più giusto ai figli e ai nipoti.
Spesso mi sono chiesto se noi, e mi riferisco prima di tutto alla mia generazione, abbiamo fatto e stiamo facendo per loro tutto quello che i nostri nonni e padri fecero per noi, sacrificandosi oltre misura. È una domanda che ci dobbiamo porre quando non facciamo tutto il necessario per promuovere al meglio il capitale umano, la formazione, la scuola, l’università e la cultura. Una domanda alla quale dobbiamo dare risposte concrete e urgenti quando deludiamo i nostri giovani costringendoli ad emigrare da un paese che troppo spesso non sa valutare il merito e non ha ancora realizzato una effettiva parità di genere. Una domanda che non possiamo eludere quando aumentiamo il nostro debito pubblico senza aver speso e investito al meglio risorse che sono sempre scarse. Ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti. Esprimo davanti a voi, che siete i rappresentanti eletti degli italiani, l’auspicio che il desiderio e la necessità di costruire un futuro migliore orientino saggiamente le nostre decisioni. Nella speranza che i giovani italiani che prenderanno il nostro posto, anche qui in questa aula, ci ringrazino per il nostro lavoro e non abbiano di che rimproverarci per il nostro egoismo.
Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro
Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori. Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione. Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa. Anzi, nell’appartenenza convinta al destino dell’Europa siamo ancora più italiani, ancora più vicini ai nostri territori di origine o residenza. Dobbiamo essere orgogliosi del contributo italiano alla crescita e allo sviluppo dell’Unione europea. Senza l’Italia non c’è l’Europa. Ma, fuori dall’Europa c’è meno Italia. Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere. Siamo una grande potenza economica e culturale. Mi sono sempre stupito e un po’ addolorato in questi anni, nel notare come spesso il giudizio degli altri sul nostro Paese sia migliore del nostro. Dobbiamo essere più orgogliosi, più giusti e più generosi nei confronti del nostro Paese. E riconoscere i tanti primati, la profonda ricchezza del nostro capitale sociale, del nostro volontariato, che altri ci invidiano.
Lo stato del Paese dopo un anno di pandemia
Da quando è esplosa l’epidemia, ci sono stati — i dati ufficiali sottostimano il fenomeno — 92.522 morti, 2.725.106 cittadini colpiti dal virus, in questo momento 2.074 sono i ricoverati in terapia intensiva. Ci sono 259 morti tra gli operatori sanitari e 118.856 sono quelli contagiati, a dimostrazione di un enorme sacrificio sostenuto con generosità e impegno. Cifre che hanno messo a dura prova il sistema sanitario nazionale, sottraendo personale e risorse alla prevenzione e alla cura di altre patologie, con conseguenze pesanti sulla salute di tanti italiani.
L’aspettativa di vita, a causa della pandemia, è diminuita: fino a 4 – 5 anni nelle zone di maggior contagio; un anno e mezzo – due in meno per tutta la popolazione italiana. Un calo simile non si registrava in Italia dai tempi delle due guerre mondiali.
La diffusione del virus ha comportato gravissime conseguenze anche sul tessuto economico e sociale del nostro Paese. Con rilevanti impatti sull’occupazione, specialmente quella dei giovani e delle donne. Un fenomeno destinato ad aggravarsi quando verrà meno il divieto di licenziamento.
Si è anche aggravata la povertà. I dati dei centri di ascolto Caritas, che confrontano il periodo maggio-settembre del 2019 con lo stesso periodo del 2020, mostrano che da un anno all’altro l’incidenza dei “nuovi poveri” passa dal 31% al 45%: quasi una persona su due che oggi si rivolge alla Caritas lo fa per la prima volta. Tra i nuovi poveri aumenta in particolare il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani, degli italiani, che sono oggi la maggioranza (52% rispetto al 47,9 % dello scorso anno) e delle persone in età lavorativa, di fasce di cittadini finora mai sfiorati dall’indigenza.
Il numero totale di ore di Cassa integrazione per emergenza sanitaria dal 1 aprile al 31 dicembre dello scorso anno supera i 4 milioni. Nel 2020 gli occupati sono scesi di 444 mila unità ma il calo si è accentrato su contratti a termine (-393 mila) e lavoratori autonomi (-209). La pandemia ha finora ha colpito soprattutto giovani e donne, una disoccupazione selettiva ma che presto potrebbe iniziare a colpire anche i lavoratori con contratti a tempo indeterminato.
Il nostro sistema di sicurezza sociale è squilibrato, non proteggendo a sufficienza i cittadini con impieghi a tempo determinato e i lavoratori autonomi
Gravi e con pochi precedenti storici gli effetti sulla diseguaglianza. In assenza di interventi pubblici il coefficiente di Gini, una misura della diseguaglianza nella distribuzione del reddito, sarebbe aumentato, nel primo semestre del 2020 (secondo una recente stima), di 4 punti percentuali, rispetto al 34.8% del 2019. Questo aumento sarebbe stato maggiore di quello cumulato durante le due recenti recessioni. L’aumento nella diseguaglianza è stato tuttavia attenuato dalle reti di protezione presenti nel nostro sistema di sicurezza sociale, in particolare dai provvedimenti che dall’inizio della pandemia li hanno rafforzati. Rimane però il fatto che il nostro sistema di sicurezza sociale è squilibrato, non proteggendo a sufficienza i cittadini con impieghi a tempo determinato e i lavoratori autonomi.
Le previsioni pubblicate la scorsa settimana dalla Commissione europea indicano che sebbene nel 2020 la recessione europea sia stata meno grave di quanto ci si aspettasse — e che quindi già fra poco più di un anno si dovrebbero recuperare i livelli di attività economica pre-pandemia – in Italia questo non accadrà prima della fine del 2022, in un contesto in cui, prima della pandemia, non avevamo ancora recuperato pienamente gli effetti delle crisi del 2008-09 e del 2011-13.
La diffusione del Covid ha provocato ferite profonde nelle nostre comunità, non solo sul piano sanitario ed economico, ma anche su quello culturale ed educativo. Le ragazze e i ragazzi hanno avuto, soprattutto quelli nelle scuole secondarie di secondo grado, il servizio scolastico attraverso la Didattica a Distanza che, pur garantendo la continuità del servizio, non può non creare disagi ed evidenziare diseguaglianze. Un dato chiarisce meglio la dinamica attuale: a fronte di 1.696.300 studenti delle scuole secondarie di secondo grado, nella prima settimana di febbraio solo 1.039.372 studenti (il 61,2% del totale) ha avuto assicurato il servizio attraverso la Didattica a Distanza.
Le priorità per ripartire
Questa situazione di emergenza senza precedenti impone di imboccare, con decisione e rapidità, una strada di unità e di impegno comune.
Il piano di vaccinazione. Gli scienziati in soli 12 mesi hanno fatto un miracolo: non era mai accaduto che si riuscisse a produrre un nuovo vaccino in meno di un anno. La nostra prima sfida è, ottenutene le quantità sufficienti, distribuirlo rapidamente ed efficientemente.
Abbiamo bisogno di mobilitare tutte le energie su cui possiamo contare, ricorrendo alla protezione civile, alle forze armate, ai tanti volontari. Non dobbiamo limitare le vaccinazioni all’interno di luoghi specifici, spesso ancora non pronti: abbiamo il dovere di renderle possibili in tutte le strutture disponibili, pubbliche e private. Facendo tesoro dell’esperienza fatta con i tamponi che, dopo un ritardo iniziale, sono stati permessi anche al di fuori della ristretta cerchia di ospedali autorizzati. E soprattutto imparando da Paesi che si sono mossi più rapidamente di noi disponendo subito di quantità di vaccini adeguate. La velocità è essenziale non solo per proteggere gli individui e le loro comunità sociali, ma ora anche per ridurre le possibilità che sorgano altre varianti del virus.
Abbiamo bisogno di mobilitare tutte le energie su cui possiamo contare, ricorrendo alla protezione civile, alle forze armate, ai tanti volontari
Sulla base dell’esperienza dei mesi scorsi dobbiamo aprire un confronto a tutto campo sulla riforma della nostra sanità. Il punto centrale è rafforzare e ridisegnare la sanità territoriale, realizzando una forte rete di servizi di base (case della comunità, ospedali di comunità, consultori, centri di salute mentale, centri di prossimità contro la povertà sanitaria). È questa la strada per rendere realmente esigibili i “Livelli essenziali di assistenza” e affidare agli ospedali le esigenze sanitarie acute, post acute e riabilitative. La “casa come principale luogo di cura” è oggi possibile con la telemedicina, con l’assistenza domiciliare integrata.
La scuola: non solo dobbiamo tornare rapidamente a un orario scolastico normale, anche distribuendolo su diverse fasce orarie, ma dobbiamo fare il possibile, con le modalità più adatte, per recuperare le ore di didattica in presenza perse lo scorso anno, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno in cui la didattica a distanza ha incontrato maggiori difficoltà.
Occorre rivedere il disegno del percorso scolastico annuale. Allineare il calendario scolastico alle esigenze derivanti dall’esperienza vissuta dall’inizio della pandemia. Il ritorno a scuola deve avvenire in sicurezza.
È necessario investire nella formazione del personale docente per allineare l’offerta educativa alla domanda delle nuove generazioni
È necessario investire in una transizione culturale a partire dal patrimonio identitario umanistico riconosciuto a livello internazionale. Siamo chiamati disegnare un percorso educativo che combini la necessaria adesione agli standard qualitativi richiesti, anche nel panorama europeo, con innesti di nuove materie e metodologie, e coniugare le competenze scientifiche con quelle delle aree umanistiche e del multilinguismo.
Infine è necessario investire nella formazione del personale docente per allineare l’offerta educativa alla domanda delle nuove generazioni.
In questa prospettiva particolare attenzione va riservata agli ITIS (istituti tecnici). In Francia e in Germania, ad esempio, questi istituti sono un pilastro importante del sistema educativo. E’ stato stimato in circa 3 milioni, nel quinquennio 2019-23, il fabbisogno di diplomati di istituti tecnici nell’area digitale e ambientale. Il Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza assegna 1,5 md agli ITIS, 20 volte il finanziamento di un anno normale pre-pandemia. Senza innovare l’attuale organizzazione di queste scuole, rischiamo che quelle risorse vengano sprecate.
La globalizzazione, la trasformazione digitale e la transizione ecologica stanno da anni cambiando il mercato del lavoro e richiedono continui adeguamenti nella formazione universitaria. Allo stesso tempo occorre investire adeguatamente nella ricerca, senza escludere la ricerca di base, puntando all’eccellenza, ovvero a una ricerca riconosciuta a livello internazionale per l’impatto che produce sulla nuova conoscenza e sui nuovi modelli in tutti i campi scientifici. Occorre infine costruire sull’esperienza di didattica a distanza maturata nello scorso anno sviluppandone le potenzialità con l’impiego di strumenti digitali che potranno essere utilizzati nella didattica in presenza.
Oltre la pandemia
Quando usciremo, e usciremo, dalla pandemia, che mondo troveremo? Alcuni pensano che la tragedia nella quale abbiamo vissuto per più di 12 mesi sia stata simile ad una lunga interruzione di corrente. Prima o poi la luce ritorna, e tutto ricomincia come prima. La scienza, ma semplicemente il buon senso, suggeriscono che potrebbe non essere così.
Il riscaldamento del pianeta ha effetti diretti sulle nostre vite e sulla nostra salute, dall’inquinamento, alla fragilità idrogeologica, all’innalzamento del livelllo dei mari che potrebbe rendere ampie zone di alcune città litoranee non più abitabili. Lo spazio che alcune megalopoli hanno sottratto alla natura potrebbe essere stata una delle cause della trasmissione del virus dagli animali all’uomo.
Proteggere il futuro dell’ambiente, conciliandolo con il progresso e il benessere sociale, richiede un approccio nuovo
Come ha detto papa Francesco “Le tragedie naturali sono la risposta della terra al nostro maltrattamento. E io penso che se chiedessi al Signore che cosa pensa, non credo mi direbbe che è una cosa buona: siamo stati noi a rovinare l’opera del Signore”.
Proteggere il futuro dell’ambiente, conciliandolo con il progresso e il benessere sociale, richiede un approccio nuovo: digitalizzazione, agricoltura, salute, energia, aerospazio, cloud computing, scuole ed educazione, protezione dei territori , biodiversità, riscaldamento globale ed effetto serra, sono diverse facce di una sfida poliedrica che vede al centro l’ecosistema in cui si svilupperanno tutte le azioni umane.
Anche nel nostro Paese alcuni modelli di crescita dovranno cambiare. Ad esempio il modello di turismo, un’attività che prima della pandemia rappresentava il 14 per cento del totale delle nostre attività economiche. Imprese e lavoratori in quel settore vanno aiutati ad uscire dal disastro creato dalla pandemia. Ma senza scordare che il nostro turismo avrà un futuro se non dimentichiamo che esso vive della nostra capacità di preservare, cioè almeno non sciupare, città d’arte, luoghi e tradizioni che successive generazioni attraverso molti secoli hanno saputo preservare e ci hanno tramandato.
Uscire dalla pandemia non sarà come riaccendere la luce. Questa osservazione, che gli scienziati non smettono di ripeterci, ha una conseguenza importante. Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Acune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi.
A pagare il prezzo più alto sono stati i giovani, le donne e i lavoratori autonomi. E’ innanzitutto a loro che bisogna pensare quando approntiamo una strategia di sostegno delle imprese e del lavoro
La capacità di adattamento del nostro sistema produttivo e interventi senza precedenti hanno permesso di preservare la forza lavoro in un anno drammatico: sono stati sette milioni i lavoratori che hanno fruito di strumenti di integrazione salariale per un totale di 4 miliardi di ore. Grazie a tali misure, supportate anche dalla Commissione Europea mediante il programma SURE, è stato possibile limitare gli effetti negativi sull’occupazione. A pagare il prezzo più alto sono stati i giovani, le donne e i lavoratori autonomi. E’ innanzitutto a loro che bisogna pensare quando approntiamo una strategia di sostegno delle imprese e del lavoro, strategia che dovrà coordinare la sequenza degli interventi sul lavoro, sul credito e sul capitale.
Centrali sono le politiche attive del lavoro. Affinché esse siano immediatamente operative è necessario migliorare gli strumenti esistenti, come l’assegno di riallocazione, rafforzando le politiche di formazione dei lavoratori occupati e disoccupati. Vanno anche rafforzate le dotazioni di personale e digitali dei centri per l’impiego in accordo con le regioni. Questo progetto è già parte del Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza ma andrà anticipato da subito.
Il cambiamento climatico, come la pandemia, penalizza alcuni settori produttivi senza che vi sia un’espansione in altri settori che possa compensare. Dobbiamo quindi essere noi ad assicurare questa espansione e lo dobbiamo fare subito.
La risposta della politica economica al cambiamento climatico e alla pandemia dovrà essere una combinazione di politiche strutturali che facilitino l’innovazione, di politiche finanziarie che facilitino l’accesso delle imprese capaci di crescere al capitale e al credito e di politiche monetarie e fiscali espansive che agevolino gli investimenti e creino domanda per le nuove attività sostenibili che sono state create.
Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta.
Parità di genere
La mobilitazione di tutte le energie del Paese nel suo rilancio non può prescindere dal coinvolgimento delle donne. Il divario di genere nei tassi di occupazione in Italia rimane tra i più alti di Europa: circa 18 punti su una media europea di 10. Dal dopoguerra ad oggi, la situazione è notevolmente migliorata, ma questo incremento non è andato di pari passo con un altrettanto evidente miglioramento delle condizioni di carriera delle donne. L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo.
Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge
Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi. Intendiamo lavorare in questo senso, puntando a un riequilibrio del gap salariale e un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro.
Garantire parità di condizioni competitive significa anche assicurarsi che tutti abbiano eguale accesso alla formazione di quelle competenze chiave che sempre più permetteranno di fare carriera – digitali, tecnologiche e ambientali. Intendiamo quindi investire, economicamente ma soprattutto culturalmente, perché sempre più giovani donne scelgano di formarsi negli ambiti su cui intendiamo rilanciare il Paese. Solo in questo modo riusciremo a garantire che le migliori risorse siano coinvolte nello sviluppo del Paese.
Il Mezzogiorno
Aumento dell’occupazione, in primis, femminile, è obiettivo imprescindibile: benessere, autodeterminazione, legalità, sicurezza sono strettamente legati all’aumento dell’occupazione femminile nel Mezzogiorno. Sviluppare la capacità di attrarre investimenti privati nazionali e internazionali è essenziale per generare reddito, creare lavoro, investire il declino demografico e lo spopolamento delle aree interne. Ma per raggiungere questo obiettivo occorre creare un ambiente dove legalità e sicurezza siano sempre garantite. Vi sono poi strumenti specifici quali il credito d’imposta e altri interventi da concordare in sede europea.
Per riuscire a spendere e spendere bene, utilizzando gli investimenti dedicati dal Next Generation EU occorre irrobustire le amministrazioni meridionali, anche guardando con attenzione all’esperienza di un passato che spesso ha deluso la speranza.
Gli investimenti pubblici
In tema di infrastrutture occorre investire sulla preparazione tecnica, legale ed economica dei funzionari pubblici per permettere alle amministrazioni di poter pianificare, progettare ed accelerare gli investimenti con certezza dei tempi, dei costi e in piena compatibilità con gli indirizzi di sostenibilità e crescita indicati nel Programma nazionale di Ripresa e Resilienza. Particolare attenzione va posta agli investimenti in manutenzione delle opere e nella tutela del territorio, incoraggiando l’utilizzo di tecniche predittive basate sui più recenti sviluppi in tema di Intelligenza artificiale e tecnologie digitali. Il settore privato deve essere invitato a partecipare alla realizzazione degli investimenti pubblici apportando più che finanza, competenza, efficienza e innovazione per accelerare la realizzazione dei progetti nel rispetto dei costi previsti.
Next Generation EU
La strategia per i progetti del Next Generation EU non può che essere trasversale e sinergica, basata sul principio dei co-benefici, cioè con la capacità di impattare simultaneamente più settori, in maniera coordinata.
Dovremo imparare a prevenire piuttosto che a riparare, non solo dispiegando tutte le tecnologie a nostra disposizione ma anche investendo sulla consapevolezza delle nuove generazioni che “ogni azione ha una conseguenza”.
Come si è ripetuto più volte, avremo a disposizione circa 210 miliardi lungo un periodo di sei anni.
Ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti
Queste risorse dovranno essere spese puntando a migliorare il potenziale di crescita della nostra economia. La quota di prestiti aggiuntivi che richiederemo tramite la principale componente del programma, lo Strumento per la ripresa e resilienza, dovrà essere modulata in base agli obiettivi di finanza pubblica.
Il precedente Governo ha già svolto una grande mole di lavoro sul Programma di ripresa e resilienza (PNRR). Dobbiamo approfondire e completare quel lavoro che, includendo le necessarie interlocuzioni con la Commissione Europea, avrebbe una scadenza molto ravvicinata, la fine di aprile.
Gli orientamenti che il Parlamento esprimerà nei prossimi giorni a commento della bozza di Programma presentata dal Governo uscente saranno di importanza fondamentale nella preparazione della sua versione finale. Voglio qui riassumere l’orientamento del nuovo Governo.
Le Missioni del Programma potranno essere rimodulate e riaccorpate, ma resteranno quelle enunciate nei precedenti documenti del Governo uscente, ovvero l’innovazione, la digitalizzazione, la competitività e la cultura; la transizione ecologica; le infrastrutture per la mobilità sostenibile; la formazione e la ricerca; l’equità sociale, di genere, generazionale e territoriale; la salute e la relativa filiera produttiva.
Dovremo rafforzare il Programma prima di tutto per quanto riguarda gli obiettivi strategici e le riforme che li accompagnano.
Obiettivi strategici
Il Programma è finora stato costruito in base ad obiettivi di alto livello e aggregando proposte progettuali in missioni, componenti e linee progettuali. Nelle prossime settimane rafforzeremo la dimensione strategica del Programma, in particolare con riguardo agli obiettivi riguardanti la produzione di energia da fonti rinnovabili, l’inquinamento dell’aria e delle acque, la rete ferroviaria veloce, le reti di distribuzione dell’energia per i veicoli a propulsione elettrica, la produzione e distribuzione di idrogeno, la digitalizzazione, la banda larga e le reti di comunicazione 5G.
Il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione. Compito dello dello Stato è utilizzare le leve della spesa per ricerca e sviluppo, dell’istruzione e della formazione, della regolamentazione, dell’incentivazione e della tassazione.
Nella sanità dovremo porre le basi per rafforzare la medicina territoriale e la telemedicina
In base a tale visione strategica, il Programma nazionale di Ripresa e Resilienza indicherà obiettivi per il prossimo decennio e più a lungo termine, con una tappa intermedia per l’anno finale del Next Generation EU, il 2026. Non basterà elencare progetti che si vogliono completare nei prossimi anni. Dovremo dire dove vogliamo arrivare nel 2026 e a cosa puntiamo per il 2030 e il 2050, anno in cui l’Unione Europea intende arrivare a zero emissioni nette di CO2 e gas clima-alteranti.
Selezioneremo progetti e iniziative coerenti con gli obiettivi strategici del Programma, prestando grande attenzione alla loro fattibilità nell’arco dei sei anni del programma. Assicureremo inoltre che l’impulso occupazionale del Programma sia sufficientemente elevato in ciascuno dei sei anni, compreso il 2021.
Chiariremo il ruolo del terzo settore e del contributo dei privati al Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza attraverso i meccanismi di finanziamento a leva (fondo dei fondi).
Sottolineeremo il ruolo della scuola che tanta parte ha negli obiettivi di coesione sociale e territoriale e quella dedicata all’inclusione sociale e alle politiche attive del lavoro
Nella sanità dovremo usare questi progetti per porre le basi, come indicato sopra, per rafforzare la medicina territoriale e la telemedicina.
La governance del Programma di ripresa e resilienza è incardinata nel Ministero dell’Economia e Finanza con la strettissima collaborazione dei Ministeri competenti che definiscono le politiche e i progetti di settore. Il Parlamento verrà costantemente informato sia sull’impianto complessivo, sia sulle politiche di settore.
Infine il capitolo delle riforme che affronterò ora separatamente.
Le riforme
Il Next generation EU prevede riforme.
Alcune riguardano problemi aperti da decenni ma che non per questo vanno dimenticati. Fra questi la certezza delle norme e dei piani di investimento pubblico, fattori che limitano gli investimenti, sia italiani che esteri. inoltre la concorrenza: chiederò all’Autorità garante per la concorrenza e il mercato, di produrre in tempi brevi come previsto dalla Legge Annuale sulla Concorrenza (Legge 23 luglio 2009, n. 99) le sue proposte in questo campo.
le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, che conoscono bene cosa può accadere se si cambia un’imposta
Negli anni recenti i nostri tentativi di riformare il paese non sono stati del tutto assenti, ma i loro effetti concreti sono stati limitati. Il problema sta forse nel modo in cui spesso abbiamo disegnato le riforme: con interventi parziali dettati dall’urgenza del momento, senza una visione a tutto campo che richiede tempo e competenza. Nel caso del fisco, per fare un esempio, non bisogna dimenticare che il sistema tributario è un meccanismo complesso, le cui parti si legano una all’altra. Non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta. Un intervento complessivo rende anche più difficile che specifici gruppi di pressione riescano a spingere il governo ad adottare misure scritte per avvantaggiarli.
Inoltre, le esperienze di altri paesi insegnano che le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, che conoscono bene cosa può accadere se si cambia un’imposta. Ad esempio la Danimarca, nel 2008, nominò una Commissione di esperti in materia fiscale. La Commissione incontrò i partiti politici e le parti sociali e solo dopo presentò la sua relazione al Parlamento. Il progetto prevedeva un taglio della pressione fiscale pari a 2 punti di Pil. L’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito veniva ridotta, mentre la soglia di esenzione veniva alzata.
Un metodo simile fu seguito in Italia all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso quando il governo affidò ad una commissione di esperti, fra i quali Bruno Visentini e Cesare Cosciani, il compito di ridisegnare il nostro sistema tributario, che non era stato più modificato dai tempi della riforma Vanoni del 1951. Si deve a quella commissione l’introduzione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e del sostituto d’imposta per i redditi da lavoro dipendente. Una riforma fiscale segna in ogni Paese un passaggio decisivo. Indica priorità, dà certezze, offre opportunità, è l’architrave della politica di bilancio
In questa prospettiva va studiata una revisione profonda dell’Irpef con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività. Funzionale al perseguimento di questi ambiziosi obiettivi sarà anche un rinnovato e rafforzato impegno nell’azione di contrasto all’evasione fiscale.
Particolarmente urgente è lo smaltimento dell’arretrato accumulato durante la pandemia
L’altra riforma che non si può procrastinare è quella della pubblica amministrazione. Nell’emergenza l’azione amministrativa, a livello centrale e nelle strutture locali e periferiche, ha dimostrato capacità di resilienza e di adattamento grazie a un impegno diffuso nel lavoro a distanza e a un uso intelligente delle tecnologie a sua disposizione. La fragilità del sistema delle pubbliche amministrazioni e dei servizi di interesse collettivo è, tuttavia, una realtà che deve essere rapidamente affrontata.
Particolarmente urgente è lo smaltimento dell’arretrato accumulato durante la pandemia. Agli uffici verrà chiesto di predisporre un piano di smaltimento dell’arretrato e comunicarlo ai cittadini
La riforma dovrà muoversi su due direttive: investimenti in connettività con anche la realizzazione di piattaforme efficienti e di facile utilizzo da parte dei cittadini; aggiornamento continuo delle competenze dei dipendenti pubblici, anche selezionando nelle assunzioni le migliori competenze e attitudini in modo rapido, efficiente e sicuro, senza costringere a lunghissime attese decine di migliaia di candidati.
Nel campo della giustizia le azioni da svolgere sono principalmente quelle che si collocano all’interno del contesto e delle aspettative dell’Unione europea. Nelle Country Specific Recommendations indirizzate al nostro Paese negli anni 2019 e 2020, la Commissione, pur dando atto dei progressi compiuti negli ultimi anni, ci esorta: ad aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile, attuando e favorendo l’applicazione dei decreti di riforma in materia di insolvenza, garantendo un funzionamento più efficiente dei tribunali, favorendo lo smaltimento dell’arretrato e una migliore gestione dei carichi di lavoro, adottando norme procedurali più semplici, coprendo i posti vacanti del personale amministrativo, riducendo le differenze che sussistono nella gestione dei casi da tribunale a tribunale e infine favorendo la repressione della corruzione.
Nei nostri rapporti internazionali questo governo sarà convintamente europeista e atlantista, in linea con gli ancoraggi storici dell’Italia: Unione europea, Alleanza Atlantica, Nazioni Unite. Ancoraggi che abbiamo scelto fin dal dopoguerra, in un percorso che ha portato benessere, sicurezza e prestigio internazionale. Profonda è la nostra vocazione a favore di un multilateralismo efficace, fondato sul ruolo insostituibile delle Nazioni Unite. Resta forte la nostra attenzione e proiezione verso le aree di naturale interesse prioritario, come i Balcani, il Mediterraneo allargato, con particolare attenzione alla Libia e al Mediterraneo orientale, e all’Africa.
Nei nostri rapporti internazionali questo governo sarà convintamente europeista e atlantista, in linea con gli ancoraggi storici dell’Italia: Unione europea, Alleanza Atlantica, Nazioni Unite
Gli anni più recenti hanno visto una spinta crescente alla costruzione in Europa di reti di rapporti bilaterali e plurilaterali privilegiati. Proprio la pandemia ha rivelato la necessità di perseguire uno scambio più intenso con i partner con i quali la nostra economia è più integrata. Per l’Italia ciò comporterà la necessità di meglio strutturare e rafforzare il rapporto strategico e imprescindibile con Francia e Germania. Ma occorrerà anche consolidare la collaborazione con Stati con i quali siamo accomunati da una specifica sensibilità mediterranea e dalla condivisione di problematiche come quella ambientale e migratoria: Spagna, Grecia, Malta e Cipro. Continueremo anche a operare affinché si avvii un dialogo più virtuoso tra l’Unione europea e la Turchia, partner e alleato NATO.
L’Italia si adopererà per alimentare meccanismi di dialogo con la Federazione Russa. Seguiamo con preoccupazione ciò che sta accadendo in questo e in altri paesi dove i diritti dei cittadini sono spesso violati. Seguiamo anche con preoccupazione l’aumento delle tensioni in Asia intorno alla Cina.
Altra sfida sarà il negoziato sul nuovo Patto per le migrazioni e l’asilo, nel quale perseguiremo un deciso rafforzamento dell’equilibrio tra responsabilità dei Paesi di primo ingresso e solidarietà effettiva. Cruciale sarà anche la costruzione di una politica europea dei rimpatri dei non aventi diritto alla protezione internazionale, accanto al pieno rispetto dei diritti dei rifugiati.
L’avvento della nuova Amministrazione USA prospetta un cambiamento di metodo, più cooperativo nei confronti dell’Europa e degli alleati tradizionali. Sono fiducioso che i nostri rapporti e la nostra collaborazione non potranno che intesificarsi.
Dal dicembre scorso e fino alla fine del 2021, l’Italia esercita per la prima volta la Presidenza del G20. Il programma, che coinvolgerà l’intera compagine governativa, ruota intorno a tre pilastri: People, Planet, Prosperity. L’Italia avrà la responsabilità di guidare il Gruppo verso l’uscita dalla pandemia, e di rilanciare una crescita verde e sostenibile a beneficio di tutti. Si tratterà di ricostruire e di ricostruire meglio.
Insieme al Regno Unito – con cui quest’anno abbiamo le Presidenze parallele del G7 e del G20 – punteremo sulla sostenibilità e la “transizione verde” nella prospettiva della prossima Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico (Cop 26), con una particolare attenzione a coinvolgere attivamente le giovani generazioni, attraverso l’evento “Youth4Climate”.
Conclusioni
Questo è il terzo governo della legislatura. Non c’è nulla che faccia pensare che possa far bene senza il sostegno convinto di questo Parlamento. E’ un sostegno che non poggia su alchimie politiche ma sullo spirito di sacrificio con cui donne e uomini hanno affrontato l’ultimo anno, sul loro vibrante desiderio di rinascere, di tornare più forti e sull’entusiasmo dei giovani che vogliono un paese capace di realizzare i loro sogni. Oggi, l’unità non è un’opzione, l’unità è un dovere. Ma è un dovere guidato da ciò che son certo ci unisce tutti: l’amore per l’Italia. -
Tornare alla lira?
Annegare il debito pubblico in una gigantesca inflazione e’ stato sempre il sogno delle nazioni indebitate e storicamente e’ anche successo. Nei secoli scorsi l’Inghilterra e la Germania ad esempio hanno ripagato in questo modo molti dei loro debiti di guerra. Ma detto questo proverei a fare a tua mamma questa domanda: “Se l’oro ed i diamanti si potessero trovare come i sassi nel greto di un torrente avrebbero il valore che hanno?“. La risposta piu’ logica sarebbe:“Evidentemente no!”. E perche’? potrebbe obbiettare. Perche’ e’ la rarita’ di un bene che ne determina il suo valore. Nemmeno la moneta circolante (quella che abbiamo nel portafogli) sfugge a questa regola. Il valore della moneta e’ pari all’equivalente del suo corrispettivo in oro che le Banche Centrali detengono. L’oro e’ un metallo molto molto raro in natura e percio’ il suo valore e’ alto. Potremmo andare a cercarlo sulle Kilonove che sono delle stelle a neutroni ossia cio’ che rimane dopo un’esplosione di una supernova. Nel 2017 alcuni astrofisici scoprirono che ne esistono quantita’ enormi ma per adesso tutto questo e’ fuori dalla nostra portata. Percio’ se le Banche Centrali di uno stato sovrano stampano e mettono in circolo molta piu’ moneta di quella che e’ necessaria alla fine le cose da comprare costeranno sempre di piu’ creando quello che in economia si chiama inflazione. All’epoca della Repubblica di Weimar ad esempio l’inflazione raggiunse il 662,6% annuo aumentando sempre di piu’ al punto che per comprare il pane bisognava portarsi dietro valige piene di banconote. Ma al di la’ di questo caso limite e’ altrettanto vero che l’inflazione non colpisce allo stesso modo i vari soggetti economici. Certamente penalizzati sarebbero i lavoratori dipendenti ed i pensionati che vedrebbero poco alla volta eroso il loro potere d’acquisto. I commercianti ed i liberi professionisti al contrario potrebbero aumentare il prezzo delle cose che vendono o delle loro parcelle e se esportano quello che producono ne avrebbero un vantaggio perche’ gli acquirenti stranieri sarebbero avvantaggiati dal cambio tra le monete. Questo sarebbe un ulteriore danno per i consumatori perche’ per quelle aziende l’incentivo a migliorare i loro prodotti o a ridurre i costi per essere competitivi perderebbe ogni valore. La stabilita’ monetria di cui godiamo dopo aver aderito alla moneta unica europea (euro) ha permesso al nostro paese di sconfiggere l’inflazione portandola dal 21% del 1981 alla media europea di questi anni inferiore all’1%. Questo permette di avere una spesa per interessi irrisoria per chi contrae un mutuo o deve ripagare un prestito. Queste cose bisogna spiegarle con forza a quegli sprovveduti che si lasciano sedurre dalle idee di abbandonare l’euro propagandate dalla destra populista del nostro paese. Se tornassimo alla “liretta” lo stato disastrato dei nostri conti pubblici ne determinerebbe una svalutazione che secondo alcuni sarebbe dell’ordine del 30-50% rispetto all’euro. Ovviamente i prestiti ed i mutui contratti in euro andrebbero restituiti in quella valuta ed i risparmi degli Italiani sarebbero dimezzati di valore. Sarebbe in ultima analisi come una gigantesca patrimoniale che una destra irresponsabile finirebbe per infliggere a tutti gli italiani per il suo atteggiamento sovranista ed anti europeista. Paradossalmente quella stessa destra che vede come fumo negli occhi la patrimoniale proposta a carico di quelli ricchi per rendere sostenibile l’enorme debito pubblico che ci impedisce di crescere.
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La questione del cambio Euro-Lira
Il passaggio all’euro non è stato tutto rose e fiori per l’economia italiana. L’Italia entrò nell’euro con un cambio di circa 2000 lire per euro ( 1936,27 per la precisione). Ciò significa che se l’individuo X guadagnava 2 milioni di lire al mese, avrebbe percepito uno stipendio di 1033 euro al mese. Questo tasso venne fissato all’inizio del 1999 mentre la conversione vera e propria avvenne nel 2002.
Ora l’opinione pubblica pensa che il cambio sia stato sbagliato, ovviamente a sfavore del popolo italiano e probabilmente il pensiero “populista” ci porta a designare come colpevole la Germania. Secondo questa tesi il cambio sarebbe dovuto essere 1 euro = mille lire. Ciò significa che 2 milioni di lire sarebbero equivalenti a 2000 euro. Questo individuo avrebbe quindi avuto il doppio della retribuzione reale, avrebbe raddoppiato il suo potere d’acquisto, insomma sarebbe stato il sogno di chiunque no? Il problema è che in economia non sempre ci si può permettere di fermarsi senza ragionare ulteriormente.
La realtà dei fatti è diversa ma dobbiamo prima di tutto capire una cosa. Il cambio a 2000 lire non è stato inventato a caso da Prodi e Ciampi bensì è un valore più o meno coerente con i tassi di cambio prevalenti sui mercati finanziari prima dell’entrata nell’euro se si volevano mantenere invariati i rapporti di cambio tra i vari paesi dell’area euro.
Nell’1998 occorrevano circa 1000 lire per comprare un marco tedesco. Quando la Germania entrò nell’euro il tasso di cambio fu il seguente: 1,95583 marchi per euro, cioè circa 2 marchi per un euro. Ciò comportava che, per mantenere invariato il cambio rispetto alla Germania, circa 2000 lire venissero scambiate con un euro. Quindi se un euro valeva 2 marchi allora un euro sarebbe dovuto essere equivalente a 2000 lire, visto che prima dell’euro con 2000 lire si compravano 2 marchi.
Sulla base di cosa l’italia avrebbe dovuto pretendere un cambio diverso da quello che avrebbe potuto mantenere invariato il cambio tra Italia e Germania? Non è chiaro.
Supponiamo che l’Italia fosse riuscita a ottenere il cambio tanto desiderato : 1000 lire = 1 euro. In questo modo “saremo stati tutti più ricchi”. Questo fatto avrebbe fatto crollare e fallire le esportazioni del nostro paese. Perché? Ipotizziamo che un’impresa abbia un dipendente pagato 2 milioni di lire al mese e che in un mese producesse una sedia. Supponiamo che non vi siano costi aggiuntivi se non quello del dipendente e non vi siano profitti. L’impresa vende quindi la sedia per un prezzo di 2 milioni di lire che è l’equivalente di 2000 euro (secondo il nostro ipotetico cambio tanto desiderato). Negli altri paesi europei invece avremmo un prezzo delle sedie di 1000 euro. A questo punto risulta chiaro che i prodotti italiani non avrebbero trovato nessun acquirente. L’azienda avrebbe dovuto vendere il prodotto a 1000 euro per essere competitiva e avrebbe quindi operato in perdita. Risultato: l’impresa fallisce, il dipendente è diventato disoccupato e di certo non più ricco.
Possiamo due estrapolare due cose fondamentali:
- Il cambio 2000 lire = 1 euro era inevitabile
- Entrare con un tasso di cambio di 1000 lire = 1 euro non ci avrebbe reso più ricchi, anzi ci avrebbe rovinato.
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Perché i governi in Italia cadono così facilmente?
Perché i governi in Italia cadono così facilmente?
Il grandissimo Giovanni Sartori spiegava che esistono due diversi tipi puri di democrazia.
(foto da Il Post)
Il più antico è il sistema presidenziale come quello nato alla fine del Settecento negli Stati Uniti d’America, che si basa sul dualismo tra Presidente e Parlamento. Ha il pregio di fare scegliere entrambi agli elettori e di essere molto chiaro. Se però Presidente e Parlamento bisticciano invece di collaborare il rischio è che il sistema si blocchi. In effetti, è un sistema che ha funzionato bene solo negli USA dove è nato, mentre ha funzionato malissimo in tutti i paesi (quasi tutti sudamericani) dove hanno provato a copiarlo.
Il secondo tipo è il sistema parlamentare puro, nato con la Costituzione del Belgio del 1831 e che si basa sul dualismo tra maggioranza ed opposizione. Quando funziona bene il capo del governo controlla sia il potere Esecutivo che quello Legislativo ed ha potenzialmente molto più spazio di manovra di un Presidente americano, anche se non sembra. Se però il Parlamento non riesce ad esprimere una maggioranza chiara, si rischia di finire nell’assemblearismo. Ossia una gran confusione politica in cui nessuno riesce ad esprimere una visione di lungo periodo.
Per questo sono nate due forme intermedie di democrazia, atte a mitigare i difetti delle due forme pure.
La prima è il rinforzo del capo del governo. Questo è nato spontaneamente in Gran Bretagna a causa di un sistema elettorale che riesce a dare quasi sempre (ma purtroppo non sempre) risultati così chiari da non lasciare troppo spazio decisionale al Parlamento. In Germania ne è nata una variante basata non sul sistema elettorale, ma su regole costituzionali che rinforzano il Cancelliere rispetto agli altri ministri e rispetto al Parlamento.
La seconda è il semi-presidenzialismo, nato in Francia negli anni Cinquanta del secolo scorso. In questo modello, le cose tendono a funzionare come in un sistema parlamentare quando dalle elezioni escono risultati chiari: il governo si forma in aula e il Presidente fa il mero arbitro. Nel caso che invece il Parlamento non riesca ad esprimere una maggioranza chiara, il sistema tende a funzionare come il sistema americano e il dualismo passa dall’essere maggioranza/opposizione ad essere governo del presidente/parlamento.
E in Italia? La nostra Costituzione disegna un sistema parlamentare puro, che ha funzionato bene nei primi anni grazie ad un sistema di partiti forte ed una classe politica forgiata nella lotta contro il fascismo. Ma con il tempo ha cominciato a funzionare sempre peggio e presto si è cominciato a pensare di modificarla in direzione di un cancellierato o di una repubblica semi-presidenziale. Ma da almeno quarant’anni non ci si riesce a mettere d’accordo.
Quando la situazione è particolarmente caotica, il nostro Presidente tende a smettere di fare il notaio e comincia ad avere un ruolo piuttosto attivo. Per questo in molti pensiamo che basterebbe eleggere direttamente il Presidente della Repubblica per dargli l’autorità di gestire le crisi con più efficacia. Non si tratterebbe che mettere nero su bianco quello che già accade con regolarità e spontaneamente almeno dai tempi di Sandro Pertini in poi.
Per un decennio una legge elettorale parzialmente maggioritaria (uscita da due referendum del 1991 e del 1993) fece funzionare il nostro sistema in maniera abbastanza simile al sistema inglese. Purtroppo furono anni avvelenati dalla diatriba tra berlusconiani ed antiberlusconiani, ma per i 12 anni in cui rimase in vigore la legge Mattarella noi sapevamo assieme agli esiti del voto anche chi sarebbe andato al governo il giorno dopo. Quelli furono gli anni di maggiore durata dei nostri governi.
I due falliti referendum voluti dal CDX nel 2006 e dal CSX nel 2016 erano entrambi un tentativo di reimpostare il nostro sistema verso un cancellierato di tipo tedesco. Quindi si basavano su regole che rinforzavano il Presidente del Consiglio abbinate però ad un sistema elettorale meno polarizzante. In entrambi i casi l’opposizione, dopo aver appoggiato il disegno, si sfilò e addirittura alla fine si oppose alla proposta. Cosa paradossale, vista la somiglianza tra i due progetti. Il risultato è che il sistema “simil-britannico” basato sul sistema elettorale venne cancellato, ma senza sostituirlo con il cancellierato. Quindi siamo ricaduti nell’assemblearismo che nel frattempo si è ulteriormente aggravato da una sempre maggiore frammentazione dei partiti. E anche, diciamolo, a causa di un crollo verticale della qualità del parlamentare medio.
Che fare? La strada più semplice sarebbe ripristinare la legge elettorale che tra l’altro porta il nome del nostro attuale Presidente della Repubblica. Alcuni propongono invece di adottare il sistema elettorale dei Comuni e delle Regioni, assegnando un premio di maggioranza alla coalizione vincente in un secondo turno. Anche quella potrebbe essere una soluzione. L’elezione diretta dal Capo dello Stato potrebbe essere un’altra possibilità, ma essendo una modifica costituzionale avrebbe un iter molto più lungo e complicato.
Staremo a vedere se il nuovo governo di unità nazionale sarà in grado di indirizzare il Parlamento verso una di queste riforme. Qualcosa bisognerà fare.