Autore: panfoli

  • Fine dei giochi per Vladimir Putin?

    Fine dei giochi per Vladimir Putin?

    Pubblicato il 21 gennaio
    di Mattia Bernardo Bagnoli
    ANSA Magazine
    aMag #66


    Russia 2016

    Fine dei giochi per Vladimir Putin?
    Il 2015 è stato l’anno in cui la Russia è tornata alla ribalta sul grande scacchiere internazionale, contribuendo allo storico accordo sul programma nucleare iraniano e aprendo il “fronte siriano”. Ora, però, il crollo del petrolio rischia di far saltare i conti pubblici. E mentre il governo corre ai ripari lavorando a una spending review lacrime e sangue, a rischiare di più è il piano strategico di apertura a oriente varato dal Cremlino.
    «Bisogna essere onesti, l’era del petrolio è finita e la Russia ha perso la sfida con i propri competitor». È il pomeriggio inoltrato di venerdì 15 gennaio e il Gaidar Forum – la Cernobbio russa, tanto per capirci – si avvia alla conclusione. German Gref si ferma a parlare coi giornalisti e le sue parole rotolano pesanti sui block-notes come massi. Questo cinquantenne di origine tedesca, nato in Kazakistan da una famiglia di deportati, non è un professorone qualunque, esperto di tutto ma responsabile di niente, come molti speaker del Forum. È l’amministratore delegato della Sberbank, la prima banca russa (di Stato), e già ministro allo Sviluppo Economico per 7 anni. Insieme ad Alexei Kudrin è considerato – nel bene e nel male – l’artefice della trasformazione economica della Russia dell’epoca Putin. Insomma, è un uomo del sistema – un sistema che da quando il petrolio ha iniziato la sua picchiata rischia parecchio.

    L’anno nuovo ha infatti portato in dono una sfilza di numeri (negativi) da cardiopalma. «Il bilancio pubblico, così come è concepito, è sostenibile con i prezzi del petrolio a 82 dollari al barile», ha spiegato il ministro delle Finanze Anton Sliuanov. Per il 2016, invece, è stato approntato un budget d’emergenza ipotizzando un prezzo medio di 50 dollari. Peccato che l’oro nero viaggia sotto i 30. Stando così le cose, è emergenza nell’emergenza. Il Cremlino ha ordinato degli stress test tenendo presente tre scenari: inferno (25 dollari), purgatorio (35 dollari) e paradiso – si fa per dire – col prezzo del barile fisso a 45 dollari. Il che consentirebbe di considerare più o meno valido il piano attuale.

    Il rublo però è in caduta libera e ha fatto segnare il minimo storico sia nei confronti dell’euro che del dollaro. L’inflazione galoppa al 12,5%. I salari scendono e la qualità della vita peggiora. I fondi di riserva (la Russia ha due fondi sovrani accumulati negli anni di vacche grasse) iniziano ad essere intaccati e se le cose non cambiano potrebbero esaurirsi nel giro di due anni. Tanto che la Banca Centrale ha raccomandato di spingere sul deficit (fino a un tetto massimo di debito pubblico del 25-30% del Pil) pur di preservarli. Ma a quali tassi?

    Comunque vadano le cose, insomma, nel futuro della Russia s’intravede una sola soluzione: tagli. Pesantissimi. E il rischio non è tanto – o meglio, non solo – di ridurre al lumicino le spese correnti, andando così a erodere il tesoretto di popolarità che circonda lo “zar” Vladimir Putin (e in questo senso le proteste per la spending review sul welfare sono già iniziate). No. Ad essere in bilico è soprattutto il piano di sviluppo che il presidente ha in mente per il futuro del Paese: guardare a Oriente.

    Tornando a Gref. Secondo lui la differenza, in termini di ricchezza, fra chi ce la farà a vincere la sfida dell’economia dei saperi e chi resterà confinato nella serie b dello sviluppo, quella dei paesi «downshifter», che si arrangiano, sarà «superiore a quella registrata durante la rivoluzione industriale». Ma, appunto, per il guru dell’economia russa quella sfida è ormai bella che persa. O forse no? Forse il suo grido d’allarme serve per spronare il presidente a non cedere alle sirene e a procedere dritto senza indugi sulla via della modernizzazione, persino fuori tempo massimo.

    Lo zar un piano in testa ce l’ha.
    Ma forse è troppo tardi.

  • L’idea di modernità o società “liquida”

    L’idea di modernità o società “liquida”

    Con questa idea Bauman illustra l’assenza di qualunque riferimento “solido” per l’uomo di oggi. Con conseguenze ancora tutte da capire

     

    La società liquida

    L’idea di modernità o società “liquida” è dovuta, come è noto, a Zygmunt Bauman. Per chi voglia capire le varie implicazioni di questo concetto può essere utile “Stato di crisi” (Einaudi, 18 euro) dove Bauman e Carlo Bordoni discutono di questo e altri problemi.

    La società liquida inizia a delinearsi con quella corrente detta post-moderno (peraltro termine “ombrello” sotto cui si affollano diversi fenomeni, dall’architettura alla filosofia e alla letteratura, e non sempre in modo coerente). Il postmodernismo segnava la crisi delle “grandi narrazioni” che ritenevano di poter sovrapporre al mondo un modello di ordine, si è dedicato a una rivisitazione ludica o ironica del passato, e in vari modi si è intersecato con le pulsioni nichilistiche. Ma per Bordoni anche il postmodernismo è in fase decrescente. Esso era di carattere temporaneo, ci siamo passati attraverso senza neppure accorgercene, e sarà un giorno studiato come il pre-romanticismo. Serviva a segnalare un avvenimento in corso d’opera, ha rappresentato una sorta di traghetto dalla modernità a un presente ancora senza nome.

    Per Bauman tra le caratteristiche di questo presente in stato nascente si può annoverare la crisi dello Stato (quale libertà decisionale rimane agli stati nazionali di fronte ai poteri delle forze supernazionali?). Scompare un’entità che garantiva ai singoli la possibilità di risolvere in modo omogeneo i vari problemi del nostro tempo, e con la sua crisi ecco che si sono profilate la crisi delle ideologie, e dunque dei partiti, e in generale di ogni appello a una comunità di valori che permetteva al singolo di sentirsi parte di qualcosa che ne interpretava i bisogni.

    Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo “soggettivismo” ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Si perde la certezza del diritto (la magistratura è sentita come nemica) e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono da un lato l’apparire a tutti costi, l’apparire come valore (fenomeni di cui mi sono sovente occupato nelle “Bustine”) e il consumismo. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo (il nuovo telefonino ci dà pochissimo rispetto al vecchio, ma il vecchio va rottamato per partecipare a quest’orgia del desiderio).

    Crisi delle ideologie e dei partiti: qualcuno ha detto che questi ultimi sono ormai taxi sui quali salgono un capopopolo o un capobastone che controllano dei voti, scegliendoli con disinvoltura a seconda delle opportunità che consentono – e questo rende persino comprensibili e non più scandalosi i voltagabbana. Non solo i singoli, ma la società stessa vive in un continuo processo di precarizzazione.

    Che cosa si potrà sostituire a questa liquefazione? Non lo sappiamo ancora e questo interregno durerà abbastanza a lungo. Bauman osserva come (finita la fede di una salvezza proveniente dall’alto, dallo stato o dalla rivoluzione), sia tipico dell’interregno il movimento d’indignazione. Questi movimenti sanno che cosa non vogliono ma non che cosa vogliono. E vorrei ricordare che uno dei problemi posti dai responsabili dell’ordine pubblico a proposito dei black bloc è che non si riesce più a etichettarli, come poteva avvenire con gli anarchici, coi fascisti, con le brigate rosse. Essi agiscono, ma nessuno sa più quando e in quale direzione. Neppure loro.

    C’è un modo per sopravvivere alla liquidità? C’è, ed è rendersi appunto conto che si vive in una società liquida che richiede, per essere capita e forse superata, nuovi strumenti. Ma il guaio è che la politica e in gran parte l’intellighenzia non hanno ancora compreso la portata del fenomeno. Bauman rimane per ora una “vox clamantis in deserto”.

  • Democrazia malata, parla Bauman

    Democrazia malata, parla Bauman

    Democrazia malata, parla Bauman

    Internet non ne è la causa, ne è solo un veicolo. Oggi i vecchi strumenti non funzionano più ma quelli nuovi non ci sono ancora. Intervista al teorico della “società liquida”

    Zygmunt Bauman, il grande sociologo teorico della “società liquida”, di recente ha riservato molte riflessioni a Internet, in particolare ai social media accusati di creare l’illusione di una rete affettiva in realtà inesistente. Parte quindi da questi temi la conversazione de “l’Espresso” con Bauman per allargarsi però all’attualità politica, dai cosiddetti “partiti antisistema” europei alle primarie americane.

    Professor Bauman, la sua è una critica esistenzialista alla Rete?

    «Internet rende possibili cose che prima erano impossibili. Potenzialmente, dà a tutti un comodo accesso a una sterminata quantità di informazioni: oggi abbiamo il mondo a portata di un dito. In più la Rete permette a chiunque di pubblicare un suo pensiero senza chiedere il permesso a nessuno: ciascuno è editore di se stesso, una cosa impensabile fino a pochi anni fa. Ma tutto questo — la facilità, la rapidità, la disintermediazione — porta con sé anche dei problemi. Ad esempio, quando lei esce di casa e si trova per strada, in un bar o su un autobus, interagisce volente o nolente con le persone più diverse, quelle che le piacciono e quelle che non le piacciono, quelle che la pensano come lei e quelle che la pensano in modo diverso: non può evitare il contatto e la contaminazione, è esposto alla necessità di affrontare la complessità del mondo. La complessità spesso non e un’esperienza piacevole e costringe a uno sforzo. Internet è il contrario: ti permette di non vedere e non incontrare chiunque sia diverso da te.

    Ecco perché la Rete è allo stesso tempo una medicina contro la solitudine — ci si sente connessi con il mondo — e un luogo di “confortevole solitudine”, dove ciascuno è chiuso nel suo network da cui può escludere chi è diverso ed eliminare tutto ciò che è meno piacevole».

    Ci sono però interi movimenti politici che sono nati dalla Rete o si sono diffusi grazie a essa. Le primavere arabe, ad esempio, ma anche Podemos in Spagna e il Movimento 5 Stelle in Italia…

    «È una questione ricca di ambivalenze. In generale però le ricerche sociali mostrano che la maggior parte delle persone usa Internet non per aprire la propria visione ma per chiudersi dietro degli steccati, per costruire delle “comfort zone”. Un po’ come quei quartieri fuori città circondati da cancelli, da guardie armate e da telecamere a circuito chiuso, dove le persone vivono in una sorta di mondo immaginario, senza controversie, senza conflitti, senza esporsi alle differenze. Poi, certo, grazie alla Rete oggi puoi convincere le persone del tuo network ad andare in piazza a manifestare contro qualcosa o qualcuno, ma l’incidenza sul reale di queste mobilitazioni nate nelle “comfort zone” è un altro discorso. Lei ad esempio mi citava le primavere arabe: non mi sembra che abbiano mai portato a un’estate».

    Quindi secondo lei non c’è un collegamento tra la diffusione della Rete e la protesta antisistema?

    «Certo che c’è, ma Internet non ne è la causa, ne è solo un veicolo. Le cause delle proteste antisistema vanno cercate invece nella crisi di fiducia verso la democrazia. E questa a sua volta deriva dal fatto che viviamo in un pianeta globalizzato e con una grandissima interdipendenza, ma gli strumenti che abbiamo a disposizione per gestire questa nuova condizione sono quelli ereditati dai nostri nonni e propri dello Stato nazionale: quando cioè una decisione presa in una capitale aveva realizzazione nel territorio di quel Paese e non valeva cinque centimetri più in là.

    Adesso invece l’interdipendenza è mondiale e gli Stati nazionali sono incapaci di gestirla.

    Così oggi i governi sono sotto una doppia pressione: da un lato devono rispondere agli elettori, i quali pretendono che i politici realizzino ciò per cui li hanno votati; dall’altra parte, la realtà globale interdipendente — i mercati, le borse, la finanza e altri poteri mai eletti da nessuno — impediscono che questi impegni vengano mantenuti. La crisi di fiducia nasce da questa doppia pressione. Sentiamo tutti che ormai le democrazie non funzionano, ma non sappiamo come aggiustarle o con che cosa rimpiazzarle».

    Di qui nascono i movimenti antisistema?

    «Direi piuttosto che da qui nascono i sentimenti antisistema: attenzione a parlare di movimenti. Che sono un concetto sociologico, mentre il sentimento è un concetto psicologico».

    E questi sentimenti non si traducono in movimenti?

    «Le persone si scambiano reazioni emotive sui social network e magari da lì si organizzano per andare in piazza a protestare. Gridano tutti gli stessi slogan, ma in realtà ciascuno ha interessi diversi e aspettative deluse diverse. Poi si torna a casa contenti della fratellanza con gli altri che si è creata in piazza, ma è una solidarietà falsa.

    Io la chiamo “carnival solidarity” perché mi ricorda appunto quegli eventi in cui per quattro o cinque giorni ci si mette la maschera, si canta e si balla insieme, fuoriuscendo per un tempo definito dall’ordine delle cose.

    Ecco, quelle proteste consentono l’esplosione collettiva di problemi diversi e istanze individuali per un arco di tempo breve, come a carnevale, ma la rabbia non si trasforma in un cambiamento condiviso».

    Alcuni partiti che quanto meno incanalano questi sentimenti però esistono, seppur molto diversi tra loro. Cosa ne pensa?

    «Si trovano anche loro di fronte alla crisi della democrazia di cui abbiamo parlato. E a questa crisi rispondono chi provando a rafforzare la democrazia, chi invece proponendo un “uomo forte” o qualche forma di fondamentalismo politico-religioso. Del resto, se le democrazie non riescono a realizzare le aspettative, non è strano che si cerchi qualcuno a cui attribuire una funzione salvifica, l’uomo “di polso” che sembra in grado di realizzare ciò che le democrazie non sanno mantenere. Un esempio recente è Donald Trump: oggi molti elettori americani possono restare sedotti da chi attacca le istituzioni democratiche e ne deride le rappresentanze. In più il miliardario Trump rappresenta il trasferimento dei consensi dalla leadership al management: dove la leadership è la capacita di fare le cose giuste, “to do right things”, mentre il management è semplicemente la capacità di fare le cose bene, “to do things right”. C’è una grande differenza».

    Questo crollo di fiducia verso la democrazia spiega anche la caratteristica “populista” che viene spesso attribuita ai movimenti antisistema? E lei è d’accordo con questa definizione?

    «“Populisti” in politica sono sempre gli altri, gli avversari. In realtà ogni buon partito dovrebbe essere “populista”, cioè ascoltare cosa pensano e cosa chiedono le persone ordinarie, i semplici cittadini. Invece nel dibattito pubblico la parola viene usata in senso dispregiativo.

    No, non sono preoccupato per la presunta minaccia del “populismo”, ma per la possibile risposta autoritaria alla crisi della democrazia».

    Ma perché in alcuni Paesi la protesta antisistema si è declinata a destra, come in Francia, e in altri a sinistra, come in Spagna?

    «Perché siamo in un interregno, per citare Gramsci quando diceva che “se il vecchio muore e il nuovo non nasce, in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.

    Oggi i vecchi strumenti non funzionano più ma quelli nuovi non ci sono ancora.

    Destra e sinistra erano concetti pieni di significato fino a pochi decenni fa, ma lo sono molto meno nella complessità policentrica del presente».

    In che cosa consiste questa complessità policentrica?

    «Dopo la caduta del Muro di Berlino, alcuni pensatori ipotizzarono la fine della storia, la conclusione del conflitto politico all’interno di un pacifico e definitivo sistema liberal-capitalistico. Si sbagliavano. Il pianeta è molto più diviso e conflittuale di prima, pieno di scontri locali più difficili da capire rispetto a quelli che opponevano tra loro i due blocchi: pensi solo a quello che sta succedendo in Asia centrale, dove arabi musulmani uccidono altri arabi musulmani. Ecco, questo policentrismo complesso sta anche nella politica, dove si intrecciano istanze scollegate tra loro, spesso difficili definire come “di destra” o “di sinistra”. Prima il confronto era tra conservatori e progressisti, tra chi voleva una società basata sul profitto e chi sulla cooperazione: oggi i conflitti sono anche maggiori, ma meno semplici e meno netti».

    Quindi anche quegli apparenti segnali di “ritorno alla sinistra” come Jeremy Corbyn nel Regno Unito o Bernie Sanders negli Stati Uniti sono solo effetti ottici?

    «Sanders rappresenta un fenomeno nuovo e interessante, ma ci sono Paesi in cui la sinistra non esiste più, come nell’est europeo. In generale, il problema contemporaneo della sinistra è la sua “constituency”, il suo blocco elettorale. Una volta era la classe dei lavoratori, che la sinistra difendeva. Oggi però, con i capitali che si muovono in fretta da un paese all’altro, anche gli strumenti con cui prima si tutelavano gli interessi delle classi più basse sono tra quelli che non funzionano più, a iniziare dagli scioperi: se i lavoratori incrociano le braccia, un secondo dopo il proprietario trasferisce la produzione in un Paese in via di sviluppo dove trova gente contenta di guadagnare un paio di dollari al giorno. In questo contesto, molti politici eredi della sinistra sono spaventati dall’idea di irritare le Borse, i mercati, la finanza, insomma i poteri che possono mandare gambe all’aria un Paese in un giorno. Quindi parlano d’altro: ad esempio, si autodefinisce di sinistra la parte politica favorevole ai matrimoni omosessuali. Bello, giusto, d’accordo, ma cosa c’entra con il significato della sinistra? Cosa c’entra con la giustizia sociale, che era la ragion d’essere della sinistra? Poi sì, ci sono anche altri, come Sanders, che invece vogliono rappresentare la protesta contro le leggi globali dei mercati e si candidano per sfidarle. Ne ho molto rispetto, ma non vorrei che si creassero troppe aspettative su quello che si può davvero fare con gli strumenti non più funzionanti propri dell’era dell’interregno. Altrimenti si rischia di restare delusi in fretta, come è avvenuto con Tsipras in Grecia».


    (pubblicato in origine su gilioli.blogautore.espresso.repubblica.i

  • LA SCUOLA DEL FUTURO

    LA SCUOLA DEL FUTURO

    Automated Teachers, Augmented Reality And Floating Chairs

    Three illustrators envision the classroom of the future.

    France in the year 2000 (21st century). Future school (1910). Wikimedia Commons.

    Artists have creatively depicted the future for centuries, from the neo-futuristic visions of Syd Mead (best known for his work on Blade Runner,Alien, and Tron) to Hajime Sorayama, whose brilliant futuristic design forAIBO (a robotic dog developed by Toshitada Doi at Sony) garnered the highest design award in Japan and a spot in the Museum of Modern Art’s (MoMA) permanent collections.

    Depictions of propeller-powered ships once littered the creative sky of pamphlets seeking to depict the future. And now that people (in the U.S at least) spendan average of 444 minutes every day looking at screens, the future we imagine is filled with robots and screens. What will the classroom look like 35 years from now? We invited a few illustrators to reflect on it. Here’s what they came back with.

    Josan Gonzalez

    Sabadell, Spain

    Arobot teacher assists students and guides them through the lessons; they learn more directly (it’s also more practical) using virtual reality headsets to take a trip inside the human body, for example, where they discover anatomy and biology in a pretty amazing way. The possibilities are endless. They learn firsthand about flora, fauna, geography, and so on.

    Using robots as teachers doesn’t necessarily mean replacing the human teachers. Handing part of the teaching process to the machines gives teachers more time to prepare and create educational content, monitor each student’s performance, and adapt lessons to individual learning curves.

    Floating chairs — potentially using quantum levitation — help the students move, tilt, and rotate within the space (while using virtual reality). They also provide better ergonomics and enable monitoring of students’ health and physical condition. Automated teachers and virtual reality make classes more dynamic and fun. Students have individual content that is adapted to their own learning progression instead of having the rigid classrooms of today.


    Tim Beckhardt

    New York, New York

    The Ocunet is a decentralized educational virtual-reality streaming network reaching every participating provider using .edu’s state­-of-­the-­art Panoptic headset. As our expanding civilization reaches new frontiers, the Ocunet delivers a universal knowledge experience through the most immersive technology available today.

    Recycling

    The submerged infrastructure of Earth’s former public-education solutions is repurposed as housing for the vast server network that houses the Ocunet.

    Education

    Teachers have been relieved of the stress of child-behavior management present under previous systems. After receiving certification training, educators can now focus their skills on managing the Ocunet—editing our vast database to keep our students fully immersed in the latest curriculum.

    Security

    As with educators, the administrators of the previous methods now have a position designed to fully utilize their skills. At all times, principals process incoming student data while superintendents vigilantly secure the Ocunet against attacks from outside dissidents.


    Sam Chivers

    Wilmington, United Kingdom

    Technology has already completely reshaped the classroom in recent years, and I think it’s set to continue on this trajectory. Although still in it’s infancy, I think augmented reality (AR)—the overlaying of audio and visual computer-generated information onto real-world environments through wearable technology such as Google Glass—could become a truly powerful teaching aid in years come. It will help make concepts that are fairly theoretical, like the human neural system, much easier to grasp. At the same time, it could be really fun and make the classroom of the future more mobile, flexible, and connected.

    The development of holographic technologies could replace or at the very least complement the electronic blackboard, creating 3-D visualizations, and at some point I think this could interact with AR in interesting ways.

    Some things in the classroom should remain constant. No amount of technology can replace the subtle skills of a great teacher.

    Gif by Chris Phillips for Bright.

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  • Sarò una buona madre

    Sarò una buona madre

    Così, questo è ciò che ti insegno, figlia, senza volerti commuovere, nè fare della poesia o della letteratura. Ti scrivo ciò che di più importante ho compreso oggi che ho (quasi) trent’anni, in caso io mi dimentichi di poter essere una buona madre per te e i tuoi fratelli e perché tu possa almeno avere una direzione — prima che io ti lasci allo sbaraglio in questo pazzo mondo — dove tu possa farti male per essere intelligente poi. Sentimentalmente intelligente, emotivamente intelligente, professionalmente intelligente, socialmente intelligente, caratterialmente intelligente. Non troppo però, non c’è niente di più eccezionale che essere imperfettamente umani.

    Leggi. Sempre. Tutto. Leggi Philip Roth, Anaïs Nin, Marguerite Duras, Henry Miller, William S. Burroughs e i beat, i foglietti illustrativi dei farmaci, Paul Auster, J.G. Ballard, Simone de Beauvoir, i biglietti del cinema, il The New Yorker, Francis Scott Fitzgerald, Jane Austen, Emily Brontë, le pubblicità sull’autobus, Haruki Murakami, George Orwell, David Foster Wallace, il catalogo Ikea, Walt Whitman, Sylvia Plath, la Bibbia, gli scontrini soprattutto. Leggi qualsiasi cosa, perché qualsiasi cosa ti sarà maestra e ti ritornerà utile in futuro, senza che tu te ne accorga. Poi scegli, fallo con cura, decidi ciò che deve restare, per formarti. In futuro, sarai anche ciò che hai letto.

    La Bibbia è il romanzo di maggior successo nella storia dell’umanità e, come spesso accade in questi casi, attorno al libro si è andata formando una fandom di circa due miliardi e mezzo di persone, chiamate “fedeli”. Condividere una passione con un gruppo è eccitante e arricchisce, ma vacci cauta: si può cadere vittime di indottrinamenti pericolosi, alienanti e folli, come è accaduto nel caso della Bibbia.

    Dio esiste. Non è una persona, non è un’entità astratta comodamente appollaiata su una nuvola di ovatta. È qualsiasi cosa in cui decidi di credere e che ti riempie il cuore e l’anima, che ti dà la forza per vivere con passione ogni nuovo giorno. Sei tu a scegliere che forma dare a quel qualcosa. Non chiamarlo Dio — è rischioso dare un nome a ciò in cui credi — e non confonderlo con la religione nel senso più stretto del termine. Quello che voglio dire è che ciò in cui credi è la tua religione. Frank Lloyd Wright, l’architetto, credeva nella Natura: la Natura era il suo Dio, la sua religione, la sua Chiesa. È a questo che mi riferisco.

    Scrivi ogni giorno. Non perché tu debba diventare una scrittrice o perché qualcuno ti legga. Scrivi per te stessa, anche se pensi di non saperlo fare. Ti aiuta a raccogliere i pensieri, a tenerti insieme, a comprendere, a eliminare le scorie. Scrivere è illuminante e purificante.

    Non restare impaludato nelle amicizie dei tuoi primi diciannove anni — soprattutto se quelle stesse amicizie sono rimaste impaludate entro i confini del quartiere. Mantienile, annaffiale con la giusta quantità di acqua, sono una parte importante della tua crescita, dei tuoi ricordi di infanzia. Ma tu evolvi giorno dopo giorno, basta un niente per farti cambiare improvvisamente, succede nei tuoi modi e nei tuoi tempi. Cerca di non soffrire troppo se cambiando sei sempre più lontana da chi un tempo ti era così vicino. Scegli le persone che vuoi nella tua vita, non adattarti a quelle che hai comodamente trovato in classe il primo giorno di scuola.

    Stai all’erta sulle tue sensazioni. Ti dicono tutto ciò che ti serve sapere per fare le scelte giuste. La più piccola vibrazione negativa in compagnia di qualcuno nascone un messaggio chiaro: allontanatene.

    L’amicizia vera è cosa rara. Ci vuole tempo, impegno, fatica, sforzi, sincerità, sacrifici. Si tratta semplicemente di una forma di amore. Un giorno l’amicizia è tutto ciò che avrai. Diffida di chi ha tanti amici. Quattro o cinque, veri. L’amicizia è sapere di ferire per fare del bene, è correre a casa sua nel pieno della notte di un martedì stressante, solo perché piange.

    L’amicizia con un uomo è possibile. L’amicizia con una donna è complessa, difficile, vulnerabile e necessaria. Può raggiungere lo stato di amore platonico: se lo fa, non lasciarla più andare.

    Non tentare di cambiare le persone, non è compito tuo ed è ingiusto. Se qualcuno non ti piace, non dovrebbe far parte della tua vita.

    Seleziona.

    Sperimenta ogni cosa, tranne le droghe. Non ne ricaverai niente di buono. Rischierai solo la tua salute — mentale e fisica — e potresti realmente rovinarti la vita. Quando si è dentro, non si smette quando si vuole, sempre che si riesca anche solo ad ammettere di dover smettere. Nel migliore dei casi, resti segnata: dentro, fuori, nei ricordi, nei tuoi occhi. È qualcosa di cui non ti libererai mai. Erba buona, un paio di volte l’anno, sì, se ti fa sentire bene.

    Non fumare. Non provarci neanche. È orribile, ed è il vizio dei deboli. I tuoi polmoni si carbonizzanno, la tua pelle invecchia molto più velocemente, i tuoi denti e i tuoi polpastrelli ingialliscono, baciarti è come baciare un posacenere, i capelli si indeboliscono. Spendi un sacco di soldi per il gusto di bruciarli, bruciare il tuo corpo e avere la falsa impressione di apparire agli occhi degli altri più affascinante o vissuta. Non lasciare che qualcosa ti renda schiava. Se hai bisogno di sfogarti, scegli uno sport o un hobby che ti liberino dallo stress, dalla rabbia, dal nervoso. Bevi un bicchiere di vino o due dita di buon whisky. Se hai fame, mangia. Cioccolato. Fondente. Non fa venire i brufoli, né fa ingrassare. Ingrassi solo esagerando, e i brufoli appaiono per tutta un’altra serie di questioni che non hanno a che vedere con il cibo. Fumare è un atto di autolesionismo, niente più né meno di un taglio sul corpo: ci si procura un consapevole danno fisico per sentirsi momentaneamente meglio. Ma la società è una grande contraddizione e le sue incoerenze sono all’ombra di ogni angolo.

    Innamorati, costantemente, di chiunque ti blocchi il respiro solo standoti accanto. Anche se fosse gay — qual sofferenza!. Innamorati ogni giorno, ma non amare prima che tu compia trent’anni. L’amore non è un’emozione, è molto più terreno di quanto tu possa credere. Non amare prima che tu compia trent’anni perché fino ad allora voglio per te emozioni. Vibra e vola insieme alle farfalle nello stomaco. Non si chiamano farfalle solo per quella sensazione di ali sbattute che senti all’altezza dell’ombelico, ma perché vivendo un solo giorno, sono effimere come le emozioni. L’amore, invece, non è temporaneo, bensì eterno. Eppure ti emoziona, lo fa così intensamente che ti sembra di non poter sopravvivere a tanta forza.

    Non idealizzare la persona che scegli di amare. Soprattutto, non lasciare che sia lei a idealizzarti. Le conseguenze potrebbero essere distruttive. All’inizio è facile cadere nella trappola della mitizzazione, è uno stadio, quello iniziale, in cui le imperfezioni dell’altro vengono estremamente polarizzate: o non sopporti il più piccolo neo e la storia si chiude prima di iniziare, o di nei non ne vedi l’ombra, e in men che non si dica sei intrappolata nell’idealizzazione. Mostra le tue debolezze, ti serve coraggio per farlo, per denudarti e lasciare che proprio quella persona per la quale vuoi essere perfetta ti riconosca invece come umana. Se con gli anni continua ad accetterti e sceglie di amarti nonostante la tua vulnerabilità, le tue carenze, le tue ossessioni e le tue mancanze, allora stai costruendo qualcosa di grandioso. Cerca di comprenderlo strada facendo, però.

    L’amore è una scelta, un impegno, spesso un obbligo, è compromessi, è abitudine, è accettazione, è sacrifici, è difficoltà da affrontare e problemi da risolvere, è incondizionato, è dare senza ricevere, è amare la vostra routine. Non sono cinica, ho combattuto a lungo in passato per allontanare tutta la dolcezza e la tenerezza che invece possiedo. Ma so di cosa parlo. Ti prometto che sarà bellissimo così, proprio così come l’ho descritto. Amare è sentire di tornare a casa. Non ti ho detto tutto dell’amore, le parole non gli darebbero giustizia e voglio che la parte migliore resti per te una sorpresa, voglio che sia tu a scoprirlo. L’amore e la salute sono tutto ciò che sogno per te.

    La tua anima gemella potrebbe non essere la persona con cui decidi di costruire una famiglia e che scegli di amare fino alla fine dei tuoi giorni. Lo sarà ugualmente, ma a un livello differente. Come due binari che non si incontrano mai. Forse dovrei spiegarti meglio di cosa sto parlando, ma in questo momento sono troppo coinvolta per darti chiarezza.

    Amare qualcuno del sesso opposto o dello stesso sesso non fa alcuna differenza. La sola cosa che ha importanza è come amiamo, non chi amiamo. In qualunque modo tu senta di dover vivere l’amore, la sessualità e il tuo corpo, è del tutto normale e avrai sempre il mio sostegno.

    Se senti da sempre di essere nata nel corpo sbagliato, cambia il tuo corpo. Diventa uomo. Diventa ciò che sei.

    Non controllare le chilocalorie sulle confezioni degli alimenti, non ha molta utilità. Leggi piuttosto gli ingredienti — ricorda che sono in ordine di quantità — la provenienza della materia prima e la data di scadenza. Mangiare è uno dei piaceri della vita, un piacere inestimabile, e non dovresti davvero rinunciare a niente, almeno per la prima fetta della tua vita. Conosci le tradizioni delle cucine di tutto il mondo, sperimenta, leggi Afrodita di Isabel Allende, godi di cene abbondanti con persone speciali in luoghi che, pur non essendolo, diventeranno tali. Ma ricorda anche che tutto ciò che introduci nel tuo corpo avrà conseguenze — positive o negative — sulla tua salute.

    Osserva. Sempre, tutto. Percepisci anche l’impercepibile.

    Il dolore che provi nel corso della tua vita — non causato da eventi naturali ma dalle azioni delle persone che ami — non è mai realmente provocato da loro, dalla loro cattiveria, immaturità, falsità o ipocrisia. È causato da te stessa. Sei tu a creare la tua stessa realtà. Sono le aspettative che tu hai creato, e riposto in quelle persone, a farti sentire quel dolore disumano. Aspettative che vengono deluse, progetti che sono distrutti, sogni che non puoi più sognare e non riesci più a sognare. Non mettere la tua vita nelle mani di qualun altro. (C’è chi cantava di non mettere la tua vita nelle mani di una band rock’n’roll, ma penso sarebbe molto più saggio. Anzi, sii una groupie per un po’, ma fallo prima dei 24 anni).

    Fai della musica la tua compagna di vita. Portala sempre con te, affidati totalmente a essa, lasciala entrare, lascia che ti sconvolga, che ti riempia, che ti insegni, che ti aiuti, che ti faccia vedere l’invisibile, ricordare il dimenticato e sognare l’inatteso. Vai ai concerti. Inizia dal blues degli afroamericani e da Billie Holiday, poi passa al rock’n’roll, al folk, all’art rock e al rock sperimentale. Prenditi una pausa con del ragtime. Riprendi con il glam rock, prosegui con la new wave, poi l’elettronica tedesca, il post-punk, il rock alternativo, il brit pop, l’indie rock. Inizia con i pionieri di questi generi musicali. Quando sei completa, dedica del tempo all’electropop, al synthpop, alla new romantic, al pop e all’hip hop degli anni ‘90, senza dimenticare la musica dei tuoi tempi: dai importanza alla tua cultura generale, ma lasciala nell’ombra. Ti servirà per trovare i collegamenti.

    I collegamenti sono ciò che di più utile hai a disposizione per creare la tua cultura personale. Parti da un punto e percorri ogni strada che da lì si diparte, portandoti in terre sconosciute. Continua così, segui i collegamenti e godi dell’emozione di quando tutto inizia a prendere forma.

    Non puoi controllare ogni cosa ed è proprio ciò che non puoi controllare che ha un’influenza maggiore sulla tua vita. Accettalo, fa parte dell’essere umani viventi e pensanti.

    La vita offre doni incredibili, ma è anche una serie di problemi da affrontare: risolto uno, ne arriva un altro. Un ciclo interminabile. Non lasciarti scoraggiare, affrontali. Con gli anni ti renderai conto che è solo grazie alle difficoltà se hai le spalle larghe e hai trovato il tuo equilibrio.

    Intorno ai 25 anni partecipa al festival di Glastonbury, al Coachella e al Burning Man. Rifallo intorno ai 35 anni.

    Viaggia. Viaggia, ti prego, fallo. Scopri il mondo, le sue genti e le sue culture, lasciati affascinare e incantare, fatti togliere il respiro, trova la libertà, ascolta storie e poi raccontale, accumula memorie e immagini di terre e visi. Sei vuoi arricchirti, viaggia. Viaggia anche da sola, non so se ci sia qualcosa di altrettanto arricchente. Studia all’estero: comporta sacrifici e difficoltà, ma è una delle scelte migliori che tu possa prendere nella tua vita.

    Non stabilirti in una città prima del tempo. Vivi in almeno tre grandi metropoli del mondo e, se ti è possibile, vivi per un po’ in campagna.

    Vivi da sola per qualche anno prima di condividere una casa con la persona che ami.

    Investi nella tua cultura cinematografica. Se riesci, guarda almeno un film al giorno.

    Non lasciarti corrompere, mai, per nessun motivo. Non venderti, per niente e per nessuno. Non contrarre debiti. Non prestare soldi, e se il tuo cuore ti spinge a farlo, offrili in dono. Sii sempre onestà e sincera, con chiunque. Fallo con educazione e riguardo nei confronti dei sentimenti altrui.

    Sii educata.

    Non allontanarti mai troppo dalla natura. Solo nella natura respiri davvero e puoi sentirti libera. È come tornare in contatto con ogni parte di te dalla quale ti sei disconnessa. Non stare mai più di sei mesi senza vedere il mare — il mare di inverno emoziona incredibilmente. Non stare più di sei mesi lontana dalla montagna, dalle sue pinete, dai suoi cieli, dalla sua vastità. Passeggia nei boschi vicino casa. Siediti in un campo per un pic-nic improvvisato, da sola con un libro o con qualcuno che ami.

    Impara a fare sacrifici e a non ottenere sempre tutto ciò che vuoi.

    I genitori sbagliano, moltissimo, convinti di fare la cosa giusta.

    Sfogati. Se non lo fai, puoi rovinare te stessa e chi ami. Non tenere nulla dentro di te — solo gli sfiziosi innocui segreti. Parlamene, o parlane con tuo padre o cerca entrambi. Parlane con una persona che reputi fidata, ma ricorda che di me e di tuo padre puoi sempre fidarti, puoi appoggiarti a noi senza esitazioni. Non c’è argomento, questione o problema di cui tu non possa parlarci. Ma sei tu a mettere insieme i pezzi, tirare le somme e scegliere indipendentemente.

    Pensare costantemente al passato ti conduce alla depressione. Pensare costantemente al futuro scatena in te un’ansia divoratrice. Concentrati sul presente, non hai nient’altro che il presente.

    Ricorda ciò che di buono e bello gli altri hanno fatto, perché è più facile dimenticarlo per ricordare solo i loro errori e le loro mancanze. Questo succederà anche nei tuoi confronti: non soffrire, non arrabbiarti, piuttosto parlane con gentilezza e ricorda loro come stanno realmente le cose.

    Ascolta. Non limitarti a sentire. Ascolta chi ti sta parlando, se hai a cuore quella persona.

    Non truccarti prima dei sedici anni. Non essere mai volgare.

    La realtà è personale e fittizia, esiste solo in relazione al pensiero umano e c’è molto poco di oggettivo. Ciò che credi, vedi e reputi reale, è frutto delle tue impressioni. Ma non c’è mai una sola prospettiva, i punti di vista sono tanti quante sono le persone. Accetta anche quelli degli altri e metti in discussione i tuoi, solo così arrivi alla giusta risposta.

    Amati, così come sei. Non per questo non devi migliorare giorno dopo giorno. Non appoggiarti mai alla frase e al pensiero: “Sono fatta così”, per giustificare i tuoi errori agli occhi di chi hai ferito.

    Non ferire nessuno. Se accade, chiedi perdono e parla, dai spiegazioni che non siano giustificazioni. Non c’è giustificazione al dolore provocato negli altri.

    Credi sempre fermamente in ciò che fai e dai tutta te stessa. Sii determinata. Credici soprattutto quando tutti intorno a te ti dicono che sei pazza a farlo. Credici quando sostengono che non ti può portare da nessuna parte, che se nessuno l’ha fatto prima di te o non c’è riuscito o l’ha già fatto nel migliore dei modi, è inutile che tu perda tempo, perché fallirai. Se dovessi fallire, non sarà stato inutile e avrai imparato molto: a rialzarti, ad avere determinazione, a non arrenderti, ai motivi per cui non ha funzionato. Capirai anche chi sono le persone che ti hanno sostenuta, e potrai fare a meno di tutte le altre.

    Scopri le città a piedi o in bicicletta. I tuoi occhi e la tua testa possono girare: in alto, in basso, a destra, a sinistra. Muovili, solo così vedi cose che altrimenti non vedresti.

    Sii paziente. Le cose grandiose richiedono tempo. Non scalpitare per raggiungere obiettivi che non possono essere raggiunti se non passo dopo passo, giorno dopo giorno. Se non sai essere paziente, ti abbatti e rinunci.

    Non restare mai senza uno scopo. In ogni stadio della tua vita, abbi qualcosa da raggiungere: un obiettivo professionale, l’instaurarsi di una nuova abitudine, l’abbandono di un vizio, la costruzione di un amore, la risoluzione di un problema… Non restare con le mani in mano aspettando che ciò che desideri cada dal cielo, perché non accadrà. Ragiona, programma, agisci. Non vivere senza passione.

    Studia uno strumento musicale. Non lasciarti scoraggiare dallo studio della teoria e del solfeggio. Accetta e impara le parti noiose, in ogni cosa che fai.

    Fai della tua più grande passione il tuo lavoro. Alzati dal letto ogni mattina con l’entusiasmo di iniziare un nuovo giorno. Anche se ami ciò che ti dà da vivere, non farne la tua vita. Vivere non è lavorare. Lascia spazio per passeggiare, per gli amici, per la famiglia, per un bagno caldo, per preparare una buona cena, per impastare biscotti, e anche per il dolce far niente. Impara a rilassarti.

    Se sarai a capo di un team di persone, ricorda che un grande capo si fa rispettare, ma non mette timore. Un grande capo prima di tutto rispetta e non sottomette. Dovrebbe anche insegnare. Le persone che lavorano per te hanno una vita privata: famiglia, figli, genitori, amici, passioni, problemi, dispiaceri, malattie. Lavora solo con persone di cui ti puoi fidare e non controllarle costantemente, piuttosto chiedi loro di portarti i risultati richiesti e lasciale libere di gestire il proprio tempo come meglio credano. Se ti portano risultati migliori lavorando al parco, lasciali lavorare al parco.

    Non usare l’inganno per raggiungere i tuoi obiettivi.

    Non essere egocentrica, presuntuosa e saccente, anche nelle occasioni in cui sei sicura di saperne più degli altri. Trova il modo di esprimere la tua conoscenza con umiltà. Non devi mai mancare di umiltà, ma credi sempre in te stessa. Forse ti appare come una contraddizione, non lo è, lo capirai.

    Non farti mettere i piedi in testa.

    Fai volontariato.

    Non sorprenderti di parlare più liberamente e profondamente con qualcuno che hai appena conosciuto, o che non conosci affatto. Spesso è così che nascono grandi storie.

    Sbaglia. Se non vuoi farlo, sbaglierai comunque. Fa parte della natura umana, non prendertela con te stessa. Non cercare la perfezione e non cercarla negli altri. Se qualcuno la pretende da te — e non mi riferisco alla perfezione di un lavoro che deve essere tale — quella persona non dovrebbe far parte della tua vita. Impara dai tuoi errori, perché se non lo fai, allora sì, prenditela con te stessa, ma perdonati e vai avanti.

    Piangi.


    Elena Brenna (@_elenabrenna) è una scrittrice ed ex fotografa. Nel 2012 ha co-fondato, e co-diretto fino al 2015, il primo quotidiano online internazionale per gli italiani a Berlino, Il Mitte. Oggi lavora come content manager & strategist per un’agenzia di comunicazione, ha pubblicato indipendentemente il suo primo romanzo, Agnes, e ha fondato il sito web Spunti Di Mezzanotte, di cui è curatrice. La causa LGBT ce l’ha nel cuore.

  • Cose da non fare quando mandate un curriculum

    Cose da non fare quando mandate un curriculum

    Ho spedito così tanti curriculum nella mia vita, e ho ricevuto così poche risposte, che una volta diventata direttore mi sono fatta una promessa: avrei sempre risposto a tutti (anche se con un ritardo medio di 30–40 giorni).

    Faticosamente porto avanti il mio impegno.

    E… deve essersi sparsa la voce (quella lì risponde!), o semplicemente è lo specchio dei tempi: da anni, la mia casella email è destinataria dei sogni di centinaia e centinaia di persone.

    Un popolo variegato, da cui sono emersi i miei più fidati collaboratori, e che mi ha fatto scoprire una grande verità:

    Rispondere a un’autocandidatura è doveroso. Ma è altrettanto doveroso autocandidarsi in maniera efficace.

    Ecco dunque una lista semiseria delle cose da fare (e non fare) quando si manda un curriculum.

    Tutti gli esempi che leggerete sono email realmente ricevute: ho solo reso irriconoscibili i mittenti. Che spero non se ne abbiano a male se li ho usati come esempio in questo excursus sulla difficile arte di farsi ascoltare.

    Partiamo dai fondamentali:

    1) Mai farsi precedere dal proprio cognome:

    «Sono Antonelli Giorgia».

    Specie se il cognome assomiglia vagamente a un nome: la risposta in tal caso rischia di essere: «Cara Antonella…»

    2) Cercare, nei limiti del possibile, di non sbagliare il nome del destinatario, e soprattutto di non confondere la sua azienda con il principale competitor.

    Una volta, una ragazza era partita proprio bene:

    «Gentile signora Monfreda. Leggo sempre con piacere il vostro giornale perché mi fa sognare».

    Ma poi ha pensato di concludere così:

    «Sarebbe per me un’immensa gioia vedere pubblicate le mie poesie su un giornale famosissimo come Vanity Fair».

    3) Evitare i modelli di lettere reimpostati, se non si vuol rischiare un effetto così:

    «Buongiorno, desidero presentarVi la mia autocandidatura presso la Vostra Azienda. Allego per cui una lettera di presentazione e il mio Curriculum Vitae, nella speranza che le mie competenze possano rispondere alle esigenze della Vostra Azienda. Cordialmente».

    4) L’autopromozione è fondamentale. Bisogna essere i primi sponsor di se stessi. Ma senza esagerare.

    Il rischio è di sentirsi rispondere: “posso mandarglielo io il curriculum?” Come ho fatto io, scherzosamente, al mittente di questa email:

    «Essendo medico, specialista in medicina fisica e riabilitazione, specialista in igiene e medicina preventiva, docente universitario attualmente presso gli Atenei di Pinco e Pallino, e collaborando con molte delle più qualificate riviste tecniche del settore…»

    5) D’altra parte non bisogna neppure buttarsi giù:

    «Sono una giornalista ma mi adatto a qualsiasi ruolo»

    Tantomeno mettersi ai saldi:

    «Il motivo per cui le arreco questo disturbo è che, se lo ritenesse opportuno, desidererei, davvero fortemente, collaborare con la rivista Donna Moderna, anche gratuitamente».

    ***

    Ma allora, una buona volta, cosa si deve fare?

    Tanto per cominciare:

    1) Il miglior consiglio per mandare un curriculum è… non mandarlo. Ebbene sì, lo ammetto: ho aperto raramente l’allegato a una mail così congegnata

    Buongiorno Direttore, mi permetto di inviarle il mio curriculum. Qui ne trova una versione online. Spero di cuore in una sua risposta, per ora la ringrazio molto.

    Quel freddo elenco di competenze, miste a pezzi di vita stile telegramma, non è di facile lettura. Meglio raccontarsi con una bella lettera e allegare il cv per ulteriori approfondimenti.

    C’è gente che dice: ho mandato 100 curriculum, neanche una risposta.

    Io controbatto: per inviare un curriculum ti basta un clic. Per leggerlo ed elaborare una risposta sensata occorre almeno un quarto d’ora: lo faccio solo quando sento che c’è stato altrettanto impegno dall’altra parte.

    2) Dimostrare di conoscere a fondo l’azienda per cui ci si candida e i suoi brand. Possibilmente dicendo cose intelligenti.

    Leggo Donna Moderna praticamente sin dalla sua nascita: mia madre, divoratrice di giornali, è stata una delle vostre prime lettrici, e da anni continua ad acquistarvi: ha sempre detto che il vostro è un femminile è stato rivoluzionario, perché per la prima volta ha saputo parlare di donne vere e di cose concrete. Anche il mio lavoro è fatto di cose concrete: da circa 10 anni […]. Mi piacerebbe collaborare con voi, inviandovi proposte di articoli. Vi allego per questo il mio curriculum, e vi chiedo, qualora siate aperti a nuove collaborazioni, a chi di voi posso inviare le mie proposte.

    Chapeau!

    3) Farsi notare, ma senza fuochi d’artificio.

    A volte basta una parola messa lì senza automatismi a svelarti una mente brillante e intelligente… Come una certa fanciulla che un giorno mi scrisse:

    Gentile direttore Monfreda, mi presento. Mi chiamo Lucrezia, ho diciamo trent’anni […]

    4) Per finire, la regola aurea. Presentarsi con la forza delle proprie idee.

    “Il miglior curriculum sono le idee” è una delle lezioni che ho imparato nella mia lunga carriera di inviatrice di autocandidature (e lo spiego qui verso il minuto 2′ 20”).

    Ecco perché ho adorato queste email di presentazione:

    Gentile Annalisa, le scrivo perché è da tempo che ho un’idea in testa: unire insieme libri ed erbe aromatiche.

    Gent.le Direttore, contando sul fatto che una delle doti di un buon giornalista è la sintesi, vado subito al punto: sono una giornalista professionista, mi sono occupata principalmente di cronaca e costume, e vorrei collaborare con Donna Moderna. Qui di seguito alcune proposte e, in allegato, il mio curriculum-vitae.

    Buonasera direttore, mi chiamo Tizio e Caio, sono una giornalista professionista di 33 anni, vivo a Cesenatico. Vorrei proporle alcuni articoli pensando che possano essere d’interesse per il vostro prodotto editoriale, del quale sono un’affezionata lettrice.

    A questo punto ho lanciato la palla: sono pronta non solo a ricevere i vostri curriculum ma a chiacchierare con voi di come scriverli in modo efficace! Forza, fatevi avanti…

  • Le 7 regole d’oro del public speaking

    Le 7 regole d’oro del public speaking


    Inserisci i contenuti che vuoi trasmettere in una o più storie e racconti (storytelling), invece che limitarti a trasmettere mere informazioni.

    Coinvolgi il tuo pubblico con domande, invece di fare monologhi.

    Usa un po’ di humor intelligente e adeguato, per sciogliere la tensione e per avvicinare a te il pubblico.

    Se puoi parla in piedi, invece che seduto dietro un tavolo e il computer.

    Assumi una posizione con le mani incrociate sul davanti, resta dritto e aspetta che tutti facciano silenzio.

    Mantieni il contatto visivo con tutto il pubblico, abbraccialo con il tuo sguardo.

    Apri il tuo speech anticipando i punti della relazione, poi affrontali e infine fai una sintesi dei punti importanti (dirò-dico-ho detto).

    Fai la sintesi di quanto è stato detto prima di passare ad un nuovo argomento.

  • Prehistoric Carnage Site Is Evidence of Earliest Warfare

    Prehistoric Carnage Site Is Evidence of Earliest Warfare

     Sarebbe interessante un’analisi sui fatti attuali (Daesh) alla luce della scoperta.

    All’interno delle sue argomentazioni, Lorenz distingue due diverse tipologie di comportamento aggressivo: quello “inter-specifico”, che si manifesta tra individui di specie diversa ed è finalizzato alla ricerca del cibo, e quello “intra-specifico”, che si attua tra membri della stessa specie. Nell’ aggressività tra specie diverse non c’è l’intenzione di far male, ad esempio quando un animale cerca il cibo, come un leone che attacca una gazzella, non manifesta un’espressione di rabbia e di ferocia.
    Solo l’aggressività intra-specifica, quindi, dovrebbe essere considerata un comportamento aggressivo vero e proprio, in quanto intenzionale, ma anch’ essa sarebbe legata a un istinto innato fondamentale per la conservazione dell’individuo e della specie.
    Aggressività ritualizzata: L’anello di Re Salomone

    Questa pulsione aggressiva, essendo innata, non può essere annullata, per questa ragione nella nostra specie e in tutti gli animali superiori si sono sviluppati dei meccanismi che ne limitano la distruttività, in particolare la ritualizzazione e l’inibizione.

    Nel caso della ritualizzazione il “ridirezionamento” di un comportamento aggressivo permette di evitarne gli effetti negativi attraverso la realizzazione di rituali e cerimonie di significato prevalentemente simbolico.

    Hanno un significato inibitorio quegli atteggiamenti ritualizzati di pacificazione o di sottomissione (come il sorriso, il saluto, la stretta di mano) che, segnalando le proprie intenzioni pacifiche, svolgono la funzione di rivolgere l’aggressività verso altre direzioni.

    Questi comportamenti sono solitamente riservati ad alcuni membri del proprio gruppo sociale e non ad altri.

    In questo modo si stabilisce una differenziazione tra l’amico e lo sconosciuto.
    Gli stessi legami affettivi tra gli esseri umani, come l’amicizia e l’amore, sarebbero quindi in molti casi la conseguenza della ritualizzazione e della inibizione dell’aggressività.

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  • Dei sepolcri, ovvero, Sul testamento digitale

    Dei sepolcri, ovvero, Sul testamento digitale

    Oggi ho fatto il mio testamento su Facebook. Ho nominato mio figlio quattordicenne erede unico della mia pagina e l’ho autorizzato a farne l’uso che riterrà più opportuno dopo la mia dipartita.

    «Non so come affrontare l’argomento», ho detto a mio marito dopo aver escluso l’opzione invia ORA a G una notifica a riguardo, «ma mi sembra giusto che dopo la mia scomparsa ci sia qualcuno che si occupi di mandare un messaggio agli amici, che scelga se chiudere l’account, abbandonarlo volutamente al suo destino, o opti per l’ipotesi di curarlo con ritrovato amore».

    Mio marito ha annuito senza sollevare gli occhi da una rarissima copia cartacea del Corriere. Il problema dell’eredità digitale non lo attanaglia.

    Fare il testamento delle mie pagine social mi sembra un dovere oltre che un’opportunità, non sento l’esigenza dell’oblio e mi piacerebbe anzi che si organizzassero apposite sezioni R.I.P. in cui prenotarsi un posticino finché si è ancora in vita, mettere una foto carina e scriversi da soli un epitaffio, magari spiritoso o forse tenero. Quasi nessuno va più al cimitero, e sempre più persone scelgono di farsi cremare e di trascorrere l’eternità su una mensola in salotto o con le ceneri gettate da un cavalcavia e sparse nel raggio di centinaia di metri tra Genova Voltri e Varazze, e così per ritrovare il fondamentale dialogo con chi non c’è più non ci resta che la strada della lapide digitale.


    Quando, nel 1806, anche nel Regno d’Italia si giunse ad applicare l’editto napoleonico che per motivi igienici vietava di posizionare le tombe all’interno delle mura cittadine, Ugo Foscolo si sentì in dovere di scrivere l’opera «Dei sepolcri», il cui incipit ben si adatta ancora oggi all’esigenza che molti di noi sentono di creare piccoli cimiteri digitali in cui recarsi per postare un tramonto, una citazione illuminante di Coelho, o la foto dell’ultima parmigiana di melanzane del caro estinto, nel tentativo di trovare così sollievo dal dolore della sua assenza.

    « All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro?»

    Rispetto alla mia dipartita mi spiace solo avere la certezza che mi perderò i molti e incredibili progressi dell’umanità che sono ormai sul punto di accadere, come la scomparsa del virus che permette a Candy Crush di auto installarsi, la produzione del pandoro con stampanti 3D, un nuovo taglio di capelli di Kim Jong-Un, l’Oscar a Di Caprio, e sicuramente la trentasettesima e imperdibile stagione della mie serie preferita su Netflix.

    Sebbene in qualche mio post saranno state rilevate, grazie all’utilizzo del Carbonio 14, labili tracce di saggezza e fiutati vaghi sentori di sagacia con retrogusto di violetta, note fruttate e rotondità apprezzabile al palato, nell’insieme l’App Social R.I.P. valuterà che non ho lasciato a mio figlio una eredità digitale clamorosa, che comprendeà: un rating di User Reputation da terzo mondo, pochi e malconci Bit Coin, alcune foto di un anziano gatto, un profilo su Snapchat mai seriamente avviato, la mia collezione di gif animate, svariati thread segnalati per rissa, il mio emoji ufficiale, una playlist di evergreen definitiva e sei caselle di posta elettronica ciascuna con centinaia di messaggi arretrati da sbrigare. Quindi non credo che G sarà felice quando scoprirà di essere stato nominato come mio E.D.U., EREDE DIGITALE UNIVERSALE e come tale incaricato di regolarizzare e valorizzare i miei lasciti social su tutte le migliaia di fondamentali piattaforme su cui mi sono registrata. A partire da questa.

  • Libere dal burqa e dall’Isis.

    Libere dal burqa e dall’Isis.

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  • Congresbury, il paese delle buone azioni

    Congresbury, il paese delle buone azioni

    venti chilometri da Bristol nella cittadina di Congresbury è accaduto un “fatto senza precedenti” e, strano ma vero, non si tratta di un fattaccio di cronaca nera ma di una buona, buonissima notizia.

    Un anno fa il pastore anglicano di Congresbury per festeggiare degnamente gli 800 anni di fondazione della chiesa cittadina lancia una sfida ai suoi 3000 abitanti: compiere in un anno 800 buone azioni, una per ogni anno di vita della città. L’idea è semplice: chi avrà compiuto una buona azione potrà scriverla su un bigliettino, rigorosamente anonimo, e quindi depositarla in una cassetta. Fuori dalla chiesa un tabellone dove il pastore terrà il conto delle buone azioni compiute.

    Gli abitanti di Congresbury accolgono con entusiasmo la sfida e, giorno dopo giorno, compiono tante piccole e grandi azioni di solidarietà, generosità, impegno civico, cura del bene comune: aiutare un anziano a fare la spesa, lavare la macchina del vicino, riverniciare le panchine pubbliche,regalare un cappotto ad una persona senza dimora, portare con un furgone cibo e vestiti ai rifugiati che a Calais attendono di raggiungere il Regno Unito.

    Oggi i cittadini di Congresbury hanno raggiunto ben 859 buone azioni che hanno cambiato la loro vita e reso davvero memorabile la storia della loro città. Dieci, cento, mille Congresbury!

  • Wikipedia!

    Wikipedia!

    Wikipedia.com è live dal 15 gennaio 2001 — oggi è .org. Sono passati 15 anni da quando Jimmy Wales e Larry Sanger lanciarono ufficialmente il sito, nato dopo una serie di esperienze a cavallo tra il mondo delle directory, delle dotcom e di Nupedia, la prima versione del progetto di Wales di creare un’enciclopedia online, che ancora manteneva nel nome il legame con il progetto GNU e il mondo Linus. Galeotto fu poi l’incontro con Ward Cunningham, il creatore di “wiki”, ossia la tecnologia che permette a chiunque di creare o modificare liberamente qualsiasi pagina di un sito web.

    Jimmy Wales, fondatore di Wikipedia

    “Immaginate un mondo in cui chiunque può avere libero accesso a tutto il patrimonio della conoscenza umana. Questo è il nostro scopo.” (Jimmy Wales)

    Curiosità: la prima voce creata sul nuovo sito riguardava la lettera “U”, origini, storia e significato della ventunesima lettera dell’alfabeto inglese.

    Jimmy Wales, a tutti gli effetti riconosciuto come il fondatore di Wikipedia, la definisce come “un’enciclopedia multilingue, redatta da autori volontari e, cosa ancor più importante, sottoposta a libera licenza.”

    La linea editoriale, se così si può chiamare, è quella del Neutral Point Of View,NPOV, che “cerca di presentare idee e fatti in modo da mettere d’accordo sostenitori e detrattori”. Può sembrare ovvio o banale per un’enciclopedia, ma risponde a una forte domanda di contenuti imparziali e attendibili, merce rara oggi come agli albori della rete.

    Ma quello che veramente definisce Wikipedia, quello che ci fa capire la sua straordinaria rivoluzione, è il lavoro dei wikipediani.

    “Wikipedia non è affatto un’innovazione tecnologica: è un’innovazione sociale.” (Andrew Lih)

    La cultura hacker e il modello open-editing

    Perché fosse possibile un’enciclopedia libera, aperta, neutrale e tempestiva — tempestiva nel catalogare ogni avvenimento non appena se ne abbia notizia, punto di forza cruciale per il successo dell’operazione — è stato fondamentale il radicamento di Wikipedia nella cultura hacker.

    Il principio per cui la condivisione del know-how fra pari produce innovazione per tutti si traduce in quello per cui la condivisione libera del sapere è alla base dell’aumento della conoscenza umana.

    Nell’etica hacker il presupposto della condivisione è l’apertura, intesa come un vero e proprio metodo per ispezionare il lavoro altrui al fine di apprezzarlo, di acquisire nuove conoscenze, di mettersi alla prova, di collaborare, di migliorarlo nell’interesse di tutti.

    È esattamente questo il metodo alla base del funzionamento di Wikipedia: il sito permette a chiunque di intervenire e modificare ogni voce, quindi ogni azione può essere facilmente annullata dagli altri membri della comunità.
    In questo sistema, risulta più facile correggere gli errori piuttosto che “punire” chi sbaglia, si crea quindi un’asimmetria che premia i membri della comunità più produttivi e collaborativi, contro troll e vandali di varia natura, senza limitare la libertà di nessuno.

    “Sono più necessari i partecipanti delle regole.” ( Larry Sanger)

    Lo dimostra la regola IAR, Ignore All Rules, introdotta da Larry Sanger: “se le regole ti rendono nervoso e demoralizzato, e non desideroso di partecipare al wiki, allora ignorale e torna al tuo lavoro.”

    Proprio da questa cultura nascono i due famosi mantra di Wikipedia: “Be Bold” e “So Fix it”, ormai stampati sulle t-shirt da nerd di tutto il mondo.

    Be Bold

    “Si cerchi dunque di non essere timidi nel modificare le voci, perché il piacere di contribuire non richiede per forza di raggiungere la perfezione, nonostante questa sia l’obiettivo ultimo dell’enciclopedia. Non ci si preoccupi eccessivamente di combinare eventuali pasticci: tutte le versioni precedenti di una voce vengono salvate, per cui è impossibile danneggiare Wikipedia in maniera irreparabile. Ma ci si ricordi che, allo stesso modo, tutto ciò che si scrive sarà conservato per i posteri.” (Wikipedia)

    Nella cultura di Wikipedia anche solo un abbozzo di voce rappresenta un stimolo e un incitamento che serve a far intervenire altri contributori, per espandere e migliorare la voce stessa.

    “Be Bold”, “sii audace”, non è quindi un incoraggiamento generico, ma il motore individuale capace di generare un effetto a catena positivo per la comunità.

    Joseph Michael Reagle Jr., nella sua tesi di dottorato sui meccanismi di collaborazione all’interno di Wikipedia — In Good Faith: Wikipedia Collaboration and the Pursuit of the Universal Encyclopedia — ha parlato di effetto stigmergico per descrivere questo meccanismo:

    “Il termine stigmergia è stato coniato da Pierre-Paul Grasse per descrivere come le vespe e le termiti costruiscono strutture complesse lavorando in modo collettivo; come osserva Istvan Karsai, il termine descrive la situazione in cui è il risultato di un lavoro precedente, piuttosto che la comunicazione diretta fra i costruttori, a spingere [e a dirigere] le vespe nell’esecuzione di un lavoro successivo.”

    Secondo Andrew Lih, esperto di Wikipedia e della censura di Internet nella Repubblica Popolare Cinese, questo meccanismo di comunicazione implicita che avviene modificando il proprio ambiente è un modello abbastanza utile per descrivere Wikipedia, intesa come una colonia virtuale di formiche. Il sito non avrebbe potuto crescere così rapidamente senza che si fosse provveduto a combinare in modo efficace l’effetto stigmergico, basato sulla registrazione delle modifiche nell’ambiente, con i canali di comunicazione esplicita.

    So Fix It

    Wikipedia nasce agli albori del web 2.0, quando i contenuti della rete iniziano ad essere prodotti direttamente dagli utenti. Questo creava un po’ di sconcerto ai primi, nuovi utenti di Wikipedia, che spesso chiedevano ai membri più anziani di fare delle modifiche senza rendersi conto di poterle fare in prima persona. È nato così il tormentone del “sofixit” (“allora aggiustalo”), in risposta alle prime ingenue domande dei newbie, ma ha finito per rappresentare la prassi per cui all’interno della comunità ci si debba sporcare le mani in prima persona, senza rimanere in attesa di soluzioni elaborate.

    Come si dice, se non sei parte della soluzione sei parte del problema.

    La rivoluzione di Wikipedia

    Come si definisce e s’identifica un esperto? Che cosa merita di finire in un’enciclopedia? Che cosa spinge i wikipediani a lavorare sodo su un progetto gratuito? Che cosa è rimasto del progetto originale e come si è evoluto?

    Per rispondere a queste e a molte altre domande, ma anche solo per leggere un bel libro, La rivoluzione di Wikipedia di Andrew Lih, Codice Edizioni, 2010.

    Buon compleanno Wikipedia!

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  • Wi-fi, Xylella…come e perché Italia odia la scienza

    Wi-fi, Xylella…come e perché Italia odia la scienza

    di Riccardo Galli

    Paese che odia la scienza” scrive e titola sul Corriere della Sera Paolo Mieli. E va a narrare l’ultimo in ordine di tempo episodio-esempio di ostilità militante, di bellica campagna contro la scienza, il pensiero scientifico, la competenza. Mieli racconta della Xylella, della malattia degli ulivi in Puglia. Racconta di come il pensiero magico, quello di streghe e stregoni e gnomi e fate e diavoli e satanassi e infusi e pozioni, sia diventato opinione pubblica e quindi indagine e ipotesi giudiziaria. Racconta Mieli di come una Procura, quella di Lecce, ipotizzi con atti giudiziari niente meno che Unione Europea, Monsanto, Cnr, Guardia Forestale, governo e Parlamento italiani abbiano organizzato e siano complici di… Di aver inventato o anche diffuso (le due cose sono in contraddizione evidente ma tutto fa brodo) la Xylella stessa. Si sostiene infatti in Procura che il contagio non esiste e che sia stato diffuso ad arte. E che l’uno o l’altro sia stato fatto per far fuori gli ulivi secolari e pugliesi e per far posto a nuove colture dopo aver sradicato gli ulivi (singolare assonanza con la tesi “identitaria” che qua e là in Europa vuole ci sia complotto per sradicare/eliminare i residenti per sostituirli con gli immigrati). A difesa del territorio la Procura ha bloccato tagli degli ulivi malati. Perché…e chi ha detto che sono malati? Gli agronomi! E chi si fida degli agronomi, del Cnr, dell’Università di Bari…di Bari poi. E dell’Europa vatti a fidare. A noi chi ce lo dice che ulivi sono malati e che la cura è quella di togliere di mezzo le piante malate per salvare quelle sane? Anzi, sottolinea la Procura, un esperto di Xylella, Alexander Purcell, ha detto che “eradicazione serve a nulla…”. L’esperto farà sapere di non aver mai detto qualcosa del genere, la frase è stata però pronunciata da eurodeputata M5S. Per la Procura fa più o meno lo stesso e comunque fa brodo. Protagonismo di una Procura? Per dirla con eufemismo, eccesso di zelo? Compiacimento nel compiacere vox populi locali? Anche, ma soprattutto qualcosa di più e più profondo. In una serata natalizia casualmente assemblata con forte partecipazione di insegnanti di scuola primaria e secondaria, casualmente si va a parlare di olio e quindi si scivola su Puglia e Xylella e…E tutto il “corpo docente” manifesta, rivendica, reclama, proclama sistematico scetticismo, anzi sfiducia su esperti, scienziati, laboratori e istituzioni scientifiche. L’argomento che domina e vince è: e chi lo dice che esiste la Xylella, che si cura abbattendo…? Se osservi che lo dice la scienza e lo dice a noi incompetenti in materia, allora arriva al nocciolo del paese che odia la scienza. Il nocciolo è, come nei casi del divieto di Wi-Fi in alcune scuole, come nell’elettrosmog vero o presunto, come nella inventata cura Stamina, come nel caso Di Bella che curava il cancro, come nella sentenza che condanna chi non prevede terremoti, come nella credenza che i terremoti si prevedono annusando i gas, come per i minerali mortali sotto ogni montagna se la scavi, come per il Muos che uccide e la trivella che fa esplodere il sottosuolo…Il nocciolo è che la pubblica opinione, la gente e quindi e purtroppo anche la televisione, l’informazione e la magistratura non accettano più la loro incompetenza in materia scientifica appunto. Il singolo cittadino e anche il singolo sindaco o magistrato o giornalista o padre e madre di famiglia non delegano più a scienziati, a competenti la parola ultima su qualsiasi argomento. Tutti pretendono che la loro opinione sia altrettanta scienza dello scienziato, in una par condicio giustizialista del pensiero dove la piena giustizia della parola a tutti diventa la somma ingiuria e ingiustizia del tutte le parole e pensieri, anche le più ignoranti, hanno lo stesso valore. Una sola la considerazione purtroppo storica. Nella storia quando una comunità ha in dispetto e in sospetto la scienza e il pensiero scientifico, quella comunità coltiva e difende il declino dei suoi prodotti, dei suoi consumi, dei suoi redditi, delle sue tecnologie, delle sue arti, delle sue scienze umane, della sua qualità della vita. E’ quasi una costante che la storiografia rileva, sperando che una qualche Procura non indaghi gli storici per complotto, diffusione e contagio di eventi documentati e studiati. Non indaghi con l’argomento: documentati e studiati da chi?

  • Se l’informazione è gratis, non è buona informazione.

    Se l’informazione è gratis, non è buona informazione.

    Perché i social sono la frontiera — e la trincea — dei giornali. E cosa ci dicono del presente e del futuro dell’informazione.

    Sono stata social media editor di un grande giornale e credo di aver imparato alcune cose. Sul giornalismo, più che sui social media, perché questi funzionano come un prisma capace di rifrangere, scomporre e rendere visibili molte delle attuali ambizioni e difficoltà di chi fa informazione.

    E pazienza se nessuno — in un certo senso, nemmeno loro — abbia veramente idea di cosa diavolo facciano i social media editor. Sì, si intuisce che abbiano a che fare con i tweet e i post, ma più di lì non ci si spinge. Non si capisce neanche bene come chiamarli: social media manager? Editor? Engagement editor? Community manager? Per fortuna ci vengono in soccorso i generatori automatici di “social media cosi” (cit: utenti Facebook).

    In realtà le offerte di lavoro delle testate angloamericane pullulano di annunci per queste posizioni e le descrizioni della loro attività — molto utili per capire cosa effettivamente dovrebbero fare queste figure — spesso si sovrappongono.

    Ma questa incertezza identitaria è anche legata al ruolo liminare, di frontiera, dei “social media cosi”.

    Stare sulla frontiera però non è del tutto negativo. La prospettiva è più ampia. Si vedono bene i movimenti delle truppe e i loro schieramenti. Si ha la percezione di stare nel luogo dove una nuova realtà si sta formando e accadendo, dove si può vedere — per citare il filosofo — “nascere il piccolo da un enorme dispiegamento di forze, e l’enorme da ciò che appariva insignificante”.

    Da un certo punto di vista, è una condizione non lontana da quella del giornalista che si occupa di sicurezza informatica. Lo dico perché mi è capitato di incarnare entrambi i ruoli contemporaneamente (qui alcuni dei miei articoli sul tema). Ed è roba da perderci la testa, all’inizio: un secondo sei il Dottor Jekyll, un secondo dopo il signor Hyde (lascio a voi l’assegnazione dei ruoli). La sera ti prefiguri legioni di hacker che per i più svariati motivi potrebbero voler sfondare i siti o i profili del giornale; la mattina fiuti torme di screenshotter in cerca di una consulenza pronti a rivendersi una tua risposta sgraziata a un utente. Inoltre non capisci perché il capo del marketing non voglia discutere con te di una campagna social sulla chat cifrata di Jabber, mentre rischi l’infarto ogni volta che si debba condividere un account con qualcuno di esterno al ristretto team.

    Alla fine ti rendi conto che security e social sono probabilmente antitetici — e che sprigionano però la stessa aria di caos, sommossa ed energia di un mondo nuovo. Ma, soprattutto, che costruire una comunità è per un giornale impresa molto più ardua e spaventosa di qualsiasi attacco informatico.

    E dunque, andando al sodo su quello che ho imparato (non solo nella mia esperienza di social media editor, ma anche dal confronto con i colleghi e dal mio lavoro in Effecinque.org):

    • I social media sono la trincea del giornalismo

    Lo sono per vari motivi. Ma principalmente perché è lì che ormai è stata delegata (a torto o a ragione, temo a torto) l’interazione col pubblico. Chi oggi voglia commentare un articolo, mandare un complimento, una rimostranza o dello spam al giornale, scrivere a un suo giornalista, segnalare una storia, chiedere informazioni o anche semplicemente fare due chiacchiere con qualcuno si rivolge in primis ai profili della testata sui social network.

    Chi si occupa dei social media si trova così a dover gestire non solo le proprie scelte più dirette ma anche l’intera linea editoriale di una testata, nonché le performance dei suoi singoli redattori. Il tutto dentro un ristrettissimo margine di manovra.

    Se ne esce soprattutto in due modi: da un lato, coinvolgendo di più i singoli giornalisti nell’interazione con gli utenti e invitandoli a seguire la propria storia anche dopo che è stata pubblicata (o che abbiano degli spazi di confronto più diretto, come fa il Washington Post attraverso delle chat); dall’altro, facendo in modo che le criticità emerse dal rapporto coi lettori — se ad esempio un certo articolo o scelta editoriale provocano una motivata insurrezione — siano trasmesse, spiegate e intese dal resto del giornale.

    Il social media team insomma è o dovrebbe essere una cinghia di trasmissione tra il dentro e il fuori, premesso che queste due categorie non hanno probabilmente più senso se non per quei giornalisti che ancora si sentono incastonati nella loro torre d’avorio — trasformatasi nel tempo in un desk di plastica, ma vabbé.

    Ma i social sono una frontiera anche nel senso che lì le contraddizioni si acuiscono. Gli errori tendono a permanere e sono più difficili da gestire. Le immagini e i titoli hanno un impatto più forte. Se il sito è ancora un contenitore che si pensa possa raccogliere un po’ di tutto, sui social ogni scelta di pubblicazione deve apparire in qualche modo motivata agli occhi degli utenti.

    • Creare comunità è il sacro graal del giornalismo digitale

    O, se preferite, la reincarnazione delle televendite di mirabolanti prodotti dimagranti.

    Tutti dicono che bisogna fare comunità, creare comunità, interagire con la fottuta comunità, ma non c’è quasi nessuno che spieghi come farlo concretamente.

    Avere una policy su come rapportarsi con gli utenti e un galateo valido per tutti (come ha fatto La Stampa) su come comportarsi sulle pagine del giornale — che si tratti di social o del suo sito — aiuta, ed è sicuramente un primo punto di partenza.

    Oggi vedere le pagine Facebook dei quotidiani piene di commenti irriferibili non è proprio più accettabile e mantenere mediamente civili i propri luoghi digitali è il minimo sindacale per una testata — minimo che però, precisiamolo, comporta di per sé un notevole dispendio di energie e forza lavoro.

    Aggiungo anche che, nell’ecologia mentale e morale dei social, conta molto quello che si decide di pubblicare. Ovvero — per citare una approfonditaanalisi di Arianna Ciccone sul giornalismo odierno — “dimmi che informazione fai e ti dirò che commenti riceverai”. Questo lo sa intuitivamente qualsiasi social media editor. Se metti su Facebook un pezzo di raccapricciante cronaca nera avrai tante visualizzazioni, tanti clic e tanti commenti. Di che natura questi ultimi? Non ci vuole una scienza per capirlo.

    Occorre invece una riflessione su quale sia l’obiettivo della testata: fare tante visualizzazioni e clic entrando a gamba tesa nella timeline dei propri fan (luogo molto più delicato e intimo del sito di un giornale) e suscitando reazioni emotive che si esprimono soprattutto in commenti di odio e frustrazione, o semmai scegliere di pubblicare qualcosa di più costruttivo benché, all’inizio, meno “performante”?

    Ad ogni modo, fare comunità è ancora un passo successivo. Ed è più semplice farlo per una testata specializzata o settoriale o locale (anche se non mancano i problemi), o magari per un foglio d’opinione. Se rientrate in questo gruppo e la creazione di comunità non è al primo posto dei vostri obiettivi editoriali, state sbagliando qualcosa. Per le testate generaliste, che raccolgono un pubblico vasto ed eterogeneo, più eterogeneo online rispetto a quello che compra l’edizione cartacea, è molto più difficile.

    Un modo per farlo è creare eventi, campagne, inchieste di ampio respiro, di interesse pubblico, e lì lavorare sul coinvolgimento. Pensare a come dialogare con gli utenti nel momento in cui si inizia a ragionare su una storia. Spesso significa anche slegarsi dall’urgenza dei giornali di seguire sempre e solo il flusso di notizie.

    In una redazione, dove la priorità è sempre la breaking news, questa è la parte più difficile. Per quanto le breaking news creino dei picchi di traffico sia sul sito che sui social, per quanto siano molto condivise dagli utenti, rischiano di scivolare loro addosso. La loro importanza è a volte sopravvalutata dai giornalisti che vivono nella costante frenesia del nuovo lancio di agenzia e della gara a chi esce prima.

    Ma alla fine ai lettori interessa molto di più il giornalismo che incide sulle loro vite. E questo raramente — a meno di casi particolari, come le alluvioni o altri cataclismi — si realizza con la breaking news, bensì con gli approfondimenti, le inchieste e anche le informazioni di servizio. Se poi sono partecipate, come quellecoordinate dalla mia amica Rosy Battaglia, ancora meglio.

    Probabilmente, a un livello ancora superiore, le testate che puntino a fare seriamente comunità — riduttivamente tradotta in membership, e quindi in diverse forme di abbonamento o sottoscrizione, da chi sta cercando di far quadrare i bilanci dei media — dovrebbero forse tornare a chiedersi i fondamentali: che visione del mondo hanno? Chi rappresentano? A chi parlano? Ma qui ci troviamo di fronte una No Man’s Land, una terra di nessuno in cui è meglio non addentrarsi.

    • Un fantasma si aggira in redazione: la verifica delle fonti

    C’è un ampio dibattito su quanto i social media polarizzino le conversazioni, spingano i temi e le notizie controverse, diffondano disinformazione. C’è addirittura chi pensa — oh my! — che i social abbiano promosso l’improbabile candidatura di Donald Trump. E c’è chi ha lanciato un vero e proprio grido di disperazione, come l’esperta di antibufale del Washington Post, sconfitta dai muri di gomma in cui si rifugiano complottari, cospirazionisti o anche solo fervidi sostenitori di qualche specifica corrente politica.

    La questione è complessa. Ma in ogni caso le testate giornalistiche non possono chiamarsi fuori da questo dibattito. Anche quando non pubblicano delle bufale in senso stretto, ricadono spesso in quello che Craig Silverman definisce “giornalismo del puntare il dito”, nel senso di un giornalismo che ripubblica contenuti virali tali e quali, che ti indica delle notizie senza prendersi la briga di verificarle, che si preoccupa di propagare più che di informare. Se qualcuno fa una dichiarazione eclatante (ad esempio: “ho sventato un attentato”) ci si limita a riferire la dichiarazione senza approfondire se la stessa sia vera o falsa.

    La responsabilità viene fatta ricadere sul dichiarante, e il risultato è che il lettore riceve sì la notizia ma difficilmente capirà se sia qualcosa di rilevante o una boiata pazzesca.

    Le redazioni oggi dovrebbero avere internamente degli esperti di verifica delle fonti digitali, che spazino dai social media alla crittografia. E che lavorino costantemente al debunking di bufale e disinformazione prodotta da altri, nonché allo scopo di evitare di prendere cantonate internamente.

    Quelle competenze sarebbero utili anche nella gestione delle breaking news. Che ormai si abbattono sui giornali e i loro social media con la furia e la rapidità di un ciclone tropicale. E che richiedono di capire al volo se una notizia, una foto, un video, un tweet, un post, siano veri/autentici/affidabili/corretti o no.

    Su questo c’è un micro (che in realtà rientra in un macro) sapere che va coltivato, come mostra l’esperienza di Reported.ly. O di First Draft News.

    Per una redazione significa provare a stabilire anche delle procedure di lavoro che sono tanto più difficili quanto più prevedono, in poco tempo, un coordinamento fra persone su voci e frammenti di notizie per lo più non confermate, nonché spesso contrastanti.

    A volte, anche con tutti gli strumenti a propria disposizione, non si riesce a capire se una informazione è corretta in pochi minuti. E quindi bisognerebbe anche decidere cosa abbia senso comunicare e cosa no. E magari — orrore! — fare un tweet in meno, invece che in più; così come evitare di dare rilevanza a dichiarazioni prive di fondamento, anche se il fatto di pubblicarle ti porterà dei clic immediati. Ricordando che un articolo online si modifica — spesso, e in modo erroneo, senza lasciare traccia della correzione — ma un tweet no, a meno di non cancellarlo. [Certo si può twittare di nuovo la correzione, ma qui rimando alla Legge dei Tweet Sbagliati: “Un’informazione inaccurata iniziale sarà ritwittata di più di ogni successiva correzione”.]

    Corollario di questo tema della verifica è infine la gestione dell’errore online. Perché gli errori si fanno: su carta, sul sito, sui social. Il punto è se e come vengono corretti.

    Come già detto prima, i social fanno da detonatore delle contraddizioni e degli sbagli: un errore, passato inosservato sulla carta, poi scivolato sul sito e da qui sui social, è una palla di neve che rotola lungo un dirupo. Anche in questo caso, il mantra degli specialisti è il seguente: riconosci apertamente l’errore e correggilo in modo visibile.
    Diciamolo: è più facile a dirsi che a farsi. E la ragione sta anche nel fatto che a volte l’errore è frutto di una catena di creazione e propagazione della notizia in cui il debunker, se e quando arriva, è solo l’ultimo anello, col risultato di trovarsi nella posizione di “comprarsi gli impicci a contanti, un voler raddrizzare le gambe ai cani”.

    Se però la testata è attivamente impegnata nella correzione di disinformazioni e nella verifica delle notizie, anche i propri errori possono essere affrontati più a viso aperto e a cuor leggero.

    • Pensarsi come luogo in cui connettere i punti

    I giornali in questi ultimi anni sono approdati un po’ su tutte le piattaforme, le app e i social con l’obiettivo di seguire gli utenti. E con alterni risultati.

    Ma se è vero che oggi le persone accedono all’informazione attraverso i canali più disparati — dalle mail a WhatsApp, da Snapchat a Periscope, con i video in diretta che secondo alcune previsioni potrebbe esplodere nel 2016 (anche grazie alla discesa in campo di Facebook) — rimane ancora un buco — per certi versi, una voragine — in cui chi fa giornalismo dovrebbe tuffarsi da subito.

    Parlo della capacità di tracciare dei collegamenti e di creare dei percorsi per i lettori.

    Avete mai provato ad aggiornarvi su una grossa e complicata breaking news senza aver iniziato a seguirla dall’inizio? Avete mai provato ad approfondire il tema Daesh solo a partire da un articolo sull’ultima dichiarazione di Abu Bakr al-Baghdadi? È faticoso e insoddisfacente. I social vi aiutano in questo? Poco.

    Ma le testate che hanno fatto lo sforzo di organizzare, contestualizzare e presentare in modo chiaro questi argomenti possono entrare in gioco. Ci sono alcuni tentativi interessanti al riguardo: uno dei più recenti è la “mappa della conoscenza” ideata dal Washington Post. Si tratta di una modalità di visualizzazione e di organizzazione dei contenuti in cui un lettore può approfondire o chiarire singoli aspetti di un tema complesso mentre legge un articolo e senza lasciare la pagina (nel caso specifico proprio su Daesh).

    Esempi che rispondono a esigenze simili, anche se risolti in modo diverso, sono il modo in cui il New York Times ha mappato e visualizzato la rete degli attentatori di Parigi; o il racconto del complesso tema sorveglianza e Nsa fatto dal Guardian.

    L’esigenza di tirare le fila emerge — in piccolo — anche sui social media: dal modo in cui alcune testate si sforzano di riepilogare breaking news, già nel momento in cui stanno accadendo, attraverso dei formati appositi; al lancio di Moments da parte della stessa Twitter.
    In grande, ci sono poi progetti giornalistici nati o orientati proprio su questa esigenza, come Vox. C’è tutto un filone basato sull’idea delle card, di schede informative da correlare agli articoli.

    Come dice Ezra Klein, direttore di Vox: “Siamo bravi a dire ai lettori quello che è accaduto, ma non sempre siamo così bravi nel dare loro quelle cruciali informazioni di contesto che hanno portato agli ultimi sviluppi”.

    Non sempre, purtroppo, questa impostazione ha trovato una formula soddisfacente per il business, come dimostrato dalla chiusura della app di notizie Circa. Ma l’esigenza rimane forte e chiara.

    • Che ci piaccia o meno, non ci sono più autorità

    Sui social media, e sul settore specifico del giornalismo e dei social media, c’è già un’ampia letteratura. Ci sono consulenti di marketing, libri, blog specifici, casi studio e paper. C’è chi può elencare i formati di foto migliori da postare sui social, chi può stilare tutti i fattori che condizionano l’algoritmo di Facebook, chi sa leggere gli Insights, chi ti dice cosa pubblicare alle 19,15 del mercoledì in un giorno di pioggia, e così via: dati che sono ovviamente utili da sapere.

    E tuttavia si tratta di informazioni che cambiano in continuazione; valgono per oggi, domani chissà; vanno bene per una piattaforma e non per un’altra. Inoltre, ciò che funziona per una testata non è detto che vada bene anche per altre. Più in generale, non c’è un approdo fisso di conoscenza a cui arrivare. Semmai, ci sono persone ed esperienze diverse che sperimentano, idee che circolano. E probabilmente ci sono anche delle buone pratiche da condividere.

    Ma siamo molto lontani dal concetto di un sapere strutturato, magari veicolato da una corporazione di vecchi o nuovi scriba. Soprattutto siamo distanti dall’idea che esistano formule vincenti da replicare. Più vicini forse a un approccio hands-on — basato cioè sul “metterci le mani”, sul confronto pratico con qualcosa — simile a quello della cultura ed etica hacker.

    E per il giornalismo non vale — o dovrebbe valere — la stessa cosa?

  • L’Italia, il paese dei musi lunghi. Siamo più pessimisti di greci, iracheni, e palestinesi

     

    Ma è mai possibile che il record portato a casa nell’ultimo giorno dell’anno sia quello di popolo più pessimista del pianeta? Possibile che riusciamo a formulare per il nostro futuro previsioni più negative di altri alle prese con situazioni forse più gravi come iracheni, greci e palestinesi? Eppure la 39° Indagine di fine anno 2015 sulla felicità nel mondo diffusa alla mezzanotte del 30 dicembre da WIN/Gallup Internationalhttp://www.wingia.com e condotta interpellando un campione di 66.040 persone di 68 Paesi, assegna proprio all’Italia una scomoda maglia nera. A dirsi felici quest’anno sono stati il 66% degli interpellati (in lieve calo dal 70% del 2014). A dichiararsi infelice è stato il 10% (in aumento del 4% rispetto al 2014), cosa che ha indotto i ricercatori a definire un “indice netto” di felicità globale del 56%.

    A guardare con ottimismo alle prospettive economiche del 2016 è il 45% degli interpellati, più 3% sul 2014, più del doppio del 22% dei pessimisti. Ma se l’indice di felicità vede in testa Colombia (85%), Figi e Arabia Saudita (82%) , in coda Iraq (- 12%) Tunisia (7%) e Grecia (9%), è la classifica che combina ottimismo e felicità a penalizzarci: in testa Bangladesh (74%), Cina (70%) e Nigeria (68%). In coda, prima dei pessimisti/infelici proprio l’Italia (-37%), peggio di Iraq (-35%), Grecia (- 28%) e Palestinesi dei Territori Occupati (-27%), con un indice globale del 54% di ottimisti contro un 16% di pessimisti. Ora, pur muovendoci su un terreno scivoloso, visto che sventolare la bandiera dell’ottimismo è stato per anni monopolio dai leader politici, passando agevolmente di mano da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, lo vogliamo dire che questo primato dei musi lunghi è davvero esagerato? Possiamo finalmente provare a domandarci se in un mondo sempre più complicato, oltre a problemi e difficoltà innegabili, che non sono però un’esclusiva del BelPaese, forse questo guardare al futuro sempre a tinte fosche non è realismo impietoso ma ha anche una matrice culturale?

    In coda alla classifica, prima dei pessimisti/infelici proprio l’Italia (-37%), peggio di Iraq (-35%), Grecia (- 28%) e Palestinesi dei Territori Occupati (-27%), con un indice globale del 54% di ottimisti contro un 16% di pessimisti

    Attento studioso dei nuovi fenomeni sociali, Davide Bennato docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e Sociologia dei media digitali all’Università di Catania sottolinea a questo proposito l’importanza della cosiddetta Spirale del Silenzio. Una teoria che analizzando il potere persuasivo dei mass media, tv in particolare, gli riconosce la forza di enfatizzare i messaggi prevalenti. In sostanza, un singolo interpellato per un’indagine sarebbe indotto ad allinearsi a quello che è il messaggio che ritiene condiviso dalla maggioranza, in questo caso una prospettiva negativa per il proprio Paese. Difficile confutare il fatto che siano le cattive notizie a dominare nell’informazione quotidiana, rimbalzando da tutto il pianeta. E certo individuare e denunciare problemi, drammi e disservizi è doveroso e sacrosanto. Ma c’è molto altro, in questa esasperata propensione nostrana al pessimismo, che forse alla fine dell’anno, con i buoni propositi per il 2016, dovremmo finalmente affrontare senza timore di impantanarsi in duelli fra gufi e iperottimisti.

    Nel Paese che diede i natali a un personaggio capace di coniugare come nessun altro cultura umanistica, scienza e tecnologia, un certo Leonardo, che continua a sfornare oggi straordinari talenti capaci di affrontare con successo le mille sfide dell’innovazione e della conoscenza, combinando competenze diverse, per questo corteggiati e contesi in tutto il mondo, ebbene in questo Paese nel 2015 che volge al termine l’attenzione e l’ammirazione per chi risolve problemi e crea soluzioni è scostante, distratta, infinitamente minore rispetto a quella che si dedica a chi i problemi li denuncia, magari urlando, spesso col dito accusatorio puntato contro qualcun altro, che ha tutte le coppe e a cui spetta trovare soluzioni.

    Mentre il mondo dell’innovazione corre celebrando la cultura del “problem solving”, noi siamo ancora zavorrati al “problem creating”, rivoli infiniti di potere e sottopotere che sopravvivono grazie alla complicazione e a ostacoli insulsi che nascondono microrendite di posizione

    Mentre il mondo dell’innovazione, da quello delle startup al movimento dei makers, corre celebrando la cultura del “problem solving”, noi siamo ancora zavorrati al “problem creating”, rivoli infiniti di potere e sottopotere che sopravvivono grazie alla complicazione e a ostacoli insulsi che nascondono microrendite di posizione. Con una parte di intellettuali e opinion makers specializzati solo nel criticare e denunciare (compito prezioso, ci mancherebbe) ma spesso del tutto indifferenti, se non diffidenti, nei confronti di chi crea costantemente soluzioni, attraverso nuovi prodotti o nuovi sistemi che migliorano la nostra quotidianità, specie se queste soluzioni sono fuori dagli schemi o contraddicono pregiudizi ideologici. Forse è per questo che nella vetrina dei media chi grida, chi celebra quella che Julio Velasco, allenatore e guru, ha ben definito “cultura degli alibi” (è sempre colpa di qualcun altro”) la fa da protagonista, mentre chi inventa o risolve non merita attenzione.

    Questa propensione a veder nero nasconde una crisi profonda e irreversibile. Non dell’Italia, che non è affatto votata a una decadenza senza speranza come troppi sostengono. Ma di modelli culturali attraverso i quali, per troppo tempo, troppe persone hanno interpretato il mondo. E che a mio giudizio stanno franando. Questi modelli sono alla base di quello che negli anni Cinquanta un celebre studio di Edward C. Banfield definì familismo amorale e del quale non ci siamo ancora liberati. L’idea cioè di poter favorire con vantaggi di breve termine i membri della propria cerchia, a scapito degli altri, con l’idea che tutti si comportino allo stesso modo. Uno sperpero che in un mondo sempre più Villaggio Globale non ci possiamo più permettere.

    La grande speranza sono i tanti, giovani e non, che hanno ben chiaro il potenziale immenso che tutto il mondo invidia: una ricchezza di talento e di cultura che è quel che serve per affrontare le sfide della modernità

    In un Paese che a oltre 150 anni dall’unità ancora fatica a riconoscersi in un’identità condivisa, in valori quali meritocrazia, senso civico e responsabilità individuale, retaggio della cultura protestante, le due matrici culturali principali che permeano la società, quella cristiano cattolica e quella socialista comunista, ci hanno assuefatti a diffidare dell’iniziativa individuale e a privilegiare sempre la fedeltà e l’appartenenza (al circolo, alla parrocchia, al partito, alla corrente) rispetto alle capacità ed al merito individuale. Non sono concetti astratti, quando un imprenditore che considera il suo principale avversario il collega che fa lo stesso lavoro a poca distanza diffida o si oppone al fare squadra o distretto assieme a lui, quando un gruppo di ricerca non condivide i propri risultati con altri e magari ignora cosa facciano i ricercatori del laboratorio a fianco, in un’era in cui la conoscenza è tutta scambio, confronto e interazione.

    Sono questi modelli, segnati da una conflittualità assurda e autolesionista (ho chiamato “Sindrome del Palio di Siena” l’abitudine diffusa a realizzarsi nella sconfitta altrui) ad essere in crisi profonda, a spingere alcuni a credere che l’Italia non abbia speranze, e come su un Titanic che affonda, tanto vale assestare l’ultimo schiaffo a quello che ci sta antipatico.

    Non è così, la grande speranza sono i tanti, giovani e non, che non cedono a questa penosa deriva, i tantissimi che forti magari di esperienze all’estero hanno ben chiaro il potenziale immenso che tutto il mondo invidia: una ricchezza di talento e di cultura che è quel che serve per affrontare le sfide della modernità. Per non continuare a sperperarla e a veder nero, non c’è da invocare miracoli per raddrizzare la nave. C’è solo da fare una rivoluzione culturale. Con un bel po’ di ottimismo. La iniziamo, in questo 2016? Forse è già iniziata.

  • La poesia “Se” di Kipling è l’eredità che tutti i figli dovrebbero ricevere dai propri padri

    La poesia “Se” di Kipling è l’eredità che tutti i figli dovrebbero ricevere dai propri padri

    English writer, Rudyard Kipling (1865-1936)
    English writer, Rudyard Kipling (1865-1936)

    SE

    Se riesci a conservare il controllo quando tutti

    Intorno a te lo perdono e te ne fanno una colpa;

    Se riesci ad avere fiducia in te quando tutti

    Ne dubitano, ma anche a tener conto del dubbio;

    Se riesci ad aspettare e a non stancarti di aspettare,

    O se mentono a tuo riguardo, a non ricambiare in menzogne,

    O se ti odiano, a non lasciarti prendere dall’odio,

    e tuttavia a non sembrare troppo buono e a non parlare troppo saggio:

    Se riesci a sognare e a non fare del sogno il tuo padrone;

    Se riesci a pensare e a non fare del pensiero il tuo scopo;

    Se riesci a far fronte al Trionfo e alla Rovina

    e trattare allo stesso modo quei due impostori;

    Se riesci a sopportare di udire la verità che hai detto

    Distorta da furfanti per abbindolare gli sciocchi,

    O a contemplare le cose cui hai dedicato la vita infrante,

    E piegarti a ricostruirle con arnesi logori.

    Se riesci a fare un mucchio di tutte le tue vincite

    E rischiarle in un colpo solo a testa e croce,

    E perdere e ricominciare di nuovo dal principio

    E non fiatare una parola sulla perdita;

    Se riesci a costringere cuore, tendini e nervi

    A servire al tuo scopo quando sono da tempo sfiniti,

    E a tenere duro quando in te non resta altro

    Tranne la Volontà che dice loro: “Tieni duro!”

    Se riesci a parlare con la folla e a conservarti retto,

    E a camminare coi Re senza perdere il contatto con la gente,

    Se non riesce a ferirti il nemico né l’amico più caro,

    Se tutti contano per te, ma nessuno troppo;

    Se riesci a occupare il minuto inesorabile

    Dando valore a ogni istante che passa,

    Tua è la terra e tutto ciò che è in essa,

    E – quel che è più – sei un Uomo, figlio mio!

  • 11 motivi per cui 2015 è stato un grande anno per l’Umanità

    11 motivi per cui 2015 è stato un grande anno per l’Umanità

    Stiamo vivendo il periodo più stupefacente del progresso umano nella storia. E nessuno ci sta dicendo nulla su di esso.
    Mentre il 2015 volge al termine, sarebbe difficile trovare qualcuno che sostenga che è stato un buon anno per la razza umana. Le cattive notizie sono state implacabili: la guerra in Siria, la crisi dei rifugiati in Turchia e in Europa, i terremoti in Nepal, attentati a Parigi, assassinii di massa negli Stati Uniti, le inondazioni in India. Con i mezzi di comunicazione pieni di omicidi cruenti e social media pieni di piagnistei su quanto l’uomo sia egoista / materialista / miope versi altri esseri umani, dovrei essere perdonato se penso che il mondo stia andando all’inferno.
    Però sbaglierei.
    Franklin Roosevelt disse una volta, “la prova del nostro progresso non è se diamo di più a chi ha già molto; ma se mettiamo a disposizione abbastanza per chi ha troppo poco “. E se applichiamo questi criteri per il mondo nel suo insieme, il 2015 è stato un anno davvero molto buono.
    Ecco perché.

    1) Siamo molto più vicini a garatire l’istruzione universale globale
    Nel mese di aprile di quest’anno l’UNESCO ha pubblicato un rapporto sullo stato dell’educazione globale, mostrando che negli ultimi 15 anni il numero di bambini in tutto il mondo che non hanno accesso all’istruzione è dimezzato, da 100 a 57 milioni.
    Questo grazie a una maggiore sensibilità sui benefici dell’educazione per l’individuo e la società, maggiori investimenti da parte dei governi e aumento degli anni minimi obbligatori di istruzione. E ‘un risultato incredibile – vuol dire che siamo in un mondo in cui nove bambini su dieci stanno imparando a leggere e scrivere. La Banca mondiale ora dice che siamo ad una sola generazione di distanza da un mondo in cui ogni singola persona è alfabetizzata.

    2) L’estrema povertà è scesa sotto il 10% – il tasso più basso di tutti i tempi.
    Il numero di persone in condizioni di estrema povertà (definite come coloro che vivono con meno di 1,90 $ al giorno) è sceso a 702 milioni nel 2015, ovvero il 9,6% della popolazione mondiale. E’diminuito di 902 milioni di persone, rispetto al 12,8% della popolazione mondiale nel 2012. E ‘il più basso numero di persone che vivono in estrema povertà negli ultimi 200 anni. Come dice Jim Yong Kim, presidente della Banca Mondiale: “Questo è il miglior risultato dall’inizio della storia ad oggi – queste proiezioni ci dimostrano che siamo la prima generazione nella storia umana che può mettere fine alla povertà estrema. ”

    3) Sempre più persone sono connesse a Internet come mai prima.
    A livello globale, ci sono ora 3,2 miliardi di persone online, e 2 miliardi di loro provengono da paesi in via di sviluppo. Nel 2000 questi numeri sono stati 300 milioni e 100 milioni rispettivamente. Significa che il numero di persone con accesso a internet è aumentato di otto volte in soli 15 anni. Certo, c’è ancora una lunga strada da percorrere. Nei paesi meno sviluppati, solo il 9,5% della popolazione ha accesso a internet, rispetto al 35,3% per i paesi in via di sviluppo e al 82,2% per i paesi sviluppati. Ma questi numeri sono in rapida evoluzione. La capacità di Internet in Africa, ad esempio, è cresciuto del 51% negli ultimi cinque anni. E i telefoni cellulari stanno conducendo la carica. A livello globale, gli abbonamenti sono più di 7 miliardi, e il 95% della popolazione dispone di un segnale di rete mobile.
    Il 2015 ci ha mostrato che il prossimo miliardo di persone utilizzeranno il web dai telefoni cellulari e a basso costo. Non ci sono stati corsi, nessun tutorial, in grado di scoraggire le persone. L’internet mobile è così intuitivo, e così ovviamente utile, che è diventato la tecnologia più veloce nella storia umana. Per ogni 10 persone che hanno accesso a internet, circa una persona viene sollevato dalla povertà e circa un nuovo posto di lavoro è stato creato. E ricordate … grazie ai nostri successi in materia di istruzione, tutti questi nuovi utenti possono leggere e scrivere. Essi rappresentano decine di migliaia di miliardi di dollari di nuovo potere d’acquisto economico, e un ulteriore miliardo di persone hanno la possibilità di accedere alla rete Internet a portata di mano.

    4) Milioni di persone hanno avuto accesso ai finanziamenti per la prima volta
    Nel mese di aprile di quest’anno una piccola organizzazione la Findex, ha rilasciato il più grande studio sull’inclusione finanziaria nel mondo.
    Sulla base di interviste a 150.000 adulti in più di 140 paesi, ha dimostrato che tra il 2011 e il 2014 ulteriori 700 milioni di persone sono diventate dei titolari dei conti presso banche, altre istituzioni finanziarie, o fornitori di servizi finanziari basati sulla telefonia mobile, e il numero di individui ‘unbanked’ è sceso del 20 %.
    Questa tendenza è stata trainata in particolare da nuovi servizi finanziari basati sul “mobile”. Paesi come la Costa d’Avorio, Somalia, Tanzania, Uganda e Zimbabwe hanno ora più adulti che utilizzano un conto disponibile sul cellulare piuttosto che un conto presso un istituto finanziario.
    Questo è importante, perché l’accesso ai servizi finanziari è ampiamente percepita come un motore di sviluppo, in particolare nei paesi a basso reddito, dove il 54% della popolazione non ha accesso alle banche tradizionali. Ecco perché l’esplosione del mobile è stata così importante. Per i 700 milioni di persone che hanno appena guadagnato l’accesso ai pagamenti digitali, attraverso un telefono cellulare o un terminale POS, si è creata l’opportunità di fornire opzioni di pagamento più comode e convenienti. Significa che saranno in grado di avviare imprese, trasferire denaro, investire in istruzione e affrontare meglio gli shock finanziari.

    5) Il numero dei decessi per AIDS è diminuito per il 15 ° anno di fila
    Negli anni 1980 e 1990, l’AIDS è stato raramente fuori dai titoli della stampa. Eravamo abituati a vedere rapporti quotidiani sulla devastazione che causava, e molte persone si aspettavamo che i pedaggi alla morte sarebbero aumentati. Per i 37 milioni di persone che in tutto il mondo vivono con l’AIDS oggi, però, la malattia è sia curabile che prevenibile. Grazie ad uno sforzo globale concertato per migliorare l’accesso ai farmaci anti-retro-virali abbiamo svoltato nella lotta contro questa terribile malattia.
    UNAIDS afferma che il 41% di tutte le persone che sono HIV positivi, sono ora in trattamento, quasi il doppio della percentuale del 2010. Si rilevano 2 milioni di nuove infezioni da HIV in tutto il mondo nel 2014-15, il numero più basso dal 2000. Anche il numero dei morti sta scendendo, da un massimo di 2 milioni nei primi anni 2000 a 1,2 milioni di quest’anno. L’obiettivo di UNAIDS è quello di porre fine all’epidemia entro il 2030. Ci vorranno più soldi, un maggiore sostegno politico e più lavoro. Ma quello che abbiamo visto quest’anno è che la possibilità di una generazione priva di HIV è ormai in vista.

    6) Abbiamo dimezzato il tasso di mortalità della malaria
    La malaria è uno dei più grandi assassini dell’umanità, responsabile di più morti di quelli causati da tutti gli incidenti stradali in tutto il mondo. Negli ultimi dieci anni, però, abbiamo preso finalmente sul serio la lotta contro la malattia. Questo è grazie a tre interventi chiave per il controllo della malaria chia: zanzariere trattate con insetticida, trattamento degli ambienti interni con insetticidi e la terapia combinata a base di artemisinina. Dal 2000, per esempio, circa 1 miliardo di zanzariere trattate con insetticida sono state distribuite in Africa sub-sahariana.
    I tassi di mortalità sono diminuiti del 85% nel sud-est asiatico, del 72% nelle Americhe, del 65% nel Pacifico, e del 64% in Medio Oriente. Mentre l’Africa continua a pagare il prezzo più alto alla malaria, nel corso degli ultimi 15 anni, i tassi di mortalità sono diminuiti del 66% tra tutti i gruppi di età, e del 71% tra i bambini sotto i cinque anni, una popolazione particolarmente sensibili alla malattia. A livello globale, il numero dei decessi per malaria è sceso da un valore stimato 839.000 nel 2000 a 438.000 nel 2015. Ciò significa che abbiamo salvato circa 6,2 milioni di persone dalla malaria negli ultimi 15 anni  – un risultato straordinario.

    7) La poliomielite sta per essere debellata per sempre.
    Un quarto di secolo fa, un certo numero di organizzazioni sanitarie internazionali si sono impegnate nella missione di debellare la polio in tutto il mondo. Con 350.000 bambini colpiti e oltre 1.000 paralizzati ogni giorno, sembrava un obiettivo impossibile. Da allora, sono stati investiti più di 9.000.000.000 di dollari, e più di 2,5 miliardi di bambini in tutto il mondo hanno ricevuto le vaccinazioni. Di conseguenza, il numero di casi di polio è stato ridotto del 99% e nel dicembre di quest’anno, l’Organizzazione mondiale della sanità ha annunciato che la polio non è più endemica in Nigeria, aprendo la strada per farla diventare l’ultima nazione africana da dichiarare ufficialmente libera dalla polio entro il 2017. Questo lascia solo due paesi con casi di polio endemici – Pakistan e Afghanistan. Se, come i professionisti della salute prevedono, si riuscirà a eliminare i 334 casi che ancora rimangono, una malattia che una volta ha ucciso e mutilato i bambini a decine di migliaia si unirà il vaiolo e il Verme della Guinea come piaghe consegnata alla storia.

    8) Meno fame quest’anno rispetto al passato.
    Dei 7,3 miliardi di persone sul pianeta, si stima che 805 milioni – o uno su nove – soffriva di fame cronica tra il 2012 e il 2014. Tuttavia, tale numero è sceso di circa 200 milioni da un quarto di secolo fa. Questo è abbastanza impressionante, soprattutto se si considera che la popolazione mondiale è cresciuta di 1,9 miliardi di persone durante lo stesso periodo. E il tasso di fame è anche in declino. Nel 1990, uno degli obiettivi che ci siamo posti come specie è stato quello di dimezzare il tasso di fame. Oggi, 72 dei 129 paesi in via di sviluppo si sono accordati su questo obiettivo. Globalmente solo il 12,9% della popolazione in paesi in via di sviluppo soffrono oggi la fame, rispetto al 23,3% di un quarto di secolo fa.

    9) Più persone hanno acqua potabile.
    Uno degli obiettivi meno considerato tra le storie di successo del 2015 è invece uno di quelli più importanti. Quest’anno, il numero di persone senza accesso all’acqua potabile è sceso sotto i 700 milioni per la prima volta nella storia. Ciò significa che più di 6,6 miliardi di persone, ovvero il 91% della popolazione mondiale utilizza ora una migliore fonte di acqua potabile, dal 76% nel 1990. Nel 2015 solo tre paesi – Angola, Guinea Equatoriale e Papua Nuova Guinea – hanno una fornitura di acqua pulita inferiore al 50%, rispetto ai 23 paesi nel 1990. Solo nell’Africa sub-sahariana, 427 milioni di persone hanno avuto accesso all’acqua potabile, una media di 47.000 persone al giorno, tutti i giorni, negli ultimi 25 anni.

    10) La mortalità infantile è in diminuzione per il 43° anno di fila.
    Il tasso di mortalità, per i bambini sotto i cinque anni, è diminuito in quasi ogni paese della terra. Questo grazie ai progressi nella lotta contro le malattie come la malaria e la tubercolosi, agli integratori di vitamina A, ai nuovi farmaci contro l’HIV / AIDS e ad un migliore trattamento contro la diarrea e la polmonite. Ciò significa che nel 2015, per la prima volta in assoluto, il tasso di mortalità infantile globale (definito come la mortalità infantile sotto i 5 anni) è sceso al di sotto della soglia dei 6 milioni. Negli ultimi 25 anni, circa un terzo dei paesi del mondo – 62 in tutto – ha ridotto la mortalità sotto i cinque anni di due terzi, mentre altri 74 di almeno la metà. E il progresso è venuto da alcuni dei paesi più colpiti al mondo; 10 dei 12 paesi a più basso reddito che hanno ridotto i tassi di mortalità sotto i cinque anni, di almeno due terzi, sono in Africa.
    Ciò significa che si sono salvati circa 19.000 in più al giorno, nel 2015, rispetto al 1990, anno di riferimento per misurare i progressi. Solo dal 2000, abbiamo salvato la vita di 48 milioni di bambini. Questo numero è superiore a quello dei morti causati dalle guerre e dalle violenze durante lo stesso periodo. Significa che meno genitori, hanno dovuto seppellire i loro figli quest’anno che in qualsiasi altro periodo della storia umana. E’una delle notizie più sorprendenti del nostro tempo, e tuttavia il suo peso sui media è di 100 volte inferiore rispetto alle storie sul terrorismo.

    11) Abbiamo raggiunto un punto di svolta nella lotta contro il cambiamento climatico.
    Tre grandi cose sono accadute per il cambiamento della politica sul clima nel 2015. La prima è che il 2015 sembra destinato ad essere l’anno più caldo mai registrato. Questo significa che le temperature sono salito di 1 ° C a partire dalla rivoluzione industriale. Il periodo di cinque anni tra il 2011 e il 2015 è anche il più caldo mai registrato; le giustificazioni sul cambiamento climatico addotte dai negazionisti stanno diventando sempre più ridicole. Abbiamo svolato; chi nega l’influenza delle emissioni sul clima non viene più preso sul serio. Il mondo è andato avanti, e i contrari sono diventati reliquie irrilevanti.
    La seconda cosa è che, grazie al forte calo del consumo di carbone in Cina e un ad un continuo aumento delle energie rinnovabili in tutto il mondo, il 2015 sembra destinato ad essere il primo anno in assoluto durante il quale le emissioni di CO2 sono diminuite mentre l’economia mondiale in generale è cresciuta. Se la transizione energetica sia permanente, non è ancora chiaro, ma i segnali sono incoraggianti. Nei paesi sviluppati i segni sono evidenti. Hanno raggiunto un picco nel consumo complessivo di combustibili fossili e ora sta iniziando la transizione verso forme più pulite di energia.

    Il terzo, e più importante evento è stata la firma dell’accordo di Parigi. Il punto centrale è il cosiddetto ‘obiettivo a lungo termine’ che impegna quasi 200 paesi a mantenere la temperatura media globale al di sotto dei 2 ° C, rispetto ai livelli pre-industriali, e di “proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a non più di 1,5 ° C” . L’obiettivo a lungo termine afferma inoltre che nella seconda metà di questo secolo, il mondo dovrebbe arrivare a un punto in cui le emissioni nette di gas serra dovrebbero essere pari a zero.
    Certo, non è abbastanza. C’è una lunga strada da percorrere prima che gli impegni corrispondano a tale obiettivo. Ma è più di quanto ci si potesse aspettare, e un trionfo per la diplomazia. Il più grande raduno di leader mondiali mai avvenuto, il problema più grande che l’umanità abbia mai affrontato, si è concluso con la stesura di un documento giuridicamente vincolante accettato da tutti i paesi. Jonathan Chait riassume perfettamente:
    Le forze tecnologiche e politiche sono finalmente in atto per realizzare il primo patto globale atto a limitare le emissioni di gas serra. Il mondo sta improvvisamente rispondendo all’emergenza clima con – per gli standard del suo comportamento precedente – velocità sorprendente. La partita non è finita. E i bravi ragazzi stanno iniziando a vincere.
    Il mondo non è un posto perfetto. Molte cose sono andate male per l’umanità di quest’anno. Abbiamo ancora grossi problemi, in particolare intorno al degrado ambientale, le migrazioni internazionali, l’estremismo politico e la disuguaglianza economica. Queste sono le grandi sfide del nostro tempo. Ed è anche vero che l’ondata di progresso non ha raggiunto tutti. Troppe persone vivono ancora in condizioni di povertà estrema, 6 milioni di bambini muoiono ancora ogni anno di malattie curabili e centinaia di milioni di persone non possono esercitare le libertà fondamentali. Ma, come uno dei miei preferiti di statistica dice Hans Rosling, “Devi essere in grado di contenere due idee in testa in una sola volta: il mondo sta migliorando e non è abbastanza buono!”
    E ‘facile essere cinici dicendo che nulla sta migliorando nel nostro mondo. L’evidenza empirica contraddice questo punto di vista; guardando a ciò che abbiamo già raggiunto come specie, dobbiamo quandare al futuro con fiducia. Stiamo costantemente sottovalutando le capacità dell’umanità di lavorare in modo cooperativo, affrontare nuove sfide e ampliare la prosperità globale e le libertà fondamentali. Ora abbiamo una finestra di opportunità per creare la più grande era di progresso nella storia umana. Non sarà facile, così come non lo è stato in passato, e ci vorrà coraggio, sacrificio e una forte leadership. Ma i potenziali sviluppi sono impressionanti. E riusciremo a farcela, possiamo sperare in un periodo d’oro per il genere umano e per la terra su cui viviamo.

    Tradotto ed adattato da
    https://medium.com/future-crunch/11-reasons-why-2015-was-a-great-year-for-humanity-70db584db748#.fp21siye4

  • Intervista a George Hornby

    «Quella delle persone con disabilità è una minoranza grande e in qualche modo riguarda (e riguarderà) ogni famiglia, quasi senza eccezione. Dunque, anche se la nostra malattia è particolare, credo che sia decisivo fare parte attivamente del gruppo più ampio di persone con disabilità.».

    “Io e George” è un docu-film sulla sclerosi multipla ospitato da Rai 3 e prodotto da Pesci Combattenti. Un racconto in sei tappe, un viaggio dal Nord al Sud dell’Italia. Protagonisti la scrittrice Simonetta Agnello Hornby e suo figlio George, diagnosticato di sclerosi multipla 13 anni fa. In onda il venerdì in seconda serata a partire dal 20 novembre. “Un’esperienza ricca di scoperte e riflessioni, nate dalla voglia di «uscire dagli schemi tranquillizzanti» e di mettersi in strada”.

    “Quando cerchiamo di ottenere inclusione sociale è meglio se ci integriamo, se ci mettiamo insieme ad altre associazioni e altre persone”

    Sì, lavoravo in una banca di investimenti. Ho fatto sia l’avvocato che l’investment banker. Il mio lavoro mi portava spesso a viaggiare all’estero, più o meno partivo una volta alla settimana. A un certo punto non riuscivo più a viaggiare così facilmente, ogni viaggio comportava una grande fatica. E allora ho smesso di lavorare.

    Cosa è cambiato, da allora?

    Quando smetti di lavorare il tuo raggio sociale diminuisce di molto, quasi senza avvertirtene. Dopo tutto, è bello non lavorare? E questo rende anche più importante potere uscire di casa e fare cose comuni, così anche qualche contatto con la società esterna si mantiene.

    Anche da voi c’è una pensione, un assegno di sostegno per le persone con disabilità?

    Sì c’è un sostegno, minimo. Io sono fortunato: avevo un’assicurazione, che era parte dei miei diritti quando lavoravo in banca: mi paga due terzi del mio stipendio e continuerà fino a quando avrò l’età della pensione. È uno stipendio a vita praticamente.

    È importante, così sei autonomo e non dipendi da nessuno…

    Senza il sostegno morale e finanziario della mia famiglia non vivrei come vivo ora. Però questa assicurazione è un aiuto notevole fino ai 60 anni, è fondamentale. Finanziariamente altrimenti sarei molto più povero e mi sentirei meno indipendente.

    Vivere bene e avere entrate adeguate è un diritto da garantire a tutti. Come si fa a passare da una garanzia individualizzata a un diritto collettivo?

    Quando cerchiamo di ottenere inclusione sociale di chi ha la sclerosi multipla o la SLA è meglio se ci integriamo in una più grande associazione di disabili: anche se non farà esattamente al caso nostro specifico, è meglio se ci mettiamo insieme ad altre associazioni e altri malati, e anche ai vecchietti, che per esempio hanno gli stessi nostri problemi di mobilità nei trasporti pubblici.

    Insieme si è più forti? Non si rischia però che poi arrivino risposte generiche quando i bisogni sono specifici?

    Ho fatto ricerche sul livello di disabilità: in Inghilterra, secondo le cifre ufficiali del Governo, il 19% della popolazione inglese è disabile e dopo i 70 anni più del 50% della popolazione diventa disabile. Quella delle persone con disabilità, dunque, è una minoranza grande e in qualche modo riguarda (e riguarderà) ogni famiglia, quasi senza eccezione. Dunque, anche se la nostra malattia è particolare, credo che sia decisivo fare parte attivamente del gruppo più ampio delle persone con disabilità. Io per esempio faccio parte di un’organizzazione londinese che si chiama “Transport for all”, che fa campagne per avere i trasporti pubblici accessibili. Questo coinvolge tutte le persone con disabilità.

    A proposito di condividere i diritti con tutti, le persone con sclerosi multipla in Italia nel 2014 hanno voluto scrivere, pubblicare e fare firmare da tutti la Carta dei Diritti delle Persone con SM. Ora siamo arrivati a più di 40 mila firme: vuoi aggiungere la tua?

    Sì, sono pronto a firmare anche io.