Autore: panfoli

  • Ci facciamo due risate?

    Ci facciamo due risate?

    Dove -Piazza delle Vittoria Pianello Vallesina lato Sapienza

    Quando -Gennaio 2021

    Come -Documentazione fotografica

    Cosa -Assembramento di n. 13 persone probabilmente anziane

    Chi -Una persona si è sentita in dovere di dare giudizi assennati sulla situazione.

    Scena -Tre gruppetti di persone per un totale di 13, distribuite nella piazza, lato SAPIENZA (ci tengo a

    sottolinearlo, visto che il lato MALIGNO è interdetto ormai da mesi), tutti con mascherina, tranne uno.

    Ci avrei fatto una risata, niente di male a sottolineare comportamenti presumibilmente pericolosi, poi mi sono accorto di un commento, che prendo come spunto per fare qualche considerazione.

    Consideriamolo “Humor inglese”, consideriamo che, per come è scritto, la maestra delle elementari si starà ancora chiedendo dove ha sbagliato, consideriamo che l’istat ha certificato una percentuale elevatissima di analfabeti di ritorno, consideriamo tutto, alla fine però resta il senso del messaggio che è spaventoso. Spaventoso perché ha trovato un paio di persone che si sono precipitate a comunicare che si stavano sbellicando dalle risate, spaventoso perché è transitato su gruppo privato che ha dei moderatori, spaventoso perché alla fine di questa pandemia, se tutto va bene, se il virus non muta, se non comincia a colpire altre fasce d’età, se arriviamo prima dell’estate a vaccinare quelli candidati alle “scarpe di cartone”, comunque sia, si conteranno almeno 100.000 morti. Erano anziani? si, avevano una speranza di vita limitata? certo, ma sarebbero vissuti almeno un altro anno, e questi ridono su 100.000 anni di vita mancata. Non è solo per i 100.000 anni, ma queste persone erano le ultime depositarie dei ricordi dei loro padri e dei loro nonni, morti da decenni, ma che continuavano a vivere in loro, nei loro racconti, nella loro saggezza e che scompaiono per sempre nell’oblio. Questi fanno battute su chi ha visto morire la mamma o il papà senza poterli salutare e sono stati privati di un altro anno di vita insieme a loro, augurano la morte ai loro compaesani, hanno trovato il posto giusto per poter esprimere impunemente le loro battute macabre. C’è qualcosa di profondamente immorale, di schifoso, è una mentalità che trovo anche in altri post e che non può essere liquidata con la solita battuta “so’ ragazzi”.

  • SVILUPPO UGUALE PROGRESSO?

    SVILUPPO UGUALE PROGRESSO?

    Sessanta anni fa non esisteva la raccolta dei rifiuti, non esisteva neppure la parola “rifiuti”. Com’era possibile? Cosa buttiamo oggi nel sacchetto dell’organico?

    ‘l berò

    Le Bucce della frutta, gli scarti della verdura, gli avanzi di cibo. Dobbiamo separali diligentemente, poi vengono trasportati e trattati (si spera) per essere ridotti, dopo mesi, a terriccio. Ai tempi della mia infanzia, avevamo un impianto di riciclo formidabile, “il maiale”.

    La trocca

    Spazzava via tutto e anziché del terriccio avevamo i prosciutti, le “salcicce”, i salami. Al posto dell’operatore ecologico c’era il “pistarolo”.

    I piatti venivano lavati con l’acqua calda della pasta (non esistevano i detersivi né i loro contenitori in plastica, non esisteva proprio la plastica!), l’acqua incorporava gli ultimi residui di cibo e, trasformata in “broda”, finiva nella “trocca” del porco. Il grugnito della cara bestiola sottolineava la sua estasi nel cibarsi di quell’intruglio.  

    Bottiglie di plastica, scatolette, confezioni ecc.. non esistevano. Si comprava un etto di conserva o di sardine o di tonno, da Severì, piuttosto che da Santina o Lisetta; come per la pasta, veniva tutto incartato nella carta oleata o con la carta paglia, la stufa, sempre accesa, provvedeva a trasformarla in cenere.

    La piazza con le botteghe di Santina, Elio e Severì.
    Bucato con la cenere

    E la cenere? Serviva per la “lisciva”, ci si lavavano le lenzuola, e quello che restava era concime per l’orto. Residuo zero. Non c’erano le vaschette del supermercato a contenere la carne. Il pollame veniva “scannato” in casa, con le piume (specialmente quelle d’oca) si riempivano cuscini e materassine. Il coniglio veniva spellato, la pelle messa da parte in attesa di un altro operatore ecologico “il pellaretto”.

    Passava con una cassetta di legno sopra la bicicletta e lanciava il suo grido, noi ragazzini, sempre attenti; ti dava 10 lire per la pelle, se era bianca, meno se scura, normalmente restavano nelle nostre tasche.  Maglie e maglioni, pantaloni (rigorosamente corti sia in inverno che in estate per risparmiare la stoffa) subivano infiniti adattamenti, attraversavano le generazioni, per poi finire dallo “stracciarolo”.

    Il pezzo di sapone con cui si lavavano i “pagni”, era lo stesso usato per il bagno settimanale, dentro la tinozza. Spesso la stessa acqua serviva per due o più bambini (l’ultimo faceva i fanghi, ma avevamo degli anticorpi giganteschi). Chi poteva si faceva il sapone in casa, utilizzando il grasso del maiale.

    Idrolitina - Wikipedia

    In famiglia c’era qualche bottiglia di vetro, quella per la tavola aveva la chiusura con la guarnizione di gomma; serviva per l’Idrolitina del Cavalier Gazzoni. Una polverina che rendeva l’acqua frizzante, si utilizzava solo d’estate, per rinfrescare la gola, non serviva conoscere il modo di schiacciare la bottiglia in Pet prima di depositarla nell’apposito contenitore.

  • Umberto Eco “…del fascismo”

    È uno dei massimi esperti di fascismo transnazionale e di populismo globale, in America Latina e non solo. Professore di storia presso la New School for Social Research e l’Eugene Lang College di New York, nonché direttore del Janey Program in Latin American Studies presso l’NSSR, Federico Finchelstein è autore di numerosi libri e articoli anche su “guerre sporche”, genocidio e antisemitismo in America Latina e in Europa. Collabora con importanti giornali e media statunitensi, europei e latinoamericani, tra cui The New York Times, The Washington Post, Clarin, Folha de S.Paulo e Corriere della Sera. Uno dei suoi ultimi lavori, From Fascism to Populism in History (University of California Press, 2017), in uscita in Italia nel 2019, rappresenta un tentativo di comprensione della realtà attuale attraverso gli strumenti della storia, in particolar modo di quella del fascismo e del populismo. «In una fase in cui, a livello globale, non pochi sono coloro i quali si mostrano sorpresi di fronte all’avvento dei cosiddetti “neo-populismi”, come nel caso dell’affermazione di Donald Trump negli Stati Uniti – racconta Finchelstein – il libro propone una lettura storica che presenta casi precedenti di populismo, soprattutto al potere, e questo, ovviamente, non con l‘obiettivo di prevedere cosa accadrà nel prossimo futuro, ma allo scopo di dotarsi di un parametro utile per leggere e interpretare la realtà del presente».

    Nel suo libro lo storico argentino non dà una definizione di populismo, categoria spesso abusata e utilizzata impropriamente, ma discute con quelle interpretazioni che non terrebbero conto della complessità richiesta dalla storia per la comprensione e la descrizione di questo importante fenomeno politico. «Certo, evidenzio alcune caratteristiche che a mio avviso si ripetono nel corso del tempo, sia in America Latina che fuori. Quindi, quella che emerge è una lista di tratti comuni, centrali nel populismo, sebbene non una definizione vera e propria». Quali sarebbero i tratti tipici del populismo, che si manterrebbero pressoché costanti nel tempo? Fra questi sicuramente «un leader carismatico, messianico, quasi mitico, che presenta sé stesso come colui il quale sa ciò che il popolo desidera, anche quando magari è il popolo stesso a non saperlo; in breve, un leader che si mostra come la personificazione del popolo».

    Un capo che promette – e questa sarebbe un’altra caratteristica ricorrente – di «realizzare finalmente quel “momento” in cui è il popolo a governare, ossia di dar vita ad una sorta di democrazia diretta o quasi». Tuttavia, quello che accade nella realtà, storicamente, è qualcosa di profondamente diverso: «alla fine è sempre il leader quello che governa, che decide, che parla, che impersona il popolo, che detiene materialmente il potere». In altre parole, quel che si produrrebbe costantemente sarebbe un duplice movimento di riduzione: «in primo luogo, il popolo viene sostituito dal leader, che parla e governa a nome di tutti; in secondo luogo, il popolo viene rappresentato come una massa compatta, che ha votato in blocco per il leader in questione e per i suoi sostenitori, anche quando è evidente che non è così». I populismi rappresenterebbero, pertanto, «un popolo che non esiste, e tutti coloro i quali non si riconoscono in questo popolo vengono presentati come dei nemici del popolo, come degli “anti-popolo”, come dei soggetti contrari ai desideri del popolo». Il prodotto finale di tutto questo è un evidente paradosso: «il populismo si manifesta come rappresentanza dell’antipolitica, anzi, di più, come un modo per risolvere una crisi della rappresentanza politica, per favorire una partecipazione più diretta della popolazione al processo decisionale. Ma è proprio questo che, alla fine, non accade mai. E il risultato, se vogliamo, è ancor più antidemocratico, perché l’accostare il popolo al governo sulla base dell’idea che i tradizionali rappresentanti non lo rappresentano – il che, peraltro, nella stragrande maggioranza dei casi, è verissimo –, si conclude con l’unico effetto di individuare un solo rappresentante, o meglio, un soggetto che si ritiene o che si vuole ritenere come la persona alla quale è stato delegato il potere, producendo, pertanto, il passaggio da una rappresentanza molteplice, con tutti i suoi limiti, ad una rappresentanza unificata nella persona del leader».


    Donald Trump, murale, 2017

    Non è un caso se, secondo Finchelstein, sussistono forti elementi di contatto fra populismo e fascismo. «La connessione è prima di tutto storica», racconta. «I populismi esistono sicuramente già nel XIX secolo, tanto in Europa, quanto negli Stati Uniti, quanto in America Latina, come forme politiche finalizzate ad avvicinare il popolo al potere. Ma in quel periodo non riescono ad arrivare al potere, cosa che accade invece nel subcontinente latinoamericano dopo il 1945. L’aspetto interessante è che molti di questi primi populisti che arrivano al governo in diversi paesi della regione, prima del ’45 erano stati fascisti, o comunque vicini al fascismo o compagni di strada del fascismo. Dopo la seconda guerra mondiale quel che accade è che questi fascismi vengono riformulati in chiave democratica. Il risultato di questo processo è, appunto, il populismo, che altro non è che una forma autoritaria di democrazia che non è più fascismo, avendo abbandonato alcune caratteristiche fondamentali di questo, come, ad esempio, la violenza politica e il razzismo, ma che ne conserva delle altre».

    Questo, tuttavia, costituirebbe un tratto tipico dei primi populismi che cercarono di allontanarsi dall’«eredità fascista», mentre «nei populismi di oggi, più recenti, di estrema destra, invece, vediamo l’affermazione dell’idea contraria, ossia l’utilizzo di xenofobia e razzismo per connettere il popolo con il potere, come dimostra chiaramente, fra gli altri, il caso di Donald Trump. Pertanto questi populismi attuali, non dico che si siano riconvertiti in fascismo, ma si avvicinano al fascismo, riprendono alcuni temi forti del fascismo che avevano definito quello che il populismo non era dopo il ’45. Se si guarda al fenomeno in senso ampio, ci troviamo di fronte ad una storia del populismo che, in un primo momento, si allontana dal fascismo, riformulandolo in chiave democratica per ovvi motivi, e, in un secondo momento, oggi, per la precisione, dimostra di voler tornare a quel fascismo». Qual è il rapporto fra populismo e democrazia, quindi?

    «Non esiste populismo senza democrazia, questo deve essere chiaro. Il populismo è una “bastardizzazione” della democrazia, è una forma di democrazia autoritaria, come detto. Nella storia del populismo si contano sulle dita di una mano i casi in cui il populismo distrugge la democrazia. Nella maggior parte dei casi si tratta di dar vita ad una democrazia che non si distingue certamente per essere di tipo costituzionale, ma che risiede nella persona, nei desideri e nei capricci del leader. Ma in generale il populismo non distrugge la democrazia. Anzi, nella storia latinoamericana sono molto spesso le dittature anti-populiste che mettono fine alle democrazie populiste. Quando il populismo non mantiene le regole minime della democrazia non ci troviamo più di fronte ad un caso di populismo, ma ad un regime di tipo dittatoriale».

    Quella di populismo, per Finchelstein, costituisce una categoria importante, quindi, impossibile da ignorare e da escludere dall’analisi, nella misura in cui fa parte dell’esperienza quotidiana degli attori e dei soggetti politici. Guardando al contesto latinoamericano attuale, ad esempio, «se il sedicente “populismo di sinistra” è scomparso quasi ovunque, incluso in Venezuela, dove l’inesistenza, a mio avviso, di uno Stato di diritto impedisce di parlare di populismo, quello che possiamo rilevare, a cominciare dal paese più importante, il Brasile, è l’ascesa di un populismo di estrema destra che si è affermato attraverso campagne mediatiche di tipo quasi nazista». E le prospettive sono tutt’altro che rosee, se si osserva la situazione dal punto di vista della democrazia costituzionale: «in pratica, non sappiamo ancora se Bolsonaro governerà il paese come un leader populista o come un Pinochet. E questo non dipende solo da lui, ma anche dalla capacità della società civile e delle istituzioni di mettere dei limiti ad un personaggio così estremo, che si caratterizza per la sua omofobia, per il suo razzismo e per la sua demonizzazione e odio nei confronti di tutto quello che ritiene essere diverso». Non tanto meglio sembrerebbero andare le cose in altri paesi, come Argentina o Cile, dove non sono presenti governi di tipo populista ma «esecutivi neoliberisti ben caratterizzati dalla presenza di una tecnocrazia che ritiene di sapere quello che il mercato vuole».

    Brasilia, Jair Bolsonaro durante la nomina presidenziale, 2018

    Non bisogna dimenticare, infatti, che sono proprio questi governi di tecnocrati ad essere, in molti casi, «causa ed effetto del populismo, nella misura in cui questi, una volta al potere, non ascoltano tanto la voce di quei cittadini che hanno contribuito ad eleggerli, quanto quella del mercato, e il soggetto mercato, in questa prospettiva, è antidemocratico: non lo ha “votato” nessuno, ma finisce per incidere sulle decisioni di un esecutivo eletto democraticamente e che, invece, rappresenta gli interessi particolari di una parte molto ristretta della società. E cosa accade, quindi? Accade, molto spesso, che queste “tecnocrazie” creino terreno fertile per la diffusione di leader populisti che vogliono o dicono di voler avvicinare il popolo al potere, ma che finiscono, come detto, per essere governo di una sola persona o di un gruppo altrettanto ristretto».

    Come riconoscere un contesto favorevole alla diffusione del populismo, quindi? Il populismo si presenterebbe sempre «come la risposta a una crisi della rappresentanza politica ed economica. Questa crisi può essere reale, concreta, o anche solo una percezione e, pertanto, immaginaria. Ad esempio, negli Stati Uniti la situazione economica non era negativa al momento in cui è stato eletto Trump. Anzi, in una situazione di crisi reale, sul piano economico, venne eletto Obama, che di certo non era un leader populista, mentre in un contesto di andamento tutto sommato positivo dell’economia è stato eletto Trump, che ha utilizzato una “crisi”, economica, politica, sociale, che non esisteva, per trarne un vantaggio sul piano retorico e propagandistico. Ma per quelli che lo hanno eletto questa “crisi” esisteva».

    Oggi, quindi, in Europa, come in America Latina, come negli Stati Uniti ci troviamo di fronte ad un rischio di deriva autoritaria? «Sì, ma questa deriva autoritaria ha a che vedere a volte con il populismo e a volte con governi che, allo stesso modo, si allontanano dall’essere reali rappresentanti degli elettori, della cittadinanza, per farsi rappresentanti di realtà come quella del mercato. È sicuro che il populismo implica una nozione autoritaria della democrazia, ma bisogna pensare che la stessa democrazia che esiste al di fuori o prima dei populismi tantomeno costituisce un tipo di democrazia ideale, anzi, presenta anch’essa dimensioni antidemocratiche molto importanti e per niente da sottovalutare. Come se ne esce? Di fronte ad una crisi di rappresentanza, che né i tecnocrati né i populisti risolvono, convertendosi, anzi, in governi che pensano a portare avanti i propri interessi o quelli di pochi, sono necessarie opzioni politiche maggiormente connesse con i bisogni, le esigenze e gli interessi reali dei cittadini».

  • Cara radio Maria

     Lettera geniale inviata a Radio Maria.

    Tempo fa un NOTO RELIGIOSO, dalle onde radio di Radio Maria, ha risposto ad un ascoltatore che l’OMOSESSUALITA’ E’ UN ABOMINIO, perchè a dirlo è la BIBBIA (Levetico, 18,22). Un ABOMINIO CHE NON PUO’ ESSERE TOLLERATO IN NESSUN CASO. Quello stesso ascoltatore ha scritto questa lettera al NOTO RELIGIOSO…
    Lettera del 16 maggio 2009

    “Caro sacerdote, le scrivo per ringraziarla del suo lavoro educativo sulle leggi del Signore. Ho imparato davvero molto dal suo programma, e ho cercato di condividere tale conoscenza con più persone possibile. Adesso, quando qualcuno tenta di difendere lo stile di vita omosessuale, gli ricordo semplicemente che nel Levitico 18:22 si afferma che ciò è un abominio. Fine della discussione. Però, avrei bisogno di alcun consigli da lei, a riguardo di altre leggi specifiche e come applicarle.

    – Vorrei vendere mia figlia come schiava, come prevede Esodo 21:7. Quale pensa sarebbe un buon prezzo di vendita?

    – Quando do fuoco ad un toro sull’altare sacrificale, so dalle scritture che ciò produce un piacevole profumo per il Signore (Levitico 1.9). Il problema è con i miei vicini. Quei blasfemi sostengono che l’ odore non è piacevole per loro. Devo forse percuoterli?

    – So che posso avere contatti con una donna quando non ha le mestruazioni (Levitico 15:19-24). Il problema è: come faccio a chiederle se ce le ha oppure no? Molte donne s’offendono.

    – Levitico 25:44 afferma che potrei possedere degli schiavi, sia maschi che femmine, a patto che essi siano acquistati in nazioni straniere. Un mio amico afferma che questo si può fare con i filippini, ma non con i francesi. Può farmi capire meglio? Perché non posso possedere schiavi francesi?

    – Un mio vicino insiste per lavorare di sabato. Esodo 35:2 dice chiaramente che dovrebbe essere messo a morte. Sono moralmente obbligato ad ucciderlo personalmente?

    – Un mio amico ha la sensazione che anche se mangiare crostacei è un abominio (Levitico 11:10), lo è meno dell’omosessualità. Non sono d’accordo. Può illuminarci sulla questione?

    – Levitico 21:20 afferma che non posso avvicinarmi all’ altare di Dio se ho difetti di vista. Devo effettivamente ammettere che uso occhiali per leggere … La mia vista deve per forza essere 10 decimi o c’è qualche scappatoia alla questione?

    – Molti dei miei amici maschi usano rasarsi i capelli, compresi quelli vicino alle tempie, anche se questo è espressamente vietato dalla Bibbia (Levitico 19:27). In che modo devono esser messi a morte?

    – In Levitico 11:6-8 viene detto che toccare la pelle di maiale morto rende impuri. Per giocare a pallone debbo quindi indossare dei guanti?

    – Mio zio possiede una fattoria. E’ andato contro Levitico 19:19, poiché ha piantato due diversi tipi di ortaggi nello stesso campo; anche sua moglie ha violato lo stesso passo, perché usa indossare vesti di due tipi diversi di tessuto (cotone/acrilico). Non solo: mio zio bestemmia a tutto andare. È proprio necessario che mi prenda la briga di radunare tutti gli abitanti della città per lapidarli come prescrivono le scritture? Non potrei, più semplicemente, dargli fuoco mentre dormono, come simpaticamente consiglia Levitico 20:14 per le persone che giacciono con consanguinei?

    So che Lei ha studiato approfonditamente questi argomenti, per cui sono sicuro che potrà rispondermi a queste semplici domande. Nell’occasione, la ringrazio ancora per ricordare a tutti noi che i comandamenti sono eterni e immutabili.

    Sempre suo ammiratore devoto.”

  • Caduta dell’impero britannico. Brexit ultimo atto.

    Declino e caduta dell’Impero Britannico. Una lettura epocale della Brexit

    Declino e caduta dell’Impero Britannico. Una lettura epocale della Brexit

    di Gabriele Bonafede

    Quando il britannico Edward Gibbon scrisse la grande opera “Storia del declino e caduta dell’Impero Romano” , l’Impero Britannico era in forte ascesa. Si era nella seconda metà del XVIII secolo e, una volta vinte le guerre napoleoniche, Londra avrebbe imposto la “Pax Britannica” a tutto il mondo per un intero secolo.

    La impose nel quadro della propria convinzione sui benefici di libero mercato e libero commercio, ancorché sostenuto dalla forza militare laddove necessario.

    L’Impero Britannico era molto più grande ed esteso nel globo di quello romano. E si giovava di vie di commercio globali facilitate da una relativa pace che durò per tutto il XIX secolo, a meno di guerre locali.

    Gibbon non poteva immaginare quanto sarebbe durato l’Impero Britannico. Oggi noi sappiamo che non esiste più. E con la vittoria di Boris Johnson e la Brexit, sembra che si sia arrivati ai titoli di coda. Il biondo Boris assomiglia ai barbari nordici del IV secolo. A un Alarico intento a saccheggiare una altrettanto imbarbarita nazione.

    Le cause del declino e caduta dell’Impero Romano furono molteplici. Tra quelle indicate da Gibbon nella sua vasta opera, risaltano cause del tutto simili a quelle che troviamo per la fase finale dell’Impero Britannico. Ossia, la decadenza della classe politica e la negazione degli stessi valori e delle stesse virtù che avevano resa possibile l’ascesa nei secoli precedenti.

  • Comprendere l’ondata secessionista globale

    Comprendere l’ondata secessionista globale

    Interpretazioni spesso ardite del diritto all’autodeterminazione dei popoli, insieme all’azione di forze politiche ed economiche globali, stanno destabilizzando molte regioni del mondo. Nelle ultime settimane, i governi regionali della Catalogna in Spagna e del Kurdistan in Iraq hanno tenuto referendum non autorizzati sulla propria indipendenza. E in Camerun, i gruppi separatisti della regione inglese di Ambazonia hanno dichiarato unilateralmente l’indipendenza dalla parte francofona del paese.

    Nel frattempo, la Scozia sta valutando se tenere un altro referendum per poter continuare a far parte dell’Unione Europea una volta che la Brexit dovesse concretizzarsi. E decine di altre regioni con potenti forze separatiste – tra cui le Fiandre in Belgio, Biafra in Nigeria, Somaliland in Somalia e Québec in Canada – stanno osservando l’evoluzione di questi eventi con attenzione e si tengono pronte all’azione a loro volta.

    L’autodeterminazione dei popoli è stata una forza trainante della geopolitica del ventesimo secolo, portando alla creazione di molti nuovi stati dopo le due guerre mondiali e poi ancora dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Quando le Nazioni Unite furono fondate nel 1945, vi erano solo 51 Stati membri; oggi, 193. Ma la strada verso l’indipendenza è di solito sanguinosa, violenta e lunga, come mostra l’esperienza africana caratterizzata da guerre civili e conflitti etnici. La pacifica divisione della Cecoslovacchia nel 1993 o della Norvegia e della Svezia nel 1905 sono le eccezioni alla regola.

    All’alba del ventunesimo secolo, la maggior parte delle aberrazioni storiche che il colonialismo e l’imperialismo sovietico avevano imposto sulla mappa del mondo erano state riassorbite e la spinta globale per l’autodeterminazione sembrava perdere vigore. Mentre tra il 1981 e il 1997 furono fondati quasi 30 nuovi paesi, dal 2000 ad oggi ne sono emersi solo 5. Con la globalizzazione, che aveva portato all’omogeneizzazione culturale, politica e economica, si era creata la percezione che le distinzioni regionali non contassero più. Il mondo era entrato in quello che il filosofo Jürgen Habermas definiva l’età dell’”identità post-nazionale”.

    Il riemergere del secessionismo oggi è quindi inatteso; ma non deve sorprendere. In molti casi, la democrazia diretta ha sostituito la forza militare come principale strumento di lotta. Persino Putin ha cercato di annacquare l’illegalità dell’invasione e dell’annessione della Crimea nel 2014 nella legittimità spuria di un referendum. Dalle democrazie mature come il Regno Unito alle democrazie fragili come l’Iraq, l’autodeterminazione sta alimentando nuove forme di micro-nazionalismo, alcune più legittime di altre.

    Visto il grande numero di movimenti secessionisti attivi e dormienti in giro per il mondo, l’importanza dell’irredentismo per il secolo attuale non può essere sottovalutata. Molto probabilmente continuerà a giocare un ruolo importante. Le analisi dei commentatori di Project Syndicate relative ai recenti eventi in Spagna, Iraq e sono di vitale importanza per capire quando la secessione sia davvero legittima.

    Il diritto a uno stato proprio
    L’autodeterminazione dei popoli, spiega Joseph S. Nye dell’Università di Harvard, “è generalmente definita come il diritto di un popolo a costituire il proprio stato” – un diritto introdotto nel 1918 dal presidente americano Woodrow Wilson e ancora sancito dalla Carta delle Nazioni Unite del 1945. Se da un punto di vista concettuale, l’idea dell’autodeterminazione è auto-esplicativa, la sua realizzazione pratica è alquanto complessa. Come osserva Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations, “non esiste un insieme di standard universalmente accettato da applicare a leader e popolazioni che cercano di autodeterminarsi”.

    Gli stati nazionali rimangono i pilastri del sistema internazionale, e quindi la loro disintegrazione solleva inevitabilmente timori di destabilizzazione globale o regionale. Ma, come sottolinea Peter Singer dell’Università di Princeton, “violazioni diffuse dei diritti umani, causate o tollerate da un governo nazionale, possono dare origine a ciò che a volte viene chiamato un diritto rimediale alla secessione per gli abitanti di una regione”. In questi casi, che includono la separazione del Bangladesh dal Pakistan nel 1971 o la dichiarazione di indipendenza da parte della Serbia del Kosovo con l’appoggio della NATO nel 2008, “la secessione potrebbe essere giustificata come ultima risorsa, anche se impone grossi costi sullo stato di cedimento”.

    Quando invece non vi sia alcuna prova che una minoranza culturale o etnica sia oppressa, la secessione può avvenire solo attraverso un accordo negoziato, consensuale e legale tra la popolazione in partenza e lo stato che stanno lasciando. Nel minuscolo Liechtenstein, la costituzione effettivamente consente ai singoli comuni di separarsi dall’unione. E nel 2014, osserva lo storico Robert Skidelsky, “il primo ministro britannico David Cameron è stato costretto a consentire un referendum sull’indipendenza” in Scozia, in modo da “mantenere la governabilità” nella regione a seguito della vittoria parlamentare del Partito nazionale scozzese nel 2011.

    Tuttavia, queste sono eccezioni. La stragrande maggioranza delle costituzioni nazionali non consente la secessione. Nel 1998, ad esempio, la Corte Suprema del Canada ha dichiarato che il governo canadese sarebbe obbligato a negoziare con il Québec se gli elettori della provincia esprimessero un desiderio inequivocabile per l’indipendenza attraverso un referendum; ma ha anche stabilito che il Québec non ha il diritto di separarsi in modo unilaterale. E in alcuni paesi, tra cui la Turchia e la Spagna, il principio dell’integrità territoriale è esplicitamente sancito nella costituzione.

    Come tale, osserva l’ex ministro degli esteri spagnolo Ana Palacio, “un referendum sulla secessione” in Spagna “non può procedere legalmente senza compromettere l’ordine costituzionale che il paese ha costruito negli ultimi 40 anni, dalla morte del dittatore Francisco Franco nel 1975. “E inoltre, Palacio sottolinea che la Costituzione spagnola mira a” proteggere i diritti umani, la cultura, le tradizioni, le lingue e le istituzioni dei “popoli spagnoli”. “A causa di questo impegno costituzionale, ora c’è” un complesso di diritto che concede un’autonomia regionale, in particolare per la Catalogna, con importanti poteri trasferiti al governo regionale catalano “.

    Decidere chi decide
    Il referendum per l’indipendenza catalana del primo ottobre non era solo incostituzionale; era anche apertamente antidemocratico. Il governo regionale catalano ha adottato una “legge di disconnessione” senza consentire una corretta discussione sulle implicazioni dell’indipendenza. Peggio ancora, non ha neanche fissato una soglia minima per la partecipazione al referendum. Il risultato è stato de facto una dittatura della minoranza. “Solo il 43% della popolazione catalana ha votato al referendum”, osserva Shlomo Ben-Ami del Toledo International Center for Peace. Il fatto che “anche il sindaco di Barcellona, Ada Colau, sostenitore di stato, ha messo in discussione come fondamento per un piano unilaterale dichiarazione di indipendenza.”

    La situazione catalana – dove il presidente del governo regionale, Carles Puigdemont, ha dichiarato e sospeso l’indipendenza – sottolinea un paradosso centrale dell’autodeterminazione. Anche un voto non democratico e incostituzionale può avere implicazioni politiche enormi se i protagonisti lo dipingono come un’espressione della “volontà popolare”.

    Tuttavia, come osserva Singer, mentre un referendum è in realtà “una forma di persuasione rivolta al governo dello stato esistente”, può avere un effetto persuasivo solo con una “grande partecipazione che mostra una netta maggioranza per l’indipendenza”. Di conseguenza, nessuno può aspettarsi che la Spagna permetta alla Catalogna di staccarsi. Secondo Ben-Ami, “è ormai molto probabile che il governo centrale invochi l’articolo 155 della Costituzione spagnola, che gli permette di prendere il controllo diretto della Catalogna”.

    Anche se una super-maggioranza dei catalani avesse votato per la secessione, una questione fondamentale sarebbe rimasta. Come Nye si domanda: “chi ha il diritto di autodeterminarsi?” La risposta dipende da dove e anche quando le persone si determino. Negli anni ’60, quando i “somali nel Kenia nord-orientale” cercavano l’indipendenza, “volevano votare immediatamente”, mentre il Kenya, “ che per effetto del periodo coloniale era formato da decine di popoli o tribù”, avrebbe voluto “aspettare 40 o 50 anni per cercare di formare un’identità keniana a discapito delle vecchie etnie locali”.

    “Un altro problema”, secondo Nye, “è come tenere in considerazione gli interessi di coloro che rimangono indietro”. Si consideri l’esempio di Scozia ricca di petrolio, il cui distacco avrebbe causato notevoli danni economici al resto del Regno Unito. È ragionevole che tutti i britannici, e non solo gli scozzesi, debbano esprimere la propria opinione sull’indipendenza scozzese. E Singer ci ricorda che proprio questo è accaduto “quando i popoli della Nigeria orientale hanno deciso di separarsi e formare lo stato di Biafra negli anni ’60.” Considerando che “il Biafra inglobava gran parte del petrolio della Nigeria,” altri nigeriani “sostenevano che l’oro nero appartenesse a tutte le persone della Nigeria, non solo nell’area orientale “.

    Valutando la fattibilità
    Per essere legittima, una secessione deve tanto identificare il gruppo che sia autorizzato a fare una simile richiesta e rispettare il dettato costituzionale e le norme internazionali quanto preservare “la vitalità dello stato da cui si stacca e la sicurezza degli stati limitrofi”, scrive Haass.

    Per Volker Perthes del German Institute for International and Security Affairs, la sicurezza degli stati confinanti è una preoccupazione particolarmente rilevante nella questione dell’indipendenza dei curdi iracheni. “L’indipendenza curda potrebbe incoraggiare le richieste di autonomia nelle province a maggioranza sunnita che confinano con Siria, Giordania e Arabia Saudita”, scrive. E “rimuovendo il terzo elemento costitutivo – oltre agli arabi sciiti e sunniti – della politica irachena”, potrebbe aggravare la pericolosa “polarizzazione settaria” di quel paese.

    Ma altri respingono tali valutazioni aprioristiche della situazione kurda. Il filosofo francese Bernard-Henri Lévy ritiene che uno “stato-curdo rappresenterebbe una” città brillante su una collina “, una luminosa stella polare per i figli e le figlie persi del Kurdistan, e una fonte di speranza per tutti gli sfollati del mondo .”Allo stesso modo, Ben-Ami afferma che uno Stato kurdo non avrebbe solo” una reale possibilità di prosperare “, ma potrebbe anche” combinare la ricchezza delle risorse naturali con una tradizione di governance stabile e pragmatica, creando così una democrazia sostenibile “in una regione altamente volatile.

    Infatti, per Haass, la vitalità economica e politica dovrebbe essere un altro requisito preliminare per la secessione, in quanto il mondo ha già abbastanza stati falliti che destabilizzano le regioni circostanti. Nel 2011, il Sud Sudan era moralmente giustificato ad ottenere il proprio stato dopo decenni di oppressione.

    Ma le sue istituzioni politiche ed economiche erano così fragili che dopo neanche tre anni il paese era piombato in una sanguinosa guerra civile. Il conflitto nel Sud Sudan ha generato più di due milioni di rifugiati, frustrando le aspettative di Charles Tannock, membro del Parlamento europeo: “Un Sud Sudan indipendente obbligherebbe l’Occidente a fronteggiare le ortodossie relative all’Africa”. In particolare, l’esperienza del Sud Sudan tende a confermare “la convinzione che paesi come la Somalia e la Nigeria siano più stabili di quanto non sarebbero se fossero divisi in tante parti”.

    L’importanza del riconoscimento internazionale
    La sfera economica e politica di un paese dipende dal fatto che la sua indipendenza sia riconosciuta a livello internazionale. Gli Stati non riconosciuti, senza peso nel processo decisionale globale e incapaci di accedere ai mercati internazionali, tendono a collassare. Ecco perché, dieci anni fa, l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fisher temeva che il mancato accesso del Kosovo ai prestiti sovrani della Banca mondiale o del Fondo Monetario Internazionale avrebbe potuto causare problemi, non solo per il Kosovo ma anche per l’UE, con la quale “il destino del Kosovo è intrecciata”.

    Ma la comunità internazionale è sempre meno propensa ad accettare nuovi membri. Dato che meno di un decimo dei paesi del mondo sono culturalmente omogenei, una secessione sancita a livello internazionale potrebbe incoraggiare i secessionisti di tutto il mondo. Come ha affermato Raju Thomas dell’Università Marquette nel 2007, “permettere al Kosovo di ottenere l’indipendenza dimostrerebbe che il secessionismo violento funziona”. In questo caso, ha concluso, “il mondo dovrebbe abituarsi a vedere la strategia del Kosovo applicata altrove “.

    In questo senso, Palacio esorta i leader mondiali e soprattutto europei a “resistere alle invocazioni dei separatisti catalani per la mediazione internazionale”. Chiede di non iniziare nessuna forma di dialogo che convalidi l’elusione da parte del governo catalano della costituzione spagnola. “Niente di meno che il futuro dello Stato di diritto e della democrazia costituzionale in Spagna – e altrove – dipende da essa”, insiste. Dopo tutto, in un continente con 250 regioni definite da identità culturali, etniche o storiche, una indipendenza in Catalogna potrebbe scatenare un effetto domino, creando un’Europa dei mini-stati dove il processo decisionale sarebbe ancora più difficile di quanto già non sia.

    Naturalmente, la questione del riconoscimento diplomatico dei secessionisti ha più a che fare con meri calcoli di interesse nazionale piuttosto che con il rispetto di principi morali o legali. Quindi non sorprende che altri leader europei, preoccupati per i propri movimenti secessionisti, abbiano considerato la crisi catalana un problema di carattere squisitamente interno per la Spagna. Allo stesso modo, qualora il referendum scozzese del 2014 fosse passato, gli scozzesi (che sono storicamente sostenitori del progetto europeo) si sarebbero trovati al di fuori dell’Unione Europea, perché la Spagna avrebbe imposto il suo veto sull’adesione di Edimburgo, al fine di dissuadere la Catalogna dal provarci a sua volta.

    Anche nel caso dei curdi che chiaramente hanno diritto a uno stato, l’istinto di molti governi è quello di osteggiare il movimento indipendentista. Sotto il presidente americano Donald Trump, osserva Ben-Ami, gli Stati Uniti si sono opposti al referendum per l’indipendenza kurda sulla base del fatto che “avrebbe destabilizzato l’Iraq” e supportato “ i ribelli anti-governativi della Siria”. Allo stesso tempo, però, Trump ha anche dimostrato di essere disposto ad accettare l’annessione della Crimea da parte della Russia nel marzo 2014, anche se a dire di Jeffrey D. Sachs della Columbia University costituisce “una grave e pericolosa violazione del diritto internazionale”.

    Le cause del secessionismo
    Spinte verso la frammentazione politica in tutto il mondo stanno avvenendo per ragioni diverse. In Medio Oriente e in Africa, il secessionismo è guidato da lotte contro l’oppressione autocratica, e da appelli alle identità locali. Nelle ex repubbliche dell’Unione Sovietica, i movimenti di autodeterminazione sono in gran parte una manifestazione della politica delle grandi potenze, con un revanscista Cremlino che incoraggia l’irredentismo in Crimea, Abkhazia, Donetsk e Ossezia del Sud e minacciando di farlo altrove. E nell’Europa occidentale, i movimenti regionali per la secessione sono crollati in gran parte in risposta alle forze economiche strutturali e cicliche.

    In Europa occidentale, regioni ricche come la Catalogna e le Fiandre sono impazienti di sovvenzionare le regioni più povere; e il loro risentimento è cresciuto dopo la crisi finanziaria globale del 2008. Scrivendo nel 2008, Ian Buruma, ora redattore della New York Review of Books, ha avvertito che il Belgio stava quasi collassando, a causa di un rinvigorimento etnico che “l’unità europea del dopoguerra avrebbe dovuto contenere. “I belgi francofoni hanno avviato la Rivoluzione Industriale Europea nel diciannovesimo secolo “, osserva. Ma “ora vivono un senso di rancore che necessita di sovvenzioni federali, una notevole quantità che deriva dalle tasse pagate dai fiamminghi più floridi e tecnologici”.

    Skidelsky ritiene che anche il referendum scozzese sia stato spinto dalla crisi finanziaria e dalla conseguente Grande Recessione, che ha aiutato la SNP ad ottenere la maggioranza parlamentare. Ma non bisogna pensare che i secessionisti europei siano motivati solo da fattori economici. Forze strutturali come la globalizzazione e il processo di integrazione europea hanno svolto un ruolo importante. Secondo Buruma, l’UE, promuovendo attivamente “gli interessi regionali, ha indebolito l’autorità dei governi nazionali”.

    Alberto Alesina dell’Università di Harvard ha sostenuto una simile idea quasi 20 anni fa: una forte integrazione economica, attraverso la rimozione delle barriere commerciali, riduce i costi di indipendenza e pregiudica la logica per le grandi giurisdizioni che compongono popolazioni eterogenee. “Con il libero commercio internazionale”, secondo Alesina, “i gruppi etnici, linguistici e religiosi possono trovare più conveniente separarsi se non devono sopportare i costi di trovarsi all’interno di un’economia e un mercato troppo piccolo. ”

    All’inizio di quest’anno, in un articolo per Foreign Affairs, ho sottolineato che i catalani e gli scozzesi capiscono perfettamente questa logica. Entrambi vogliono rimaner parte del mercato unico europeo e allo stesso tempo vogliono allontanarsi dal controllo centralizzato dei rispettivi governi nazionali. Inutile dire che questo è l’opposto di ciò che i fondatori dell’UE pensassero. Credevano che l’integrazione europea avrebbe diluito la sovranità nazionale dall’alto. Non prevedevano una minaccia dal basso per i vecchi stati nazionali. Oggi, i leader europei sono davanti a un dilemma: più spingono per l’integrazione politica ed economica, più rinvigoriscono il secessionismo regionale.

    Cosa attendersi
    Con le forze globali e locali che continuano a guidare il micro-nazionalismo, è probabile che nel prossimo futuro qualche regione diventi indipendente – in modo pacifico o violento. Un Kurdistan sovrano, in particolare, non è più un’idea irrealistica e potrebbe porre la parola fine all’ordine artificiale Sykes-Picot che gli inglesi e i francesi crearono dopo il crollo dell’Impero Ottomano.

    Ma, a differenza dell’era post-coloniale, gli stati di nuova costituzione faticherebbero a trovare sostegno internazionale. Al contrario, la maggioranza dei governi utilizzerebbe tutti i mezzi a propria disposizione, dal boicottaggio economico alla forza militare, per preservare l’unità nazionale. I regimi autoritari hanno la tendenza a reprimere con la forza i gruppi secessionisti, come sta accadendo in Camerun con Ambazonia e in Nigeria con il Biafra. Le democrazie ben consolidate, invece, ricorrono ai dettami costituzionali per prevenire la disintegrazione territoriale, come avviene ora in Catalogna.

    Tuttavia, la repressione dei gruppi separatisti dovrebbe essere l’ultima soluzione, soprattutto per i governi occidentali. Idealmente, i governi devono intervenire molto prima che gli elettori diventino radicalizzati. Si possono addolcire le istanze secessioniste attraverso trasferimenti finanziari, tasse speciali accordi o poteri devoluti. Come osserva Barry Eichengreen dell’Università della California, Berkeley, è importante, però, che i governi centrali mantengano il controllo della politica fiscale e monetaria, oltre alla supervisione della difesa e della politica estera.

    Quando le ambizioni separatiste sono ben radicate come in Catalogna, nelle Fiandre o in Scozia, i governi centrali dovrebbero considerare la rinegoziazione dei termini del rapporto, concedendo una maggiore autonomia. Ancora, Victor Lapuente Giné dell’Università di Göteborg ricorda che entrambi le parti della disputa spagnola si trovano ad affrontare “quello che gli scienziati politici chiamano un dilemma sociale: entrambi beneficiano dal comportamento egoistico a meno che l’altro lato si comporti a sua volta in modo egoistico, nel qual caso entrambi perdono. “Dopo tutto, un divorzio sarebbe costoso sia per la Catalogna e per la Spagna.

    Più in generale, l’ex ministro greco delle finanze pubbliche Yanis Varoufakis invita l’UE a “sviluppare un nuovo tipo di sovranità, che rafforzi le città e le regioni, dissolva il particolarismo nazionale e rispetti le norme democratiche”. Per Varoufakis, la “brutta crisi” catalana dovrebbe essere considerata “un’occasione d’oro per riconfigurare la governance democratica delle istituzioni regionali, nazionali e europee, portando così all’emergere di un’Unione Europea difendibile e quindi sostenibile”.

    In un modo o nell’altro, l’autodeterminazione dei popoli giocherà un ruolo importante nella storia del ventunesimo secolo, proprio come in quello precedente. Per garantire che non diventi nuovamente una fonte di instabilità e distruzione, i governi devono cercare di attenuarlo in anticipo. Possono pagare adesso, oppure possono pagare un prezzo ben più elevato in futuro.

    Edoardo Campanella

  • La Madre

    Primo Levi

    PRIMO LEVI: “…E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi, ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire. Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare?”

  • I vecchi

    I vecchi

    Senti quella pelle ruvida
    Un gran freddo dentro l’anima
    Fa fatica anche una lacrima
    A scendere giù
    Troppe attese dietro l’angolo
    Gioie che non ti appartengono
    Questo tempo inconciliabile gioca contro di te

    Ecco come si finisce poi
    Inchiodati a una finestra noi
    Spettatori malinconici
    Di felicità impossibili
    Tanti viaggi rimandati e giù
    Valigie vuote da un’eternità
    Quel dolore che non sai cos’è
    Solo lui non ti abbandonerà, mai
    Oh mai

    È un rifugio quel malessere
    Troppa fretta in quel tuo crescere
    Non si fanno più miracoli
    Adesso non più

    Non dar retta a quelle bambole
    Non toccare quelle pillole
    Quella suora ha un bel carattere
    Ci sa fare con le anime

    Ti darei gli occhi miei per vedere ciò che non vedi
    L’energia, l’allegria per strapparti ancora sorrisi
    Dirti sì, sempre sì e riuscire a farti volare
    Dove vuoi, dove sai senza più quel peso sul cuore
    Nasconderti le nuove, quell’inverno che ti fa male
    Curarti le ferite e poi qualche dente in più per mangiare
    E poi vederti ridere e poi vederti correre ancora
    Dimentica, c’è chi dimentica
    Distrattamente un fiore una domenica
    E poi silenzi
    E poi silenzi
    Silenzi

    Nei giardini che nessuno sa
    Si respira l’inutilità
    C’è rispetto, grande pulizia
    È quasi follia
    Non sai com’è bello stringerti
    Ritrovarsi qui a difenderti
    E vestirti e pettinarti, sì
    E sussurrarti non arrenderti
    Nei giardini che nessuno sa
    Quanta vita si trascina qua
    Solo acciacchi, piccole anemie
    Siamo niente senza fantasie

    Sorreggili, aiutali, ti prego non lasciarli cadere
    Esili, fragili non negargli un po’ del tuo amore
    Stelle che ora tacciono, ma daranno un senso al quel cielo
    Gli uomini non brillano se non sono stelle anche loro

    Mani che ora tremano perché il vento soffia più forte
    Non lasciarli adesso no, che non li sorprenda la morte
    Siamo noi gli inabili che pur avendo a volte non diamo
    Dimentica, c’è chi dimentica
    Distrattamente un fiore una domenica
    E poi silenzi
    E poi silenzi
    Silenzi

  • Perché non basta essere esperti per essere considerati affidabili?

    Perché non basta essere esperti per essere considerati affidabili?

    SCIENZEANTONIO SGOBBA / IMMAGINE DA FACEBOOK: CARTELLO DI UNA MANIFESTAZIONE NO-VAX, IL 20 GIUGNO 2020 A FIRENZE. 11.9.2020

    Perché non basta essere esperti per essere considerati affidabili?

    Una riflessione filosofica sulla sfiducia nella scienza.

    Antonio Sgobba è giornalista. Il suo ultimo libro è “La società della fiducia. Da Platone a WhatsApp” edito da Il Saggiatore. È stato il responsabile della sezione culturale di IL, ha collaborato con La lettura, Wired, Pagina 99 e altre testate. Dal 2016 lavora in Rai.

    Da più parti si ripete che in questo momento abbiamo un diffuso problema di fiducia; si parla in particolare di mancanza di fiducia negli esperti. Non è una novità, la fiducia è sempre stata fragile; è in crisi più o meno da quando esiste. La diffidenza nei confronti degli esperti è antica come la democrazia, e in fondo non c’è mai stata un’età dell’oro in cui i competenti regnassero incontrastati e amati dal popolo. Come in tutte le relazioni ci sono stati alti e bassi, questo è sicuramente uno dei momenti bassi, né il primo né l’ultimo della sua storia. Quello che dovrebbero chiedersi gli esperti non è come riscostruire la fiducia distrutta ma come ritrovare l’affidabilità perduta.

    (…)

    “Vorrei proporre alla benevola considerazione del lettore una teoria che potrà forse sembrare paradossale e sovversiva”. Cominciava con queste parole il saggio di Bertrand Russell Sul valore dello scetticismo, scritto nel 1928, e poi raccolto nei suoi Saggi scettici. “La teoria è questa”, continua Russell, “che sarebbe opportuno non prestar fede a una proposizione fino a quando non ci sia un fondato motivo per supporla vera”. Bisogna riconoscere che è una bella idea, un’espressione moderata ma impegnativa di scetticismo; il mondo sarebbe davvero migliore se tutti facessimo così. “Se questa opinione divenisse comune, ne risulterebbero completamente trasformati la nostra vita sociale e il nostro sistema politico” riconosceva Russell.

    Questa teoria ci può guidare anche quando ci troviamo nella situazione in cui dobbiamo giudicare degli esperti in disaccordo tra loro. Il filosofo inglese scrive proprio che lo scetticismo che lui auspica si riduce a queste tre proposizioni:

    1) che quando gli esperti concordino nell’affermare una cosa, l’opinione opposta non può più essere ritenuta certa;

    2) che quando essi non sono d’accordo, nessuna opzione può essere considerata certa dai non esperti;

    3) che quando concordemente gli esperti affermano che non esiste alcun motivo sufficiente per un’opinione positiva, l’uomo comune farebbe bene a sospendere il suo giudizio.

    Tutto qui. “Queste proposizioni sembrano forse semplicissime: eppure una volta accettate, rivoluzionerebbero completamente la vita umana”, scriveva Russell.

    Quasi un secolo dopo possiamo dire che la rivoluzione scettica non è mai arrivata. L’autore era consapevole delle difficoltà, sapeva che “le opinioni sostenute con passione sono sempre quelle per le quali non esiste alcuna buona giustificazione”. Una frase forse troppo assoluta per uno scettico – sempre? –, ma se guardiamo ai dibattiti pubblici con cui abbiamo a che fare è un’affermazione vera in molti casi.

    Le proposizioni di Russell si basavano su un’assunzione implicita: gli esperti sono autorità epistemiche. È proprio questa l’idea che oggi ci sembra più in discussione. I filosofi la definiscono così:

    L’autorità epistemica è la capacità dell’esperto di influire su altri individui “imponendo” loro l’adozione di una credenza sulla base della superiorità epistemica.

    C’è qui una differenza fondamentale rispetto a un altro tipo di autorità, la cosiddetta “autorità pratica”, quella in grado di imporre l’esecuzione di un’azione; sul piano epistemico le cose stanno diversamente, non si può imporre a qualcun altro di credere qualcosa. Lo fa notare il filosofo Michel Croce in un saggio del 2020 (Di chi posso fidarmi, Il Mulino): “In generale, il termine ‘autorità epistemica’ non gode di buona fama, per via del valore che attribuiamo all’ideale dell’autonomia del soggetto epistemico, che apparentemente è in contrasto con la nozione e il ruolo dell’autorità epistemica”.

    Quello che è difficile da accettare è l’idea stessa che esistano individui autorizzati a dirci cosa credere. Per questo i filosofi considerano l’“autorità epistemica” esclusivamente la proprietà tipica di quanti sono esperti in un determinato ambito. Questa posizione è tacitamente presente anche in gran parte del dibattito pubblico.

    Può essere invece utile, per fare un passo avanti nel dibattito, distinguere i due concetti. Pensare a un’autorità epistemica come qualcosa di diverso da un esperto. Non è così astratto come sembra. Dobbiamo la distinzione alla filosofa americana Linda Zagzebski. Un criterio per distinguere esperti e autorità epistemiche sta nel classificare i soggetti in base al ruolo che svolgono all’interno della comunità e sono tre gli aspetti rilevanti: l’affidabilità dei soggetti epistemici, la loro relazione con i rispettivi interlocutori, le loro abilità intellettuali. Entrambi i soggetti, l’esperto e l’autorità epistemica, sono affidabili, diverso invece è il rapporto con gli interlocutori inesperti: “La nozione di esperto richiede che il soggetto sia epistemicamente superiore alla maggioranza degli individui di un determinato ambito, mentre la nozione di autorità epistemica richiede semplicemente che questi sia superiore all’interlocutore”; l’esperto può quindi avere una migliore comprensione del settore in questione, mentre l’autorità epistemica è in una relazione personale migliore con il soggetto che ne sa di meno.

    La gente non separa la scienza dalle sue implicazioni morali, chi non crede al cambiamento climatico non lo fa perché contesta l’evidenza, ma perché quelle tesi sono in conflitto con i propri valori.

    L’elemento della relazione con l’interlocutore è un requisito necessario per l’autorità epistemica, non lo è per l’esperto: un esperto può essere in grado di contribuire al progresso della sua disciplina indipendentemente dalle relazioni che intrattiene con particolari interlocutori. Un’autorità epistemica e un esperto hanno anche diverse virtù intellettuali: le conoscenze dell’autorità si rivolgono a chi non è un addetto ai lavori, le qualità dell’esperto sono invece orientate alla ricerca.

    Gli scienziati, quindi, per essere creduti devono fare un passo in più, devono ricordarsi chi sono. La ricerca scientifica è sinonimo di patto, comunità, consenso, ma spesso gli scienziati si limitano a riaffermare la loro neutralità, a insistere sul fatto che la scienza non ha un colore politico, sociale, economico o morale, dicendo cose come: “Alla forza di gravità non importa che tu sia di destra o di sinistra”, “Le piogge acide cadono sui ricchi e sui poveri”, “Le emissioni radioattive ti colpiscono sia prima sia dopo le elezioni”.

    Tutto vero, ma non basta. Non è solo su queste basi che possiamo fidarci di loro: che sia corretto o no, l’opinione pubblica mette in relazione la scienza con le sue implicazioni; una distinzione netta tra fatti e valori non funziona. La gente non separa la scienza dalle sue implicazioni morali, chi non crede al cambiamento climatico non lo fa perché contesta l’evidenza, ma perché quelle tesi sono in conflitto con i propri valori, politici o religiosi, o con i propri interessi economici, il proprio stile di vita.

    Gli scienziati di solito considerano queste critiche fallaci: ad hominem, quindi illegittime. “Ma se prendiamo sul serio la conclusione che la scienza è un processo sociale consensuale, allora chi sono gli scienziati è una questione rilevante” ricorda Naomi Oreskes nel suo ultimo saggio, Why Trust Science? Una delle tesi fondamentali del lavoro dell’autrice americana, biologa di formazione, è che l’idea della scienza come un’attività neutrale, priva di valori, sia un mito: dobbiamo ricordare che l’utilità, economica o di altro tipo, è stata a lungo una giustificazione per sostenere la scienza, dal punto di vista finanziario e culturale. La scienza non è un’impresa neutrale e non lo sono gli scienziati come individui. “Nessuno può essere davvero neutrale, quando gli scienziati dicono di esserlo, dicono il falso perché affermano l’impossibile. A meno che non li si voglia considerare ingenui o degli idiot savants, dovremmo considerarli disonesti” scrive Oreskes.

    I valori di molti scienziati possono (o dovrebbero) essere condivisibili da un grande pubblico. Per gli scienziati la riconquista della fiducia passa dal superamento del mito dell’oggettività.

    Onestà, apertura, trasparenza sono valori propri della ricerca scientifica. “Come possono gli scienziati essere onesti e allo stesso tempo negare di avere dei valori?” si chiede. La riluttanza degli scienziati a discutere dei propri valori potrebbe dare l’impressione che quei valori siano problematici e che quindi debbano essere nascosti, oppure che non ci sia nessun valore in cui credono. Voi vi fidereste di una persona che non ha valori? Credereste a una persona che non crede in niente? Direi proprio di no, avremmo a che fare con un sociopatico. Se invece credessimo che quella persona condivide almeno qualcuno dei tuoi valori, non per forza tutti, potremmo essere più disposti a starla a sentire. La neutralità rispetto ai valori può essere difesa da un punto di vista epistemologico, ma nella pratica non funziona: senza valori non c’è comunicazione e non si possono costruire legami di fiducia.

    Invece è successo il contrario. I valori di molti scienziati possono (o dovrebbero) essere condivisibili da un grande pubblico. Anche per gli scienziati, come per i giornalisti, la riconquista della fiducia passa dal superamento del mito dell’oggettività. “Anche se siamo in disaccordo” conclude Oreskes “su molte questioni politiche, i nostri valori possono coincidere, almeno in parte. Chiarire i punti su cui possiamo essere d’accordo, e spiegare in che modo sono legati al lavoro scientifico, può aiutarci a superare la sfiducia che spesso sembra prevalere”.

    Estratto da La società della fiducia. Da Platone a WhatsApp, di Antonio Sgobba (il Saggiatore).

  • “VOLEVO SUCCHIARE TUTTO IL MIDOLLO DELLA VITA” – L’EREMITAGGIO DI HENRY DAVID THOREAU

    “VOLEVO SUCCHIARE TUTTO IL MIDOLLO DELLA VITA” – L’EREMITAGGIO DI HENRY DAVID THOREAU

    Mirella Serri per “La Stampa”

    HENRY DAVID THOREAU 8

    «Per la prima estate non lessi libri ma mi dedicai intensamente a coltivare i miei fagioli». Rinunciare ai libri? Com’ era possibile per uno studioso del

    henry david thoreau 8

    calibro di Henry David Thoreau, uno dei più brillanti e conosciuti allievi di Harvard? Thoreau, che vide la luce un anno prima di Karl Marx, a dieci anni, nel 1827, scrisse la sua prima poesia, The Seasons.

    A dodici parlava latino, greco, francese, italiano, tedesco e in parte pure lo spagnolo. Nel 1833 entrò con una borsa di studio all’Harvard College per studiare retorica, religione, filosofia e scienze. Sette anni più tardi produsse un saggio epico in latino, acclamato dall’Accademia: Aulus Persius Flaccus.

    HENRY DAVID THOREAU 4

    henry david thoreau 4

    E un poema: Sympathy. Poi però, a 28 anni, il filosofo di Concord si rifugiò nei boschi per mettere in pratica i suoi rigorosi principi di full immersion nell’ambiente naturale e pose in un cantuccio i testi di greco e latino, la compagnia prediletta di tante serate. Non rinunciò però solo alla cultura. Amava le passeggiate in abiti eleganti sul corso di Concord, le allegre compagnie degli amici goliardi, le feste negli alberghi di lusso che stavano spuntando come funghi nella cittadina del Massachussets.

    La prima rivoluzione industriale era in corso e suo padre aveva aperto a Concord una fabbrica di matite. Henry David si dedicò anche a questo opificio di famiglia con tanta passione e ne incentivò la produzione mettendo a punto un nuovo tipo di mina per i lapis. Eppure nel 1845 fece a meno di tutto questo e decise di vivere una seconda vita che nulla aveva in comune con la prima. La scelta fu netta e drastica e Thoreau, che era stato anche un eccellente uomo di azienda, divenne nella sua nuova esistenza il profeta dell’anticapitalismo e dell’ambientalismo più radicale. Si fece prestare un’ascia. Fece diventare cenere i panni della prima vita.

    HENRY DAVID THOREAU 5

    henry david thoreau 5

    Si vestì di stracci, si fece regalare delle assi usate e dei chiodi già adoperati che raddrizzò uno a uno, abbatté dei pini, rinunciò a mangiare carne, a parte, saltuariamente, quella di marmotta, si cibò di portulaca oleracea, di polenta di granoturco e di fagioli e si costruì una capanna sulle rive del lago Walden. L’adozione di questa seconda pelle fu gravida di incredibili conseguenze per la sua storia personale ma anche e soprattutto più in generale per il corso della Storia con la maiuscola.

    HENRY DAVID THOREAU 9

    henry david thoreau 9

    «Lavoravo su un bel fianco di collina coperto di boschi di pini attraverso i quali potevo scorgere il lago dove il ghiaccio non s’ era ancora disciolto – raccontava -. Erano bei giorni di primavera, nei quali “l’inverno dell’umano scontento” si sgelava come la terra, e la vita incominciava a risvegliarsi».

    Cosa lo condusse a questa trasformazione? Allievo del filosofo trascendentalista Ralph Waldo Emerson, Thoreau intuì che con il primo capitalismo industriale e con l’esplosione di insediamenti urbani, con la costruzione di ponti, strade e fabbriche (visse per un anno anche a New York), fioriva un nuovo stile di vita orientato dal desiderio di frenetici guadagni.

    Che avevano come corollario la divisione del lavoro, lo spreco delle risorse naturali, il consumismo incontrollato e l’accumulazione fine a se stessa. «Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita (…) per non scoprire in punto di morte che non ero vissuto. (…) Volevo vivere profondamente e succhiare tutto il midollo della vita» (questa frase di Thoreau è stata ripresa ne L’attimo fuggente, il celebre film del 1989 con Robin Williams).

    HENRY DAVID THOREAU 7

    Ma l’atteggiamento rigorista che lo guidava nelle sue inedite opzioni ebbe anche altre conseguenze: l’eremita fu raggiunto da un’ingiunzione di pagamento di imposte arretrate nella sua casetta sulle rive del lago – a cui dedicherà, dopo averlo riscritto varie volte, il saggio Walden ovvero Vita nei boschi. Thoreau non accettò di versare i quattrini al governo del presidente James K. Polk che disprezzava in quanto fautore della schiavitù e di una politica espansionistica (stava iniziando la guerra messicano-americana al cui termine gli Stati Uniti ottennero il controllo di Texas, California, Nevada, Utah e di parti del Colorado, dell’Arizona, del Nuovo Messico e del Wyoming).

    HENRY DAVID THOREAU 2

    I

    henry david thoreau 2

    mprigionato, Thoreau fu scarcerato dopo un giorno per l’intervento di una zia che gli pagò, nonostante la sua opposizione, gli arretrati. Ma da questa esperienza nacque un celebre pamphlet, Disobbedienza civile, che gli diede una fama incredibile: fu il pensiero di riferimento per Tolstoj, Gandhi, Proust e Martin Luther King. Una settimana sui fiumi Concord e Merrimack, resoconto di un’escursione nelle White Mountains fatta con il fratello John nel 1839, fece di lui l’idolo della Beat Generation e di Jack Kerouac a cui ispirò Sulla strada.

    HENRY DAVID THOREAU 6

    Quando decise di ritornare a vivere nella civiltà, cominciò a viaggiare e divenne uno degli attivisti più convinti dell’abolizione della schiavitù, aiutò molti lavoratori delle piantagioni di cotone provenienti dall’Africa a fuggire in Canada e fu un sostenitore dei diritti dei nativi americani.

    I saggi e gli articoli della sua seconda vita, dopo la sua scomparsa, divennero la Bibbia di chi lottava per l’istituzione delle riserve naturali, dai boschi del Maine alla penisola di Cape Cod alle foreste dello Yosemite: il presidente Theodore Roosevelt fu un seguace di Thoreau come pure John Kennedy. Al pensatore ecologista fece riferimento lo scrittore Jon Krakauer che Nelle terre estreme (il libro è stato adattato a film da Sean Penn, Into the Wild – Nelle terre selvagge) pubblicò la storia di Christopher McCandless, giovanissimo viaggiatore che si lasciò morire di fame in nome di un rinnovato rapporto con l’ambiente.

    HENRY DAVID THOREAU 3

    henry david thoreau 3

    Critico accanito di Thoreau è invece il presidente Donald Trump che detesta la sua predicazione, le riserve e vuole riorganizzare le aeree protette degli States in zone di caccia. Oggi le profetiche parole di Thoreau sulla necessità della tutela della «natura selvaggia» vengono continuamente evocate da chi considera la pandemia come una conseguenza della distruzione degli equilibri naturali. La seconda vita di Thoreau non rappresentò dunque solo uno sconvolgimento intimo e personale del filosofo ma fu lo sprigionarsi di un vento forte che ha cambiato il corso della storia.

  • Umberto Eco – Come dire parolacce in società

    Brani scelti: UMBERTO ECO, La bustina di minerva 2000

    Vedo nel nuovo romanzo di Kurt Vonnegut (Hocus pocus, Bompiani) che il protagonista decide di non usare parolacce e si limita a espressioni che (nella traduzione di Pier Francesco Paolini) suonano come: “che pezzo di escremento!”, “che testa di pene!”, “siamo in una bella casa di tolleranza!” L’invito giunge opportuno in un momento in cui i giornali registrano, da parte degli uomini politici, insulti da carrettiere, e sui teleschermi si affacciano signori distinti che si appellano a vicenda con riferimenti espliciti a parti del corpo solitamente coperte da biancheria detta, appunto, intima.

    È vero che in questa stessa rubrica io avevo tempo fa rivendicato il diritto di usare la parola stronzo in certe occasioni in cui occorre esprimere il massimo sdegno. Ma l’utilità della parolaccia è appunto data dalla sua eccezionalità. Usare parolacce troppo sovente sarebbe come riscrivere l’intero Signor Bruschino facendo battere soltanto gli archetti contro i leggii, mentre gli altri strumenti tacciono. Mussolini, in un momento tragico della storia d’Italia, disse in parlamento che avrebbe potuto fare di quell’aula sorda e grigia un bivacco per i suoi manipoli, e la frase suonò drammaticamente minacciosa. Se avesse detto (e tale era il senso della sua dichiarazione) “brutte facce di merda, avrei potuto mettervela in culo come niente,” o l’avrebbero trattato come un buffo, o si sarebbero accorti che il condizionale era fuori luogo, perché l’evento si era già verificato.

    Si è perduta quell’arte dell’ingiuria celebrata da Borges (“Signore, vostra moglie, col pretesto di tenere un bordello, vende stoffe di contrabbando!”), e pazienza. Ma almeno si dovrebbe ritrovare un’arte della perifrasi. Ed ecco perché, a uso dei protagonisti della politica e dello spettacolo, seguono alcune espressioni indubbiamente eleganti e forbite, sotto il velame della cui elaborata stranezza gli esperti potranno riconoscere l’espressione originaria, ben più volgare e consueta, che esse celano, senza peraltro eliminarne la forza perlocutoria.

    “Taccia, Lei, il cui viso avrebbe potuto essere definito da un noto maresciallo dell’Impero nelle ultime ore della battaglia di Waterloo!” “Ella ha una scatola cranica che più che alla speculazione sarebbe atta alla riproduzione.” “La invito a recarsi là dove potrebbe opportunamente qualificarsi come partner passivo di un rapporto tra maschi adulti consenzienti!” “La smetta, o segmento fusiforme del prodotto finale di un complesso processo metabolico!” “Il tale, nel suo giorno natale, era unito da cordone ombelicale a una signora che aveva saputo condurre la poliandria a manifestazioni quasi frenetiche.”

    “Verga sicula, che gran bella porzione di ghiandole di Bartolino e tube di Falloppio!” “Quello? Dalla paura è pronto a secernere preterintenzionalmente, e senza aver prima abbandonato i propri abiti, cellulosa, cheratina, residui biliari, muco, cellule epiteliali desquamate, leucociti e batteri assortiti!” “Gustavo è solo un cinquanta per cento di deliquio dei sensi ottenuto manualmente.” “Silenzio, non imitate un luogo in cui si faccia mercimonio di grazie della seconda metà del cielo!” “Indigenza scrofa, l’ho ricevuta in vaso indebito!” “La prego, non mi deteriori quelli che l’etimologia latina vuole quali testimoni!” “Come dice Dante, usava la parte terminale dell’intestino retto come strumento per segnalazioni militari.” “Ragazzí, che operazione serramentaria!””La baronessa? Ma si dedica alla raccolta e accumulazione di gettoni che testimoniano della sua operosità e a fronte dei quali riceverà un corrispettivo in denaro allo scadere della seconda settimana di attività!” “Guardi, io di Lei e della sua opinione sottopongo a ripetute succussioni l’unica borsa in pelle fornitami da natura, con tutto ciò che essa contiene!” “Ma la smetta di adularmi! Lei è un soggetto le cui papille gustative hanno perduto ogni dimestichezza con il cibo prima che esso abbia subito tutte le trasformazioni a cui viene sottoposto dal nostro organismo onde far fronte alla curva generale dell’entropia!” “Se non la smette sono disposto a interfacciare la parte inferiore delle mie Timberland con la sua zona perineale, imprimendo all’intero suo corpo una forza propulsiva atta a farle percorrere un ampio tragitto senza che Ella debba ricorrere ai consueti mezzi di deambulazione!” “Ha tutta la mia riprovazione, o persona la cui parte posteriore inferiore del tronco necessiterebbe di un intervento plastico a fini di restauro!” “Organo esterno dell’apparato genito-urinario maschile a forma di appendice cilindrica inserita nella parte anteriore del perineo! Ho perso il portafoglio!”

  • Report installazione antenne

    AS1551 – OSTACOLI NELL’INSTALLAZIONE DI IMPIANTI DI TELECOMUNICAZIONE MOBILE E BROADBAND
    WIRELESS ACCESS E ALLO SVILUPPO DELLE RETI DI TELECOMUNICAZIONE IN TECNOLOGIE 5G
    Roma, 21 dicembre 2018
    Senato della Repubblica
    Camera dei Deputati
    Presidenza del Consiglio dei Ministri
    Ministero dello Sviluppo Economico
    Conferenza Unificata Stato–Regioni, Città e Autonomie Locali
    Presidente della Regione Abruzzo
    Presidente della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia
    Presidente della Regione Lombardia
    Presidente della Regione Marche
    Presidente della Regione Autonoma Valle d’Aosta
    Presidente della Provincia Autonoma di Bolzano
    Presidente della Provincia Autonoma di Trento
    Associazione Nazionale Comuni Italiani
    L’Autorità, nell’adunanza del 12 dicembre 2018, ha deliberato di inviare, ai sensi dell’articolo 21 della Legge 10 ottobre
    1990, n. 287, una segnalazione relativa agli ostacoli all’installazione di impianti di telecomunicazione mobile e
    broadband wireless access presenti nelle normativa locale (comunale e provinciale), regionale e nazionale. Si tratta in
    particolare di previsioni normative locali o regionali le quali fissano limiti e divieti all’installazione di impianti di
    telecomunicazione o stabiliscono procedure amministrative di autorizzazione all’istallazione degli impianti difformi
    rispetto a quanto previsto dal quadro normativo statale.
    Tali ostacoli restringono ingiustificatamente la concorrenza nei mercati delle telecomunicazioni e rischiano di
    determinare ricadute negative rilevanti sui livelli di servizio erogati ai consumatori e alle imprese, nonché sulla
    competitività dell’Italia nei confronti di altri Paesi. Le criticità concorrenziali derivanti da queste restrizioni sono
    destinate ad accentuarsi nell’attuale fase di transizione alle tecnologie 5G, che rischia di subire un rallentamento,
    andando a vanificare l’impegno che l’Italia ha profuso con riguardo alle tecnologie 5G, muovendosi in anticipo rispetto
    ad altri Paesi europei nell’assegnazione delle frequenze.
    In particolare, il mercato delle telecomunicazioni mobili in Italia è stato interessato dall’entrata di diversi operatori,
    infrastrutturati e virtuali, che hanno incrementato negli scorsi anni i servizi erogati, soddisfacendo così le esigenze di
    connettività mobile del Paese. Allo stesso modo, i servizi di broadband wireless access (BWA) hanno permesso di
    connettere aree del territorio svantaggiate, precedentemente non raggiunte da connessioni fisse ad alta velocità.
    Appare quindi prioritario il mantenimento e l’ampliamento della concorrenza nei mercati delle telecomunicazioni mobili
    e fisse, rimuovendo gli ostacoli non necessari e riducendo i costi e le tempistiche dei procedimenti amministrativi, così
    da ridurre le barriere all’entrata e la discriminazione tra operatori storici e nuovi operatori, nonché tra tecnologie preesistenti e nuove tecnologie.
    La tecnologia 5G rappresenta un’opportunità di crescita della competitività del Paese e un fattore di innalzamento dei
    livelli di concorrenza. Infatti, tale tecnologia permetterà l’erogazione di nuovi servizi che, oltre alle comunicazioni
    interpersonali, interesseranno diversi comparti industriali, quali energia e utilities, manifatturiero, trasporti, sanità,
    agricoltura, automazione, servizi finanziari. Studi recenti stimano che questa tecnologia potrà determinare un impatto
    sul prodotto globale del 4-5%1. Ne consegue che appare indispensabile favorirne lo sviluppo mediante l’eliminazione di
    restrizioni ingiustificate e non necessarie, nonché attraverso la definizione di best practice per le amministrazioni locali
    volte ad indirizzare la propria azione amministrativa ai principi di efficienza ed efficacia.
    La Direttiva 2014/61/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014, recante “misure volte a ridurre i
    costi dell’installazione di reti di comunicazione elettronica ad alta velocità”, ha evidenziato la necessità di attuare
    politiche che permettano di abbattere i costi dell’installazione della banda larga sull’intero territorio dell’Unione, anche

    1 [Cfr. IHS, 2017, The 5G economy: How 5G technology will contribute to the global economy.]
    attraverso una corretta pianificazione, un corretto coordinamento e la riduzione degli oneri amministrativi2. Infatti, una
    parte preponderante di tali costi è imputabile a inefficienze nel processo di posa delle infrastrutture (ad esempio,
    installazioni di antenne, tralicci e altre strutture di supporto), a rallentamenti legati al coordinamento delle opere civili,
    a procedure amministrative farraginose di rilascio delle autorizzazioni, che comportano rilevanti ostacoli finanziari, in
    particolare nelle zone rurali. L’articolo 7 della suddetta Direttiva, in particolare, prevede che le autorità competenti
    rilascino, o rifiutino, le autorizzazioni entro quattro mesi dalla data di ricevimento di una richiesta completa di
    autorizzazione. Inoltre, la Direttiva individua altri strumenti da implementare nel processo di autorizzazione, quali la
    previsione di uno “sportello unico” e la messa a disposizione di informazioni minime che devono essere rese agli
    operatori di telecomunicazioni.
    Il quadro normativo
    Al fine di analizzare le criticità riscontrate nelle attività di installazione degli impianti di telecomunicazione mobile,
    occorre preliminarmente esaminare il quadro normativo nazionale, di derivazione europea, nonché i principi
    giurisprudenziali consolidatisi in materia.
    Il Decreto Legislativo 1° agosto 2003, n. 259, recante il “Codice delle Comunicazioni Elettroniche”, agli articoli 87 e ss.,
    ha inteso favorire un’applicazione univoca e uniforme del regime autorizzatorio degli impianti di telecomunicazione
    mobile su tutto il territorio nazionale, definendo modalità e tempistiche del procedimento di autorizzazione, nonché le
    amministrazioni preposte al rilascio delle autorizzazioni.
    Il Codice delle Comunicazioni Elettroniche qualifica gli impianti di telefonia come “opere di urbanizzazione primaria”
    (articolo 86, comma 3) e ne riconosce la natura di pubblica utilità (articolo 90). In tal senso si è altresì espressa la
    giurisprudenza la quale ha riconosciuto che l’installazione sul territorio non costituisce un interesse privato delle
    imprese, ma un preciso interesse primario della collettività: “le opere di urbanizzazione primaria, in quanto tali,
    risultano in generale compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica e, dunque, con ogni zona del territorio
    comunale, sottolineandosi che la disposizione dell’articolo 86, comma 3, del d.lgs. n. 259/1993 ha in tal modo
    evidenziato il principio della necessaria capillarità della localizzazione degli impianti relativi ad infrastrutture di reti
    pubbliche di comunicazioni”
    3.
    In secondo luogo, quanto alle caratteristiche dell’iter autorizzatorio, il Codice delle Comunicazioni Elettroniche: i)
    introduce l’istituto del “silenzio assenso”, con l’obiettivo di definire tempi certi di risposta da parte delle Pubbliche
    Amministrazioni; ii) stabilisce forme di semplificazione per l’installazione di impianti di telecomunicazione a bassa
    potenza e iii) prevede un procedimento semplificato per le modifiche non sostanziali delle caratteristiche trasmissive
    degli impianti per mera manutenzione o semplice ammodernamento degli stessi4. Inoltre, l’articolo 35, commi 4 e 4-
    bis, del Decreto Legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modifiche dalla Legge 15 luglio 2011, n. 111, sancisce
    ulteriori previsioni di semplificazione per talune categorie di impianti emittenti5.

    2 [Cfr. Direttiva 2014/61/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014 , recante misure volte a ridurre i costi
    dell’installazione di reti di comunicazione elettronica ad alta velocità, GUCE [2014] L155/1, considerato n. 4.]
    3 [Cfr. Consiglio di Stato, sentenza 1° agosto 2017, n. 3853.]
    4 [Nel dettaglio, gli articoli 87 e ss. del Codice delle Comunicazioni Elettroniche stabiliscono che l’installazione di infrastrutture
    trasmissive per le comunicazioni elettroniche e la modifica delle caratteristiche di emissione delle stesse sono soggette al rilascio di
    autorizzazione da parte degli enti locali competenti, previo accertamento, da parte delle Agenzie Regionali per la Protezione
    dell’Ambiente (ARPA/ARTA), in merito alla compatibilità dell’impianto con i limiti alle emissioni elettromagnetiche.
    L’articolo 87 del Codice delle Comunicazioni Elettroniche prevede, in sintesi, che l’autorizzazione comunale sia rilasciata a seguito di un
    procedimento avviato con il deposito, presso gli uffici territorialmente competenti del Comune e dell’ARPA, di un’istanza corredata da
    una serie di documenti e informazioni finalizzati ad attestare la conformità dell’impianto ai diversi obblighi applicabili. Tale istanza si
    intende accolta qualora non sia stato comunicato un provvedimento di diniego da parte del Comune o un parere negativo da parte
    dell’ARPA entro i successivi 90 giorni.
    Procedure semplificate per alcune fattispecie (ad esempio, installazione o modifica di impianti con determinate caratteristiche) sono
    stabilite dall’articolo 87-bis del Codice delle Comunicazioni Elettroniche che, nel caso di installazione o modifica degli apparati per la
    trasmissione di tecnologie UMTS/3G o sue evoluzioni (ad esempio, LTE/4G), ha previsto la possibilità di presentare una segnalazione
    certificata di inizio attività (“SCIA”), che sarà priva di effetti solamente qualora, entro i successivi trenta giorni dalla sua presentazione,
    sia stato comunicato un provvedimento di diniego da parte del Comune o un parere negativo da parte dell’ARPA. Infine, l’articolo 87-ter
    dispone che, nel caso di modifiche delle caratteristiche degli impianti già provvisti di titolo abilitativo, che comportino aumenti delle
    altezze non superiori a un metro e aumenti della superficie di sagoma non superiori a 1,5 metri quadrati, sia sufficiente
    un’autocertificazione descrittiva della variazione dimensionale e del rispetto dei limiti, dei valori e degli obiettivi di cui all’articolo 87, da
    inviare contestualmente all’attuazione dell’intervento ai medesimi organismi che hanno rilasciato i titoli.]
    5 [In particolare, ai sensi di queste disposizioni “Al fine di agevolare la diffusione della banda ultralarga in qualsiasi tecnologia e di
    ridurre i relativi adempimenti amministrativi, sono soggette ad autocertificazione di attivazione, da inviare contestualmente
    all’attuazione dell’intervento all’ente locale e agli organismi competenti ad effettuare i controlli di cui all’articolo 14 della legge 22
    febbraio 2001, n. 36, le installazioni e le modifiche, ivi comprese le modifiche delle caratteristiche trasmissive degli impianti di cui
    all’articolo 87-bis del codice di cui al decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, degli impianti radioelettrici per trasmissione puntopunto e punto-multipunto e degli impianti radioelettrici per l’accesso a reti di comunicazione ad uso pubblico con potenza massima in
    singola antenna inferiore o uguale a 10 watt e con dimensione della superficie radiante non superiore a 0,5 metri quadrati […] Ai
    medesimi fini indicati al comma 4, l’installazione e l’attivazione di apparati di rete caratterizzati da una potenza massima trasmessa in
    uplink inferiore o uguale a 100 mW, e da una potenza massima al connettore di antenna, in downlink, inferiore o uguale a 5 W, e aventi
    un ingombro fisico non superiore a 20 litri, possono essere effettuate senza alcuna comunicazione all’ente locale e agli organismi
    competenti ad effettuare i controlli di cui all’articolo 14 della legge 22 febbraio 2001, n. 36”.]
    Le misure relative al rispetto delle emissioni elettromagnetiche sono invece disciplinate dalla Legge 22 febbraio 2001,
    n. 36, recante “Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici” (nel
    seguito anche “Legge Quadro”) e dal D.P.C.M. 8 luglio 2003 recante “Fissazione dei limiti di esposizione, dei valori di
    attenzione e degli obiettivi di qualità per la protezione della popolazione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici
    ed elettromagnetici generati a frequenze comprese tra 100 kHz e 300 GHz”. La Legge Quadro, in particolare, stabilisce
    le competenze dei diversi livelli di governo6 e regola, all’articolo 7, la costituzione del catasto nazionale delle sorgenti
    fisse e mobili dei campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, che opera in coordinamento con i catasti regionali di
    cui all’articolo 8, comma 1, lettera d), della medesima legge.
    Infine, il D.P.C.M. 8 luglio 2003, in esecuzione della citata Legge Quadro, stabilisce: l’ambito di applicazione (articolo 1)
    – che riguarda i campi elettromagnetici generati da sorgenti fisse con frequenza compresa tra 100 kHz e 300 GHz ad
    eccezione delle sorgenti non riconducibili ai sistemi fissi delle telecomunicazioni e radiotelevisivi (a cui si applicano le
    restrizioni di cui alla Raccomandazione del Consiglio del 12 luglio 19997) e di impianti radar e ad esposizioni pulsate (a
    cui si applica un differente D.P.C.M.) – le unità di misura (articolo 2), i limiti di esposizione e valori di attenzione
    (articolo 3), gli obiettivi di qualità (articolo 4), le norme in materia di esposizioni multiple (articolo 5), la definizione
    delle tecniche di misurazione e di rilevamento dei livelli di esposizione (articolo 6).
    Le principali criticità riscontrate a livello comunale, provinciale e regionale
    L’analisi dei procedimenti che regolano l’installazione degli impianti di telecomunicazione ha portato alla luce diverse
    criticità concorrenziali, derivanti dalla regolamentazione locale (comunale e provinciale) o regionale, che hanno l’effetto
    di rallentare o ostacolare la realizzazione delle reti di telecomunicazione mobile e di fixed wireless access, comportando
    una copertura incompleta, incrementando i costi amministrativi e determinando una discriminazione tra operatori
    storici e nuovi operatori, nonché tra tecnologie pre-esistenti e nuove tecnologie. Al riguardo, si ricorda peraltro che
    l’Autorità ha, in molteplici occasioni, riconosciuto l’importanza di una corretta azione amministrativa al fine di favorire
    l’infrastrutturazione tecnologica del Paese8.
    La prima tipologia di criticità deriva dalla circostanza che numerosi regolamenti comunali adottati ai sensi dell’articolo
    8, comma 6, della Legge Quadro presentano criteri di localizzazione che precludono e/o fortemente limitano
    l’installazione di impianti di telecomunicazione in ampie porzioni del territorio comunale.
    La maggior parte dei regolamenti comunali, infatti, prescrive criteri di localizzazione degli impianti che non tengono
    conto delle esigenze tecniche legate all’architettura della rete e agli obiettivi di copertura del servizio offerto dagli
    operatori, risultando non proporzionati in quanto non permettono, in molti casi, l’installazione degli impianti e, quindi,
    impediscono la copertura di rete. Non è infrequente infatti riscontrare divieti di installazione in ampie zone del
    territorio, soprattutto nelle aree a destinazione residenziale, che restringono fortemente gli ambiti in cui gli operatori
    possono di fatto collocare i propri impianti, inibendo così lo sviluppo, se non addirittura, la realizzazione stessa della
    rete.
    Si deve osservare che divieti di installazione possono comportare un aumento delle emissioni elettromagnetiche,
    ponendosi in antitesi con gli obiettivi di minimizzazione dell’esposizione. Ciò in quanto l’inserimento di prescrizioni
    aggiuntive rispetto a quelle previste dalla normativa nazionale potrebbe determinare una inefficienza della rete degli

    6 [Lo Stato esercita (articolo 1) le funzioni relative: “a) alla determinazione dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli
    obiettivi di qualità […]; c) all’istituzione del catasto nazionale delle sorgenti fisse e mobili dei campi elettrici, magnetici ed
    elettromagnetici e delle zone territoriali interessate, al fine di rilevare i livelli di campo presenti nell’ambiente; […] e) all’individuazione
    delle tecniche di misurazione e di rilevamento dell’inquinamento elettromagnetico; […] h) alla determinazione dei parametri per la
    previsione di fasce di rispetto per gli elettrodotti; all’interno di tali fasce di rispetto non è consentita alcuna destinazione di edifici ad uso
    residenziale, scolastico, sanitario ovvero ad uso che comporti una permanenza non inferiore a quattro ore”.
    Sono di competenza delle Regioni (articolo 8, commi 1-5), “nel rispetto dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi
    di qualità nonché dei criteri e delle modalità fissati dallo Stato, fatte salve le competenze dello Stato e delle autorità indipendenti: a)
    l’esercizio delle funzioni relative all’individuazione dei siti di trasmissione e degli impianti per telefonia mobile, degli impianti
    radioelettrici e degli impianti per radiodiffusione, ai sensi della legge 31 luglio 1997, n. 249, e nel rispetto del decreto di cui all’articolo
    4, comma 2, lettera a), e dei principi stabiliti dal regolamento di cui all’articolo 5; […] c) le modalità per il rilascio delle autorizzazioni
    alla installazione degli impianti di cui al presente articolo, in conformità a criteri di semplificazione amministrativa, tenendo conto dei
    campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici preesistenti; d) la realizzazione e la gestione, in coordinamento con il catasto nazionale di
    cui all’articolo 4, comma 1, lettera c), di un catasto delle sorgenti fisse dei campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, al fine di
    rilevare i livelli dei campi stessi nel territorio regionale, con riferimento alle condizioni di esposizione della popolazione; […] 2.
    Nell’esercizio delle funzioni di cui al comma 1, lettere a) e c), le regioni si attengono ai principi relativi alla tutela della salute pubblica,
    alla compatibilità ambientale ed alle esigenze di tutela dell’ambiente e del paesaggio. […] 4. Le regioni, nelle materie di cui al comma 1,
    definiscono le competenze che spettano alle province ed ai comuni, nel rispetto di quanto previsto dalla legge 31 luglio 1997, n. 249”.
    I comuni (articolo 8, comma 6) “possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli
    impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici”.]
    7 [Cfr. Raccomandazione del Consiglio del 12 luglio 1999 relativa alla limitazione dell’esposizione della popolazione ai campi
    elettromagnetici da 0 Hz a 300 GHz (1999/519/CE) in GUCE 30 luglio 1999, n. L 199.]
    8 [Cfr. ex multis Segnalazione del 31 gennaio 2013 ai sensi dell’articolo 21 della Legge 10 ottobre 1990, n. 287 caso AS1028 – Comune
    di San Filippo del Mela (ME) – Regolamento per l’installazione e l’esercizio degli impianti per la telefonia mobile e per le trasmissioni in
    standard DVB-H, in boll. n. 11/2013; Parere motivato del 31 ottobre 2017 ai sensi dell’articolo 21-bis della Legge 10 ottobre 1990, n.
    287 caso AS1464 – Avviso esplorativo per manifestazione di interesse dell’azienda ospedaliera S. Camillo Forlanini, in boll. n. 1/2018.]
    operatori che si traduce nella necessità per questi ultimi di installare un maggior numero di impianti per compensare
    l’impossibilità di installare gli stessi in determinate zone del Comune9.
    Tali restrizioni sono state ritenute illegittime sia dalla giurisprudenza costituzionale, sia dalla giurisprudenza
    amministrativa, in quanto si traducono in un divieto tout court di installazione in ampie zone del territorio, senza alcun
    bilanciamento puntuale e concreto dei differenti interessi pubblici da tutelare, in violazione del disposto di cui
    all’articolo 86, comma 3, del Decreto Legislativo n. 259/2003, il quale ha assimilato gli impianti di comunicazioni
    elettroniche alle opere di urbanizzazione primaria e a carattere di pubblica utilità10.
    Inoltre, alcuni regolamenti comunali e alcune ARPA fissano in modo ingiustificato limiti alle emissioni elettromagnetiche
    e di potenza, in difformità rispetto ai limiti stabiliti dalla normativa nazionale, ostacolando così ingiustificatamente
    l’installazione di impianti di telecomunicazione nel territorio di cui trattasi. A tale riguardo, si rileva che i valori delle
    emissioni da rispettare sono fissati dal D.P.C.M. 8 luglio 2003, ispirato a principi di minimizzazione alle esposizioni e di
    precauzione. Inoltre, in materia di inquinamento elettromagnetico, la Legge Quadro affida in via esclusiva allo Stato la
    determinazione degli “obiettivi di qualità”, al fine di uniformare i livelli di tutela della salute umana su tutto il territorio
    nazionale e garantire una efficiente gestione degli impianti di telecomunicazione11.
    Un’ulteriore criticità riguarda la violazione o la erronea applicazione delle procedure autorizzatorie previste dal Codice
    delle Comunicazioni. In proposito si segnala innanzitutto che – in contrasto con l’obiettivo fissato dal Codice delle
    Comunicazioni e dalla Legge Quadro di definire un processo di autorizzazione specifico, unitario, semplificato e con
    tempi certi – molti Comuni continuano a imporre agli operatori la presentazione del permesso a costruire sebbene,
    come previsto dagli articoli 86 e ss. del Codice delle Comunicazioni Elettroniche e confermato dalla giurisprudenza12,
    l’installazione di impianti di telecomunicazione non è assoggettabile alle procedure previste per il rilascio di
    concessione edilizia di cui al Testo Unico sull’edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380).
    Inoltre, alcuni regolamenti locali prescrivono una documentazione da allegare alle istanze per l’installazione di impianti
    per telecomunicazioni ulteriore e più dettagliata rispetto a quella prescritta dal Codice delle Comunicazioni Elettroniche
    (es. perizia giurata), in contrasto non solo con i principi, di derivazione europea, di semplificazione e non
    aggravamento del procedimento amministrativo13, ma anche con quanto affermato dalla consolidata giurisprudenza
    amministrativa, secondo la quale l’Amministrazione non può esigere documenti diversi da quelli di cui all’allegato 13,
    modello A o B del Codice delle Comunicazioni Elettroniche14.
    Infine, le amministrazioni spesso impongono il pagamento dei diritti di segreteria e/o di istruttoria, il cui mancato
    versamento è motivo sospensivo e/o ostativo per il rilascio delle autorizzazioni necessarie. Tali richieste di pagamento
    sono state ritenute illegittime dalla giurisprudenza, che ha affermato, sia con riferimento ai regolamenti locali sia alle
    leggi regionali, l’inapplicabilità di qualsiasi onere aggiuntivo rispetto a quelli previsti dalla legge statale per i suddetti
    procedimenti di autorizzazione15. Questa ricostruzione è confermata dall’interpretazione autentica del comma 2
    dell’articolo 93 del Codice delle Comunicazioni Elettroniche, operata dall’articolo 12, comma 3, del Decreto Legislativo
    15 febbraio 2016, n. 33, il quale precisa che la norma in parola deve essere interpretata nel senso che gli operatori che
    forniscono reti di comunicazione elettronica possono essere soggetti soltanto alle prestazioni e alle tasse o canoni
    espressamente previsti dal comma 2 dell’articolo 93 del Decreto Legislativo n. 259/200316.

    9 [Sul punto si veda TAR Bolzano, sentenze n. 183/2016, 201/2016 e 210/2016.]
    10 [Cfr. Consiglio di Stato, 1° agosto 2017, n. 3853; 3 agosto 2017, n. 3891; 21 aprile 2008, n. 1767. Si veda altresì Corte
    Costituzionale, sentenze n. 331/2003 e n. 307/2003.]
    11 [Si ricorda, inoltre, che secondo gli orientamenti giurisprudenziali consolidati: “è illegittimo un regolamento comunale in tema di
    fissazione dei criteri per la localizzazione delle SRB laddove l’ente territoriale si sia posto quale obiettivo (non dichiarato, ma evincibile
    dal contenuto dell’atto regolamentare) quello di preservare la salute umana dalle emissioni elettromagnetiche promananti da impianti di
    radiocomunicazione, essendo tale materia attribuita alla legislazione concorrente Stato-Regioni dell’art. 117 Cost., come riformato data
    L. cost. 18 ottobre 2001 n. 3”. Pertanto, fermo restando il riconoscimento indiscusso del potere regolamentare comunale (ai sensi
    dell’articolo 8 della Legge Quadro), esso non può spingersi fino al punto di ritenere che al Comune sia consentito di introdurre limiti di
    esposizione al campi elettromagnetici diversi da quelli previsti dallo Stato (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 2128 del 24 settembre
    2010; sentenza n. 8103 del 16 dicembre 2009; TAR Toscana Firenze, sentenza n. 664 del 15 maggio 2018).]
    12 [Cfr., ex multis, TAR Napoli, 10 febbraio 2014, n. 922, Consiglio di Stato, 21 aprile 2008, n. 1767]
    13 [Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 450/2006.]
    14 [Cfr. Consiglio di Stato, sentenza del 9 luglio 2018, n. 4189; TAR Campania Napoli, sentenza del 28 marzo 2008, n. 1630.]
    15 [Con riferimento ai diritti di segreteria e ai diritti di istruttoria, “la relativa imposizione contrasta con l’art. 93, comma 2, del D.lgs. n.
    259 del 2003, che vieta di subordinare il rilascio delle autorizzazioni in materia di telecomunicazioni ad oneri economici diversi rispetto a
    quelli individuati dal legislatore statale e non rientranti nell’ambito dell’elencazione ammessa dal Codice delle telecomunicazioni” (cfr.
    TAR Pescara n. 511/2013; TAR Cagliari n. 119/2010). La Corte costituzionale, con sentenza del 10 febbraio 2015, n. 47, ha dichiarato
    l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14 della L.R. Piemonte 3 agosto 2004, n. 19 in quanto, “l’articolo in esame, imponendo il
    pagamento di spese per attività istruttorie per il rilascio delle autorizzazioni all’installazione e modifica di impianti per telecomunicazioni
    non previste della legge statale, si pone in contrasto con l’art. 93 del D.lgs. n. 259/2003, espressione di un principio fondamentale della
    materia “ordinamento della comunicazione” e il quale prevede che “Le Pubbliche Amministrazioni, le Regioni, le Province ed i Comuni
    non possono imporre per l’impianto di reti a per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri o canoni che non siano stabiliti
    per legge”.]
    16 [Attuativo della Direttiva 2014/61/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014 e recante “misure volte a ridurre i
    costi dell’installazione di reti di comunicazione elettronica ad alta velocità”. Il comma 3, dell’art. 12 recita: “L’articolo 93, comma 2, del
    decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, e successive modificazioni, si interpreta nel senso che gli operatori che forniscono reti di
    Inoltre, ulteriori criticità derivano dalla circostanza che i procedimenti amministrativi di autorizzazione all’installazione
    di impianti di telecomunicazione risultano eterogenei e farraginosi. In particolare, con riferimento alle modalità di
    presentazione dell’istanza di autorizzazione, spesso i moduli utilizzati sono difformi rispetto a quelli previsti dal Codice
    delle Comunicazioni Elettroniche, le modalità di presentazione delle domande sono eterogenee (via PEC, in modalità
    cartacea, tramite sportello unico) e, in alcuni casi, non vengono individuati gli Uffici preposti a gestire il processo di
    autorizzazione. Ciò comporta una dilatazione dei tempi del procedimento amministrativo, in violazione dei principi di
    economicità e buon andamento, nonché degli obiettivi fissati dal Codice delle Comunicazioni. Sul punto si apprezza il
    modello implementato dalla Regione Sardegna, la quale prevede che le richieste di autorizzazione vengano trasmesse
    al SUAP (sportello unico attività produttive) il quale riunisce tutte le amministrazioni interessate che adottano un
    provvedimento unico, garantendo certezza dei tempi. Tale modello, quindi, appare in linea con gli strumenti individuati
    dalla Direttiva 2014/61/UE. Altri esempi virtuosi sono rappresentati dai protocolli tra operatori e amministrazioni locali
    stipulati per la sperimentazione del 5G, volti a individuare uffici e procedure di coordinamento con altre
    amministrazioni, a promuovere l’utilizzo del patrimonio edilizio degli enti locali e a creare canali di comunicazione che
    agevolano l’interlocuzione con gli operatori di telecomunicazione.
    In tema di attività svolta dalle ARPA regionali per la verifica del rispetto dei limiti elettromagnetici, si è osservato che –
    in alcuni casi – le stesse ARPA hanno autorizzato gli operatori esistenti per valori di potenza nominali superiori rispetto
    a quelli effettivamente erogati in servizio; in questo modo, spesso, i limiti elettromagnetici sono ritenuti saturati
    sebbene – andando a considerare il valore reale e non nominale/teorico – vi sarebbe spazio per l’istallazione di un
    impianto presso lo stesso sito. Inoltre, nella presentazione delle istanze di autorizzazione, alcune ARPA non forniscono
    le informazioni riguardanti le caratteristiche elettromagnetiche e/o le schede tecniche degli impianti preesistenti. Per
    tale motivo gli operatori devono stimare il campo elettromagnetico, aumentando la probabilità di errore e, quindi, di
    diniego, quando le ARPA dispongono già della mappatura completa degli impianti preesistenti e, quindi, di una
    misurazione certa senza necessità di stime. Su questo punto, un esempio virtuoso è quello dell’ARPA Friuli Venezia
    Giulia, la quale ha costituito una piattaforma web contenente i dati degli impianti di tutti gli operatori.
    Le specifiche criticità riscontrate nei regolamenti regionali e delle Province autonome di Trento e Bolzano
    Nel corso dell’esame delle problematiche relative all’installazione di impianti di telecomunicazione sono state rilevate
    altresì alcune criticità presenti nelle previsioni normative di talune Regioni e delle Province Autonome di Trento e
    Bolzano. In particolare, in merito alle criticità derivanti dalla difformità dei procedimenti di autorizzazione rispetto a
    quelli previsti dalla normativa nazionale, si deve segnalare:
    Abruzzo. La Legge Regionale 13 dicembre 2004, n. 45, recante “Norme per la tutela della salute e la salvaguardia
    dell’ambiente dall’inquinamento elettromagnetico” in diversi articoli relativi all’installazione e al risanamento degli
    impianti di telecomunicazione e radiotelevisivi (articoli 9-11, 13, 15, 21) prevede l’acquisizione di un parere
    endoprocedimentale da parte dell’ASL17, in contrasto con la Legge Quadro che attribuisce all’ARTA Abruzzo il controllo
    delle emissioni elettromagnetiche. L’onere aggiuntivo comporta un allungamento dell’iter autorizzatorio, in contrasto
    con la normativa nazionale ed europea citata in precedenza.
    Provincia Autonoma di Bolzano. Il Decreto del Presidente della Provincia 13 novembre 2013, n. 36, recante
    “Regolamento sulle infrastrutture delle comunicazioni con impianti ricetrasmittenti”, agli articoli 10 e 11 prevede
    procedure di autorizzazione difformi rispetto a quelle previste dagli articoli 87, 87-bis e 87-ter del Codice delle
    Comunicazioni Elettroniche e più onerose per gli operatori18.
    Provincia Autonoma di Trento. Il Decreto del Presidente della Provincia 20 dicembre 2012, n. 25-100/Leg., recante
    “Disposizioni regolamentari concernenti la protezione dall’esposizione a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici
    generati a frequenze comprese tra 100 kHz e 300 GHz (articolo 61 della legge provinciale 11 settembre 1998, n. 10 e
    articolo 5-ter della legge provinciale 28 aprile 1997, n. 9)”, all’articolo 6, presenta procedure di autorizzazione difformi
    rispetto a quelle previste dagli articoli 87, 87-bis e 87-ter del Codice delle Comunicazioni Elettroniche e più onerose per
    gli operatori.
    Friuli Venezia Giulia. La Legge Regionale 18 marzo 2011, n. 3, recante “Norme in materia di telecomunicazioni”, in
    particolare l’articolo 16, comma 6, prevede che la Giunta comunale trasmetta al Ministero per i Beni e le Attività
    Culturali e ai suoi uffici periferici il piano di sviluppo della rete degli operatori, qualora quest’ultimo interessi beni
    culturali. Tuttavia, ciò dovrebbe avvenire solo al momento della presentazione della richiesta di autorizzazione per il
    singolo sito, come previsto dal Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice del Paesaggio). Pertanto, la norma
    comporta la duplicazione del nulla osta da parte degli enti preposti alla tutela dei beni culturali, il quale viene richiesto

    comunicazione elettronica possono essere soggetti soltanto alle prestazioni e alle tasse o canoni espressamente previsti dal comma 2
    della medesima disposizione.”.]
    17 [Cfr. TAR Pescara, sentenza 248/2017.]
    18 [Sul punto si ricorda che, secondo la sentenza della Corte Costituzionale n. 312 del 15 ottobre 2003, “l’art. 117, comma terzo, della
    Costituzione ha attribuito alla competenza legislativa regionale concorrente l’ordinamento delle comunicazioni e tale attribuzione di
    competenza si deve estendere, in virtù dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, anche alla Provincia di Bolzano, alla quale,
    invece, resta precluso dall’art. 8 n. 4 dello statuto l’esercizio della potestà legislativa esclusiva in ordine alla facoltà di impiantare
    stazioni radiotelevisive. Ciò significa che le attività che possono essere sviluppate dalla Provincia di Bolzano nel settore delle
    comunicazioni debbono rispettare i principi fondamentali stabiliti in materia da una serie di leggi statali […]”.]
    sia in fase preliminare, sia in fase di specifico intervento. In tal modo si dilatano i tempi di autorizzazione, in contrasto
    con le previsioni del Codice delle Comunicazioni Elettroniche e con gli obiettivi definiti dall’articolo 7 della Direttiva
    2014/61/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio.
    Valle d’Aosta. La Legge Regionale 4 novembre 2005, n. 25, recante “Disciplina per l’installazione, la localizzazione e
    l’esercizio di stazioni radioelettriche e di strutture di radiotelecomunicazioni. Modificazioni alla legge regionale 6 aprile
    1998, n. 11 (Normativa urbanistica e di pianificazione territoriale della Valle d’Aosta), e abrogazione della legge
    regionale 21 agosto 2000, n. 31” prevede (articolo 11, comma 3, lett. b) l’autorizzazione e il parere dell’ARPA per tutti
    gli impianti di telecomunicazione mobile, quindi anche quelli con potenza fino a 10 Watt, in contrasto con l’articolo 35,
    comma 4, del Decreto Legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modifiche dalla Legge 15 luglio 2011, n. 111 (citato
    in precedenza). Ciò comporta altresì il pagamento degli oneri per l’ottenimento del parere previsti dall’articolo 64 della
    Legge Regionale n. 221/2015. Inoltre, l’articolo 13, comma 1, della L.R. 4 novembre 2005, n. 25 prevede l’utilizzo
    della SCIA solo per impianti fino a 20 Watt, in contrasto con l’articolo 87-bis del Codice delle Comunicazioni
    Elettroniche.
    Inoltre, altre norme regionali prevedono restrizioni all’installazione degli impianti di telecomunicazione più stringenti
    rispetto a quelli definiti dalla normativa nazionale, in particolare:
    Marche. La Legge Regionale 30 marzo 2017, n. 12, recante “Disciplina regionale in materia di impianti radioelettrici ai
    fini della tutela ambientale e sanitaria della popolazione”, all’articolo 10 vieta “d) la localizzazione di impianti per
    emittenza radiofonica e televisiva sugli edifici destinati a permanenze di persone non inferiore a quattro ore […]; e) la
    localizzazione degli impianti disciplinati da questa legge su immobili vincolati con specifico provvedimento ai sensi della
    Parte Seconda del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi
    dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) […]”. Tali disposizioni si traducono in un divieto assoluto di
    installazione in ampie aree territoriali e, in particolare, su tutti gli edifici in cui la permanenza di persone è superiore a
    quattro ore. Ciò risulta in contrasto con la normativa nazionale, la quale non prescrive divieti assoluti di installazione,
    ma unicamente limiti rigorosi alle emissioni elettromagnetiche (obiettivi di qualità). Di conseguenza, la copertura della
    rete non è garantita, soprattutto con riferimento ad intere aree urbane, dove la quasi totalità degli edifici è destinata
    alla permanenza umana superiore alle quattro ore. Inoltre, tali previsioni introducono un divieto di localizzazione sui
    beni soggetti alla tutela del Codice del Paesaggio, in contrasto con gli articoli 21 e seguenti dello stesso codice, i quali
    prevedono specifici procedimenti autorizzativi. Peraltro, la legge in questione non prevede meccanismi correttivi, quali
    deroghe ai suddetti divieti o la messa a disposizione di siti alternativi dove installare gli impianti. Ne consegue che la
    norma in esame non garantisce la localizzazione degli impianti e la copertura di rete.
    Parimenti, la Legge Regionale 11 maggio 2001, n. 11 della regione Lombardia, recante “Norme sulla protezione
    ambientale dall’esposizione a campi elettromagnetici indotti da impianti fissi per le telecomunicazioni e per la
    radiotelevisione” all’articolo 4 ha introdotto un divieto, senza alcuna deroga, di installazione di impianti con potenza
    superiore a 7W nelle aree ad alta densità abitativa; ciò potrebbe risultare incompatibile con le esigenze di corretto
    sviluppo e pianificazione della rete, non assicurando l’erogazione del servizio di telecomunicazione e, comportando, in
    taluni casi, l’installazione di un numero di impianti superiori rispetto a quelli che sarebbero stati necessari in assenza di
    tali restrizioni.
    Le criticità relative al quadro normativo-regolamentare nazionale
    In merito alle criticità riscontrate in relazione al quadro normativo regolamentare nazionale, si deve osservare che – in
    primo luogo – sarebbe auspicabile l’adozione di un indirizzo nazionale al fine di uniformare l’iter autorizzativo da
    seguire in caso di realizzazione di impianti di telecomunicazione, definendo chiaramente le procedure e i moduli da
    utilizzare e specificando le disposizioni che possono dar luogo a dubbi interpretativi e applicativi che determinano le
    problematiche suindicate.
    In secondo luogo, si osserva che i problemi di installazione degli impianti di telecomunicazione mobile saranno
    accentuati con l’avvento del 5G in relazione alla presenza di limiti elettromagnetici estremamente ridotti rispetto alla
    media degli altri Paesi europei, nonché di quanto stabilito dalla Raccomandazione del Consiglio del 12 luglio 199919 e
    dal parere della Commissione internazionale per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti (ICNIRP20). Tali limiti,
    infatti, potrebbero essere incompatibili con l’installazione di impianti di telecomunicazione 5G, soprattutto con
    riferimento all’obiettivo di qualità di 6V/m, previsto dal D.P.C.M. 8 luglio 2003, che è di gran lunga inferiore ai limiti
    stabiliti dalla Commissione ICNIRP (compresi tra 39V/m e 61 V/m) e utilizzati da altri Paesi europei (ad esempio,
    Francia, Germania, Regno Unito, Spagna). Peraltro, il D.P.C.M. 8 luglio 2003 (articolo 1) prevede che tali limiti si
    applichino esclusivamente ai campi elettromagnetici generati da sorgenti fisse, con frequenza compresa tra 100 kHz e
    300 GHz, escludendo le sorgenti non riconducibili ai sistemi fissi delle telecomunicazioni e radiotelevisivi.
    Infine, si osserva che, con riferimento ai criteri di misurazione dei campi elettromagnetici di cui al D.P.C.M. 8 luglio
    2003, non sono ancora state recepite le nuove metodologie di stima delle emissioni elettromagnetiche, secondo i

    19 [Cfr. Raccomandazione del Consiglio del 12 luglio 1999 relativa alla limitazione dell’esposizione della popolazione ai campi
    elettromagnetici da 0 Hz a 300 GHz (1999/519/CE) in GUCE 30 luglio 1999, n. L 199.]
    20 [International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection.]
    criteri denominati IEC 62232:201721. Tali specifiche tecniche sono infatti necessarie per tenere conto delle
    caratteristiche elettromagnetiche di alcune nuove tipologie di impianti emittenti.
    Conclusioni
    Alla luce delle considerazioni svolte sopra, l’Autorità rileva che gli ostacoli ingiustificati all’installazione di impianti di
    telecomunicazione mobile e broadband wireless access precedentemente individuati, restringono la concorrenza nei
    mercati delle telecomunicazioni con rilevanti ricadute sui livelli di servizio erogati ai consumatori e alle imprese, nonché
    sulla competitività dell’Italia nei confronti di altri Paesi.
    Tali restrizioni, inoltre, presentano ulteriori conseguenze sui processi di installazione di nuovi impianti, in particolare: i)
    discriminando gli operatori nuovi entranti e le nuove tecnologie; ii) compromettendo l’assolvimento degli obblighi di
    copertura e iii) depauperando la qualità e la tipologia di servizi erogabili ai consumatori finali e alle imprese.
    È pertanto indispensabile che il quadro normativo regolamentare esistente, a tutti i livelli di governo, abbia come
    obiettivo la rimozione di ostacoli non necessari e la riduzione dei costi e tempi amministrativi, così da mantenere e
    ampliare i livelli di concorrenza nei mercati delle telecomunicazioni mobili e fisse, nonché la definizione di best practice
    per le amministrazioni locali volte a informare e indirizzare la propria azione amministrativa ai principi di efficienza ed
    efficacia.
    L’Autorità auspica, di conseguenza, che tutte le amministrazioni interessate dai processi anzi descritti predispongano
    azioni concrete al fine di rendere più efficiente ed efficace il procedimento autorizzatorio per l’installazione di impianti
    di telecomunicazione.
    Quanto ai regolamenti locali (comunali, provinciali) e regionali, l’Autorità auspica che le amministrazioni interessate
    definiscano i propri procedimenti amministrativi secondo i seguenti indirizzi generali:

    • eliminare le restrizioni ingiustificate all’installazione di impianti di telecomunicazione che sono state peraltro ritenute
      illegittime dalla costante giurisprudenza costituzionale e amministrativa22, quali a titolo di esempio:
      i. divieti di installazione generalizzata su ampie aree, sia per tutti gli impianti che per specifiche tipologie di
      impianti;
      ii. limiti alle emissioni più restrittivi di quelli previsti dalla normativa nazionale;
      iii. instaurazione di procedimenti non previsti dalla normativa nazionale e, nello specifico, dagli artt. 87-bis e 87-ter
      del Codice delle Comunicazioni Elettroniche e dall’articolo 35, commi 4 e 4-bis, del Decreto Legge 6 luglio 2011, n. 98,
      convertito con modifiche dalla legge 15 luglio 2011, n. 111;
      iv. richieste di pareri e certificazioni non previsti dalla normativa nazionale;
      v. imposizione di oneri economici esclusi dalla normativa nazionale;
      vi. imposizione di obblighi asimmetrici e discriminatori che valgono solamente per le nuove installazioni, con effetti
      pregiudizievoli sui nuovi operatori e sulle nuove tecnologie;
    • mettere a disposizione degli operatori di telecomunicazione tutte le informazioni relative agli impianti installati e alle
      loro caratteristiche/schede tecniche, con indicazione dei dati tecnici effettivi e non nominali, nonché relativi alle aree in
      cui è possibile la localizzazione degli impianti;
    • prevedere meccanismi che permettano la localizzazione degli impianti di telecomunicazione, che hanno la qualità di
      opere di urbanizzazione primaria, anche mediante meccanismi di deroga ai criteri di localizzazione degli impianti e
      meccanismi di proposta di siti alternativi. Inoltre, si ritiene auspicabile che i regolamenti locali individuino
      esclusivamente criteri preferenziali di localizzazione e non, al contrario di quanto riscontrato nell’esperienza, di obblighi
      e limiti alla localizzazione;
    • prevedere meccanismi di semplificazione dei procedimenti di autorizzazione all’installazione di impianti, con la
      previsione di uno sportello unico tramite il quale far transitare tutte le istanze, individuando ruoli di coordinamento tra
      gli uffici della medesima amministrazione e tra amministrazioni diverse, anche utilizzando a tal fine l’istituto della
      conferenza dei servizi di cui agli articoli 14 e ss. della legge 7 agosto 1990, n. 241, e strumenti quali i protocolli di
      intesa tra amministrazioni e operatori di telecomunicazione.
      Peraltro, in relazione a singoli casi, l’Autorità si riserva di utilizzare i poteri di cui all’articolo 21-bis della legge 10
      ottobre 1990, n. 287, al fine di richiedere la rimozione di eventuali restrizioni non giustificate, idonee a incidere
      negativamente sulle dinamiche concorrenziali.
      Si auspica, inoltre, che le Regioni Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Marche, Lombardia e Valle d’Aosta, nonché le Province
      Autonome di Trento e Bolzano, rimuovano le specifiche restrizioni individuate, seguendo gli indirizzi generali suindicati.
      Quanto alla normativa nazionale, l’Autorità auspica che il Parlamento adotti misure per semplificare l’iter autorizzativo
      per l’installazione di small cell, anche in considerazione degli esiti del processo di adozione di misure di
      implementazione, avviato dalla Commissione Europea in data 6 novembre 2018, concernenti “Light deployment regime

    21 [International Electrotechnical Commission, Determination of RF field strength, power density and SAR in the vicinity of
    radiocommunication base stations for the purpose of evaluating human exposure.]
    22 [Si vedano: Corte Costituzionale, sentenze nn. 307/2003 e 331/2003, nonché ex multis Consiglio di Stato sentenze nn. 3891/2017,
    3853/2017, 2073/2017, 1361/2014, 3282/2010, 1767/2008, 3156/2007, 3452/2006, 3098/2002; Corte Costituzionale, sentenza n.
    47/2015; TAR Pescara n. 511/2013; TAR Cagliari n. 119/2010.]
    for small-area wireless access points”
    23 e che il Governo e il Ministero dello Sviluppo Economico valorizzino e rendano
    pienamente operativo lo strumento del SINFI (catasto delle infrastrutture), al fine di fornire le informazioni necessarie
    per l’installazione di impianti, la messa a disposizione delle informazioni relative alla localizzazione degli impianti e le
    loro caratteristiche tecniche24. Si auspica, infine, una verifica, con l’ausilio delle competenti commissioni scientifiche,
    quali l’Istituto Superiore della Sanità, l’Organizzazione Mondiale della Sanità e la Commissione internazionale per la
    protezione dalle radiazioni non ionizzanti, della validità degli attuali limiti elettromagnetici e degli standard di
    misurazione, previsti dal D.P.C.M. 8 luglio 2003, alla luce delle nuove tecnologie e dei nuovi strumenti in via di
    adozione.
    La presente segnalazione sarà pubblicata nel Bollettino di cui all’articolo 26 della legge n. 287/90.
    IL PRESIDENTE f.f.
    Gabriella Muscolo

     

    https://www.agcm.it/chi-siamo/collegio/gabriella-muscolo

     

  • 5G: che cos’è e perché non c’è da allarmarsi | Altroconsumo

    https://www.altroconsumo.it/hi-tech/smartphone/speciali/5g-salute

    5G: che cos’è e perché non c’è da allarmarsi

    Il 5G è la tecnologia di rete mobile che si prepara a superare l’attuale 4G LTE. Al momento è in fase sperimentale in alcune città. Abbiamo fatto le prime prove sul campo: la rete è ancora instabile, ma come funzionerà e quali i pro e i contro che potrebbe comportare in futuro? Tanti i timori sui pericoli per la salute, persino rispetto a una sua possibile correlazione con la diffusione del coronavirus: ma non fatevi allarmare da tutto ciò che si sente dire. Abbiamo analizzato gli studi più citati a riguardo.

    • di
    • Stefania Villa

    29 luglio 2020

    Reti 5G, quali vantaggi e quali rischi per la salute

    L’Italia si sta preparando a quella che viene definita la “rivoluzione” del 5G. Ma, mentre le sperimentazioni di questa nuova tecnologia di connessione mobile sono già in corso, circolano anche grandi timori sui rischi che potrebbe comportare per la salute pubblica. Ecco cos’è il 5G e perché non bisogna allarmarsi.

    Cos’è il 5G

    Con il termine 5G si indicano tecnologie e standard di nuova generazione per la comunicazione mobile. Questa “quinta generazione”, che segue le precedenti 2G, 3G e 4G, è quindi la tecnologia di connessione che utilizzeranno i nostri smartphone, ma anche e soprattutto i tanti di oggetti connessi (IoT, Internet of things) intorno a noi, destinati a essere sempre più numerosi (elettrodomestici, auto, semafori, lampioni, orologi…). Una delle caratteristiche principali di questa rete è, infatti, proprio quella di permettere molte più connessioni in contemporanea, con alta velocità e tempi di risposta molto rapidi.

    Non si tratta, inoltre, della semplice evoluzione dell’attuale rete 4G, perché ha caratteristiche tecniche completamente diverse, non solo per la quantità di banda più ampia e per la velocità; si tratta proprio di un modo diverso di gestire le comunicazioni e la copertura, con frequenzeantenne e tecniche di trasmissione dei dati differenti rispetto al passato.

    Quando arriverà il 5G

    L’implementazione della rete 5G sta attraversando una fase sperimentale in alcune aree del territorio italiano e il 2020 – secondo quanto annunciato – dovrebbe essere l’anno in cui si raggiungono copertura e servizi maggiori. Per le sperimentazioni, gli operatori sono attivi in modo differenti in varie città: ad esempio Vodafone sta coprendo Roma, MilanoTorinoBologna e NapoliTim è presente in città come TorinoGenovaSan RemoSan MarinoBari e Matera. Wind Tre ha puntato ad esempio su Prato e L’AquilaIliad sembra da tempo sui blocchi di partenza. Tim e Fastweb già mesi fa promettevano diffusione a tutti entro il 2020, così come Vodafone sul sito annunciava una copertura del territorio italiano, progressivamente nelle principali città, nel corso dei prossimi anni.

    Vantaggi e svantaggi

    Rispetto alle precedenti tecnologie, permette maggiore velocità di trasmissione, tempi di risposta (latenza) più rapidi e la possibilità di gestire un numero molto superiore di connessioni in contemporanea.

    Per quanto riguarda la velocità, potenzialmente il 5G può arrivare fino a 10 Gigabit per secondo. La prospettiva più accreditata ipotizza però una velocità 10 volte più elevata rispetto al 4G. Se quindi, per fare un esempio, consideriamo di passare dai 25 megabit al secondo del 4G ai 250 megabit al secondo del 5G, si potrebbe scaricare un cd audio (700 megabyte) in una ventina di secondi, contro gli attuali 4 minuti.

    Le prestazioni saranno superiori soprattutto in termini di latenza, cioè di tempi di risposta al comando dato all’oggetto connesso (ad esempio, se pensiamo alle auto connesse, è il tempo che trascorre tra quando un sensore per la strada che indica lo stop trasmette all’auto il comando di fermarsi e il momento in cui l’auto effettivamente si ferma). Questo tempo di risposta scenderà a 1-10 millisecondi, circa 10 volte meno degli attuali 50-100 millisecondi del 4G (e questo è uno degli aspetti considerati più importanti per i nuovi servizi digitali che si pensa di sviluppare).

    Il fatto che gran parte del lavoro, nelle reti 5G, sia fatto dal sistema di antenne e non dall’hardware dello smartphone, potrebbe anche comportare un notevole risparmio energetico, con una maggiore durata delle batterie dei device.

    I veri cambiamenti per le persone, però, non saranno solo relativi alla velocità e alle prestazioni dei loro dispositivi, saranno legati soprattutto ai potenziali nuovi servizi possibili.Quali nuovi servizi renderà possibili il 5G?

    Il 5G consente la connessione di milioni di oggetti e sensori molto vicini tra loro (i servizi “massive IoT”), fondamentali per la digitalizzazione delle infrastrutture stradali, gli sviluppi della smart city, della smart home e della guida autonoma.

    Facciamo qualche esempio dalle sperimentazioni attualmente previste nelle varie città per capire a cosa può servire il 5G in futuro.

    Sicurezza: la tecnologia 5G verrà testata per la trasmissione di video ad altissima risoluzione fatte da droni che sorvoleranno aree sensibili o inaccessibili, colpite ad esempio da calamità naturali. La qualità dell’immagine, la trasmissione rapida e i rapidi tempi di risposta ai comandi da remoto possono potenzialmente facilitare il monitoraggio e il primo soccorso in situazioni di particolare pericolo.

    Città intelligenti: sensori IoT in determinati punti della città comunicheranno in tempo reale a una centrale operativa i dati rilevati sul traffico, sull’occupazione dello spazio ad esempio in occasione di grandi eventi, sulla mobilità, la congestione dei parcheggi, l’illuminazione, la situazione dei rifiuti (tramite cestini connessi), consentendo di gestire da remoto e in modo rapido le situazioni critiche o migliorabili. Ad esempio: lampioni dotati di sensori potranno auto-regolarsi in base alla quantità di luce necessaria e comunicare eventuali guasti in tempo reale alle centrali operative.

    Medicina: la bassa latenza (tempi di risposta rapidi) della rete 5G può permettere al medico di effettuare una seduta di riabilitazione a distanza, controllando da remoto l’esecuzione dei movimenti del paziente guidato da un robot e interagendo con esso in tempo reale. In particolare per le applicazioni in ambito medico, una rete affidabile e veloce, senza ritardi nella risposta, viene considerata fondamentale (pensiamo ai possibili sviluppi della telechirurgia). Verrà sperimentata anche un’ambulanza connessa: la condivisione in tempo reale dei parametri vitali e la videochiamata ad elevata risoluzione tra l’ambulanza e il medico dall’ospedale possono consentire di diagnosticare e intervenire su specifiche patologie durante il trasporto al pronto soccorso. Il personale dell’ambulanza è inoltre supportato da occhiali intelligenti che gli consentono di visualizzare in realtà aumentata la storia clinica del paziente e protocolli di soccorso complessi.

    Tempo libero: il 5G verrà testato in particolare nei musei; attraverso i visori gli utenti potranno visualizzare informazioni aggiuntive sull’opera e, a ogni loro spostamento, l’aggiornamento di queste informazioni potrà avvenire in tempo reale, senza ritardi. Molte le applicazioni a cui si pensa anche nell’ambito delle manifestazioni sportive, per fornire un intrattenimento supplementare agli spettatori (statistiche dei giocatori, replay di episodi ecc.) Industria: sono in fase di test servizi di realtà aumentata per l’industria basati sul 5G; gli operatori grazie a visori vedono sullo schermo, affiancate o sovrapposte alle immagini reali, immagini virtuali che danno istruzioni o informazioni per svolgere le attività in modo più rapido e sicuro.Quali sono i contro?

    Usare il 5G: quali cellulari lo supportano

    I modelli di telefono in vendita in Italia che supportano le reti 5G aumentano e il loro prezzo varia molto, si va dai circa 400 euro ai circa 1.300 euro. Ecco quali sono al momento i telefoni 5G disponibili sul mercato (dati aggiornati ad aprile 2020).

    • Huawei  Mate Xs 5G
    • Huawei  P40
    • Huawei  P40 Pro
    • Huawei  Mate 20x 5G
    • LG  V50 ThinQ 5G
    • Oppo Reno 5G
    • Samsung Galaxy S20 5G
    • Samsung Galaxy S20+ 5G
    • Samsung Galaxy S20 Ultra 5G
    • Samsung Galaxy Note 10+ 5G
    • Samsung Galaxy S10 5G
    • Vivo Nex 3 5G
    • Xiaomi Mi Mix3 5G 

    Ne abbiamo testati diversi. I risultati sono qui (per vederli seleziona “5G” nei filtri).Quali sono le tariffe e le offerte disponibili?

    Il mercato è in rapida evoluzione e si è mosso per proporre tariffe ad hoc che supportano la nuova tecnologia di rete. Nel momento della nostra ultima rilevazione (novembre 2019), solo Vodafone e Tim avevano tariffe specifiche per il 5G.

    Vodafone ha lanciato Vodafone Infinito con giga, minuti, sms, minuti verso l’Unione Europea illimitati a 26.99 euro al mese. Altre tariffe sono.

    • Vodafone Red Unlimited Smart. 40 giga, minuti e sms illimitati. In più giga illimitati per app social, chat, musica e mappe. Il tutto a 18.99 euro al mese.
    • Vodafone Red Unlimited Ultra. 30 giga, minuti e sms illimitati. In più un giga e 200 minuti per il roaming, giga illimitati per app social, chat, musica e mappe. Il tutto a 24.99 euro al mese.
    • Vodafone shake it easy (per gli under 30). 60 giga, minuti e sms illimitati. In più giga illimitati per app, social, chat, musica e mappe. Il tutto a 14.99 euro al mese.

    Tim, invece, offre una sola tariffa in due versioni.

    • Tim Advance con 50 giga, minuti e sms illimitati, roaming Ue incluso. Il tutto a 29.99 euro al mese.
    • Tim Advance TOP con 100 giga, minuti e sms illimitati, roaming UE e 250 minuti verso l’estero. In più 3 giga extra e Timegams incluso. Il tutto a 49.99 euro al mese(ne abbiamo parlato qui).

    Possiamo dire che alcune di queste tariffe sono decisamente al di sopra della media delle tariffe 4G: tre di queste tariffe superano i 25 euro al mese e una arriva quasi a 50 euro al mese.È già il momento di comprare un dispositivo 5G?

    Data la fase sperimentale, è ancora prematuro acquistare un dispositivo che supporti questa tecnologia, considerando anche il fatto che la rete non è ancora diffusa in maniera capillare e pecca di stabilità.Come funziona al momento la rete? Le nostre prove

    A novembre del 2019 abbiamo fatto delle prove sul campo a Milano per capire se e come fosse migliorata la copertura della rete rispetto a qualche mese prima (la rilevazione precedente l’avevamo fatta a giugno 2019). La situazione sembrava essere migliorata ma rimaneva comunque poco uniforme, a macchia di leopardo, e la performance del 5G era spesso comparabile a quella della miglior rete 4G+.

    Ad esempio, in Piazza Duomo, la scorsa estate il 5G era veramente performante, a novembre abbiamo trovato solo una copertura 4G+. In Piazza Gae Aulenti e dintorni la copertura, diversamente dall’estate scorsa, a novembre 2019 c’era ma la velocità era inferiore a quella del 4G+ di Pazza Duomo. In zona Piazzale Maciachini il 5G era presente a novembre mentre non c’era qualche mese prima. Stessa cosa l’abbiamo vista in altre zone della città, Piola Politecnico ad esempio, che in precedenza non erano coperte.

    Il 5G: effetti sulla salute

    Nonostante il panico scatenatosi intorno al 5G (si teme sarà causa di varie malattie, ad esempio tumori), al momento non ci sono dati che permettono di escludere o confermare che questa nuova tecnologia abbia effetti dannosi per la salute o meno (non ci sono risposte chiare e definitive neanche sulle tecnologie precedenti, figuriamoci sul 5G che è ancora agli albori). Per poter valutare i potenziali effetti negativi sulla salute del 5G possiamo però rifarci alle prove disponibili sugli effetti delle emissioni legate a 2G e 3G, cercando di ipotizzare cosa possa verificarsi in conseguenza di esposizioni differenti. Ma anche in questo caso, serviranno anni di studi dalla sua diffusione per avere risposte chiare. Quello che sappiamo fino ad ora, però, rassicura più che allarmare: il 5G viaggerà sì su frequenze più elevate rispetto a 2G, 3G e 4G (e questo è uno degli elementi che spaventa), ma la rete di antenne, in realtà, utilizzerà segnali dotati di potenza inferiore (spieghiamo in seguito perché). Inoltre resta fermo il fatto che, anche se a frequenze maggiori, la capacità di penetrazione di queste onde nei tessuti umani rimane sempre molto bassa e limitata agli strati superficiali della pelle, mancando anche l’energia necessaria per causare un danno al Dna. Con una rete di questo genere, per la capillarità delle antenne del 5G, l’intensità dei segnali necessari e le frequenze utilizzate, viene da pensare a un’esposizione limitata e dagli effetti negativi paragonabili o addirittura inferiori a quelli derivanti dall’uso di tecnologie precedenti. Molto, poi, dipenderà dai livelli di esposizione che si genereranno, visti i crescenti servizi e oggetti connessi, ma è difficile fare previsioni (i livelli massimi per i campi elettromagnetici di dispositivi e antenne sono comunque soggetti a limiti di legge, al momento molto cautelativi).

    Quali sono i timori?

    Ecco quali sono i dubbi che potrebbero venire sul 5G se ci si ritrovasse a leggere un po’ di contenuti circolanti sul tema. Ed ecco perché in molti casi si tratta di false credenze o “mezze verità”, che vanno molto ridimensionate.“Saremo bombardati da onde millimetriche più rischiose per la salute”

    Partiamo dal principio: tutto ciò che si fa con cellulari e oggetti connessi è possibile perché questi dispositivi emettono e ricevono onde elettromagnetiche, che consentono a un certo impulso, che parte da un punto, di arrivare a un altro a cui non è collegato fisicamente (quello che succede, ad esempio, quando facciamo una ricerca online dal telefono e la nostra richiesta arriva al server del motore di ricerca che poi ci invia una risposta).

    Queste onde hanno una certa frequenza (si tratta del numero di onde che passano per un dato punto ad ogni secondo, misurato in Herz) e una certa lunghezza d’onda (cioè la distanza tra due creste successive) che le caratterizza come onde radio. Ma le onde radio possono avere lunghezza d’onda molto grandi (come quelle che raggiungono le radio) o molto piccole (come quelle che usano i telefoni cellulari). Più le onde hanno frequenza elevata e più diventano piccole.

    Ora, il 5G ha la peculiarità di lavorare su molte frequenze dello spettro delle onde radio, anche più elevate rispetto a quelle già utilizzate da tecnologie precedenti. Questa ampiezza di banda permetterà di far funzionare molti apparecchi connessi contemporaneamente con una migliore copertura e usando una certa banda in funzione del tipo di traffico necessario. Per capire la differenza rispetto al passato, se i sistemi cellulari hanno, fino al 4G, occupato alcune bande di frequenza tra i 900 MHz e i 2,6 GHz, il 5G, in Italia, parte invece sulla banda di frequenze dei 3.6-3.8 GHz e sui 26.5 – 27.5 GHz, frequenze molto più elevate che consentiranno grandi velocità di trasmissione e grosse quantità di dati. Poi ci sarà anche la banda dei 700 MHz che garantirà invece maggiore copertura aggirando ostacoli che sono un problema per le onde a frequenza più elevata e che sarà liberata nel 2022 (ora è occupata dalla tv digitale terrestre; le persone infatti dovranno anche aggiornare la loro tv per questo.

    Viaggiando sulle frequenze molto elevate dei 26.5 – 27.5 GHz, il 5G si propagherà anche attraverso onde elettromagnetiche molto piccole, con una lunghezza d’onda di pochi millimetri, dette appunto millimetriche. Ecco cosa sono le famigerate onde millimetriche. Il termine, senza sapere bene di cosa si tratta, potrebbe intimorire, ma bisogna davvero averne paura? In realtà no.

    Una correlazione tra la frequenza delle onde elettromagnetiche e la loro capacità di penetrare nei tessuti c’è, questo è vero ma – nell’ambito delle onde radio utilizzate nelle telecomunicazioni – in realtà, più è alta la frequenza, più è bassa la capacità di penetrazione. Quindi le alte frequenze che verranno utilizzate nel 5G hanno, in realtà, solo una limitatissima capacità di penetrare i tessuti, come la pelle, inferiore a quella di onde a più bassa frequenza. Inoltre non hanno l’energia necessaria a causare danni a livello del Dna delle cellule, cosa che invece possiedono le onde nello spettro dei raggi UV o dei raggi X.

    C’è chi teme che queste onde si andranno a sommare a quelle del 2G, 3G e 4G e vede in questo il pericolo: in realtà il 5G dovrebbe sostituirsi per alcuni servizi alle reti più vecchie, andando quindi a rimpiazzare le emissioni più elevate.

    Inoltre non dimentichiamo che ci sono dei limiti di sicurezza imposti all’intensità dell’emissione di onde elettromagnetiche: 6 volt/metro per quanto riguarda i campi elettromagnetici generati dalle antenne (tv, radio, ripetitori telefonici…), un limite piuttosto cautelativo (la media europea è 60 volt/metro).

    Per quanto riguarda i cellulari, invece, c’è il Sar (Specific Absorption Rate) che misura la quantità di radiazioni assorbite dal corpo e le traduce nel rischio di effetto termico al quale è esposto. Per garantire la sicurezza degli utenti l’Ue ha fissato a 2 W/kg (watt per chilo) il limite massimo del Sar consentito per le emissioni dei cellulari, onde evitare ogni effetto termico (nei nostri ultimi test, valutando anche situazioni d’uso reale, nessun cellulare si è avvicinato ai limiti imposti dalla legge, anche se la cautela nell’uso dei cellulari è sempre consigliata.“Ci saranno milioni di mini-antenne intorno a noi dannose per la nostra salute”

    Che ci saranno più antenne, più piccole, molto più vicine fra loro è vero. Ma che questo sia in automatico uguale a “danno maggiore per la salute”, no.

    Quando parliamo di antenne, intanto, non bisogna pensare al classico enorme traliccio: si tratterà di dispositivi simili a delle scatole, di dimensioni ridotte, che verranno applicati ad esempio su lampioni, palazzi o semafori. La loro moltiplicazione sarà necessaria perché le onde del 5G, viaggiando a frequenze molto elevate, sono più “fragili” e hanno una minore capacità di diffondersi attraverso l’aria, superando ostacoli quali la vegetazione e gli edifici. Quindi, per non perdere il segnale, dovranno essere installate più antenne, più capillari ma – allo stesso tempo – di minore potenza rispetto alle precedenti, proprio perché le antenne saranno più vicine e dovranno coprire celle, cioè porzioni di territorio, più piccole (oltre alle antenne, parte della copertura sarà garantita anche da satelliti nello spazio).

    Questo significa che – ha sottolineato anche l’Istituto superiore di sanità – le potenze utilizzate dal 5G saranno più basse di quelle utilizzate fino ad ora nelle telecomunicazioni mobili e che le onde si fermeranno a un livello molto superficiale della pelle.

    Il timore diffusosi rispetto alla pericolosità delle antenne del 5G ricorda un po’ quanto già accaduto nel passaggio dalle prime reti GSM alle frequenze UMTS e LTE (quelle delle ultime reti 4G e 4,5G): anche in quel caso ci fu un aumento delle frequenze, con il moltiplicarsi di antenne ma di minore potenza, quindi un maggior impatto visivo con il diffondersi di timori per la salute (specie da parte di chi si trovava in prossimità). E questo è accaduto nonostante la migliore copertura di più antenne garantisse, anche in quel caso, minori intensità e nonostante le frequenze in gioco avessero bassissima capacità di penetrazione nei tessuti. 

    Quando ci vengono presentate teorie sulla nocività delle radiazioni emesse dalle antenne, inoltre, ricordiamoci che tutti i dati della comunità scientifica che al momento consentono di fare qualche ipotesi sugli effetti delle onde elettromagnetiche, riguardano soprattutto i rischi legati alle onde emesse dai cellulari e non dai ripetitori, che – non essendo attaccati alla testa degli utenti come uno smartphone – implicano un’esposizione inferiore.“Studi su topi e ratti dimostrano che il 5G e le onde elettromagnetiche sono cancerogeni”

    A sostegno dei timori sui rischi per la salute del 5G, vengono spesso citati due recenti studi che riscontrerebbero un’associazione tra l’esposizione di topi e ratti a onde nelle frequenze del 2G e 3G e lo sviluppo di tumori: uno dell’US National Toxicology Program (programma del Dipartimento Salute degli Stati Uniti) e uno dell’Istituto Ramazzini (centro di ricerca di Bologna). Siamo andati a vedere insieme ai nostri esperti cosa dicono questi studi per renderci conto che i risultati portati a sostegno delle tesi più allarmistiche sono tutt’altro che preoccupanti e vanno notevolmente ridimensionati.  

    Precisiamo che si tratta di studi in cui si valutano gli effetti di esposizioni a radiofrequenze di tecnologie superate. Questo quindi non permetterebbe di trasferire i dati su tecnologie di tipo nuovo (quello a cui possono servire gli studi sulle tecnologie precedenti è cercare di capire che tipo di rischio abbiamo corso fino ad ora e quale tipo di rischio possiamo prospettare per il futuro).

    Non solo: come vedremo, le modalità e i tempi di esposizione testati sono davvero molto diversi da quanto si verifica nel quotidiano. Infatti, l’intento di questi studi non era quello di valutare i rischi corsi dai consumatori esposti alle radiazioni di cellulari e antenne nella vita reale (per questo ci sono gli studi detti epidemiologici) quanto, in generale, valutare la possibilità che l’esposizione alle radiofrequenze possa produrre determinati effetti biologici dannosi. Nello specifico, effetti cancerogeni.  

    Il primo studio del NTP è stato svolto su circa 2.500 topi e ratti, esposti su tutto il corpo a livelli di radiazioni elettromagnetiche molto elevati, con l’intenzione di mimare l’esposizione locale del cellulare all’orecchio, ma con tempi e modalità estremi. Ratti e topi sono stati esposti prima della nascita e dopo la nascita, per 107 settimane consecutive (circa 2 anni), tutti i giorni, a brevi periodi alternati di 10 minuti sulle 18 ore, per un totale di circa 9 ore di esposizione quotidiane. Quanto è sovrapponibile tutto ciò al nostro tipo di esposizione? Molto poco. 

    Il livello massimo di Sar a cui le cavie sono state sottoposte è stato di 10 W/Kg, il minimo 1,5 W/Kg, quando il limite europeo per l’esposizione locale (alla testa) è 2 W/Kg. Se si va a leggere le carte, lo dice lo stesso NTP nel suo studio: “I livelli di esposizione e la loro durata sono maggiori rispetto a quanto le persone possono ricevere dai cellulari”.  

    Si legge tra i risultati: “Chiare evidenze di tumori al cuore (Schwannomi) nei ratti maschi” e “Alcune evidenze di tumori al cervello dei ratti maschi”.

    Tutti i risultati “allarmanti”, inspiegabilmente, riguardano i ratti e non i topi. E solo i maschi e non le femmine. In realtà non ci sono giustificazioni per cui topi (maschi e femmine) e ratti femmine non dovrebbero mostrare effetti nocivi dall’esposizione continua a radiofrequenze, mentre i ratti maschi sì. Così come non ci sono motivi per cui gli effetti dannosi dovrebbero manifestarsi in maniera significativa solo a livello dei nervi del cuore e al cervello, quando l’irraggiamento ha coinvolto tutti gli organi e tutte le diramazioni nervose del corpo dei ratti maschi.  

    A parte questo, i vari risultati, visti da vicino, restituiscono un quadro meno preoccupante di quanto lasci pensare chi vuole infondere il panico: il numero di tumori riscontrato a livello di cervello e cuore, intanto, è sempre molto piccolo, spesso nel range dell’atteso storico per questi animali, cioè di quanto avviene normalmente, senza esposizione alle onde elettromagnetiche. Questo è un elemento fondamentale perché rende difficile capire se le differenze riscontrate tra topi esposti e non esposti siano significative.  

    Inoltre, per quello che in ambito clinico viene definito “effetto dose”, ci si dovrebbe aspettare che se un’associazione tra radiazioni e tumori c’è, più l’irraggiamento è intenso, più tumori dovrebbero presentarsi. Ma questo effetto nello studio non è emerso: a volte si vedono più tumori a livelli di esposizione più bassi, ma non a livelli più alti; a volte, si vede lo stesso numero di tumori a tutti i livelli, senza aumenti all’aumentare delle intensità dell’irraggiamento.  

    Risulta bizzarro, inoltre, che i ratti maschi esposti a radiofrequenze a distanza di due anni siano morti in misura inferiore rispetto a quelli non irraggiati; è come dire che l’esposizione a radiofrequenze possa allungare la vita.  

    Tutto questo, insomma, insieme al fatto che non sono emerse differenze significative per tumori in altri tessuti altrettanto irraggiati, contribuisce a un quadro finale un po’ confuso dei risultati di questo studio, che non ci permette di capire se i maggiori rischi riscontrati a livello cerebrale e cardiaco nei ratti maschi – comunque non privi di incoerenza – sono effetto del caso o del reale effetto cancerogeno (evidentemente modesto, se teniamo conto di questi dati) delle emissioni. Tutto ciò, unito al fatto che si è trattata di un’esposizione alle onde elettromagnetiche non realistica, non può che farci concludere che non c’è giustificazione all’allarme scatenato in rete.  

    L’istituto Ramazzini ha condotto uno studio simile al NTP, ma con un’esposizione diversa, volta a replicare l’esposizione ai campi generati dalle onde emesse dalle antenne, più che dai cellulari. Questo ha comportato l’esposizione di circa 2.500 ratti, a livelli d’emissione più bassi di quelli usati nell’NTP, dalle dieci alle mille volte, A seguito della pubblicazione preliminare dei dati dell’NTP, anche il Ramazzini ha voluto pubblicare i suoi, limitatamente alle osservazioni sui tumori (cardiaci e cerebrali), quelli che nello studio NTP erano risultati correlabili a una esposizione.  

    Tra i risultati enunciati si trova appunto: aumento dei gliomi cerebrali (un tipo di tumore cerebrale) e aumento “statisticamente significativo” dell’incidenza di tumori cardiaci (Schwannomi) nei ratti maschi.  

    Partendo dai gliomi, in realtà, se si va a leggere tra le righe dello studio, si legge: “non ci sono aumenti significativi nell’incidenza di lesioni tumorali o pre-tumorali del cervello”. Per cui deve esserci stato un qualche aumento “non significativo” – comunque sottolineato nei risultati – che però non è così chiaro.  

    Per quanto riguarda gli Schwannomi cardiaci, anche in questo caso, il dato significativo è stato riscontrato, inspiegabilmente, solo nei ratti maschi esposti ai livelli di radiazioni più elevati: un riscontro di un 1,4% di tumori al cuore rispetto a uno 0% nei ratti maschi non esposti a onde elettromagnetiche (cosiddetto gruppo di controllo).

    Questo dato risulta significativo perché, nell’arco di due anni, nessuna cavia nel gruppo di controllo maschile (quello 0%) ha sviluppato quel tipo di tumore. E questo, in realtà, è strano, perché generalmente ci si attenderebbe che tra i ratti maschi – anche non irraggiati – si presenti comunque qualche caso. Cosa che al contrario è avvenuta, come atteso, tra le cavie femmine (per cui infatti non si riscontrano differenze significative nell’insorgenza di tumori tra le cavie esposte e quelle non esposte).  

    In sostanza, il risultato nei maschi è significativo solo perché, casualmente, nel gruppo di controllo non irraggiato da onde elettromagnetiche non è stato riscontrato alcun tumore e questo ha in qualche modo sovrastimato i rischi. Tanto che se si confronta il totale dei tumori cardiaci osservati in generale (sia nei ratti maschi che femmine, irraggiati alla massima intensità testata), non ci sono differenze significative rispetto al gruppo controllo non irraggiato.  

    Altri elementi contraddittori: alle cavie femmine non irraggiate sono venuti tanti tumori quanto a quelle irraggiate alla massima frequenza; inoltre, i tumori cardiaci sono stati più frequenti in corrispondenza di esposizioni di livello più basso che alle massime esposizioni usate nello studio (dieci volte più alte).  

    Ci sono delle incoerenze anche tra i due studi: nonostante in quello del Ramazzini si espongano i ratti a emissioni inferiori, il numero di Schwannomi osservato è molto più alto di quello rilevato nell’NTP, che ha previsto esposizioni fino a mille volte maggiori.  

    Tutto – ancora – fa pensare a risultati casuali, difficilmente imputabili a un reale effetto cancerogeno delle onde elettromagnetiche.“Se non ci sono certezze, non si dovrebbe permettere la sperimentazione del 5G”

    Questa convinzione richiama il cosiddetto principio di precauzione, che viene spesso invocato come scudo da chi si oppone al 5G, partendo dal presupposto che finché non si ha la certezza che qualcosa sia sicuro, allora va evitato.

    Il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea che lo definisce, però, non dice questo: il principio di precauzione deve essere un approccio utile per adottare delle decisioni in presenza di potenziali rischi per la popolazione o per l’ambiente. Ma il principio, di per sé, non comporta un blocco degli sviluppi di fronte a un rischio potenziale: prevede invece che il rischio venga analizzato, in modo ampio e continuo, comunicato e gestito. E che quindi si prendano delle decisioni proporzionate al livello di rischio (misure di precauzione), mettendo sulla bilancia benefici e rischi dell’innovare e del non innovare.

    Perfino con i farmaci, che prevedono uno dei percorsi di controllo più cauti, accettiamo un certo livello di incertezza. Le sperimentazioni, per natura, hanno dei limiti e per nessuna innovazione avremo mai la certezza che sia sicura al 100% al momento del suo primo impiego. Ma una buona fiducia nel fatto che lo sia, invece, sì.“Il 5G abbassa le difese immunitarie”

    Non ci sono evidenze che l’esposizione a campi magnetici nelle frequenze del 5G abbia una qualche influenza su difese immunitarie e rischio di infezione.“Il coronavirus si trasmette più rapidamente grazie alle onde elettromagnetiche del 5G”

    Il coronavirus è un virus respiratorio e si trasmette principalmente per via aerea da persona a persona attraverso le goccioline di saliva. Oltre a questa via, che resta la principale, il virus potrebbe trasmettersi anche per via indiretta toccando le mucose della bocca, del naso o degli occhi con una mano “contaminata”. Più dettagli qui. Dal punto di vista fisico sappiamo, inoltre, che le onde elettromagnetiche non trasportano materia, ma energia, quindi il virus non può viaggiare tramite onde elettromagnetiche.“La diffusione del coronavirus è correlata al 5G”

    In rete circola questa falsa credenzal’epidemia è scoppiata a Wuhan e nel Nord Italia, cioè proprio dove è iniziata la sperimentazione del 5G, e questo ci dice che la diffusione del coronavirus è correlata al 5G. Ma i temi che smentiscono questa tesi sono diversi: intanto, basterebbe osservare che l’epidemia si è diffusa in modo consistente anche in paesi in cui non c’è traccia di 5G (ad esempio l’Iran). Inoltre – e soprattutto, dal punto di vista scientifico – il fatto che due eventi (la diffusione del 5G e quella del coronavirus) si presentino in contemporanea o abbiano simile andamento, non costituisce di per sé una prova del loro legame. Una correlazione diventa credibile quando due eventi si associano in modo sistematico, non in soli due casi, ma in numerosi, quando più studi dimostrano l’esistenza e la forza del legame, e quando abbiamo tolto di mezzo la possibilità che l’associazione sia spiegabile da fattori confondenti (ad esempio nel nostro caso la densità di popolazione delle aree interessate). Infine, altro concetto fondamentale per la scienza, una correlazione tra due variabili non implica causalità. Facciamo un esempio per capire meglio il tutto: il consumo di gelati e l’aumento del numero di decessi per annegamento in mare sono apparentemente correlati; entrambi i dati, infatti, aumentano insieme. Ma da questo fenomeno non si può certamente dedurre un nesso di causalità tra i due dati, traendo l’errata conclusione che mangiare gelati faccia annegare (semmai entrambi gli aumenti sono effetto dell’arrivo dell’estate).  Per ultimo, l’associazione deve essere plausibile da un punto di vista scientifico: quale dovrebbe essere il meccanismo per cui il 5G aumenta la diffusione? Come abbiamo visto prima, le onde non aiutano il virus a muoversi nell’aria e non ci sono evidenza di alterazioni del sistema immunitario.

    Conclusione: le onde elettromagnetiche sono pericolose?

    Sulle onde elettromagnetiche emesse con il 5G, come dicevamo, non ci sono ancora dati che permettono di capire se ha effetti dannosi. Ci sono dati validi, riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale, sull’esposizione alle frequenze di 2G e 3G, dati che non danno ancora risposte definitive e che, comunque, non possono essere trasferite in automatico sul 5G (antenne e frequenze sono molto diverse).

    Si tratta, comunque, di analisi da cui emerge un quadro contraddittorio, ma tendenzialmente non preoccupante. Alcuni studi di tipo caso-controllo (basati sul confronto tra malati e sani rispetto al tipo di esposizione che hanno avuto in passato) hanno rilevato un lieve aumento del rischio di tumori cerebrali e del nervo acustico nelle persone con un uso elevato e prolungato del cellulare (non si parla di antenne), mentre altri studi epidemiologici (considerati più chiari nelle conclusioni perché verificano nel tempo l’emergere dei casi), ci dicono che da prima dell’arrivo del cellulare ad oggi non c’è stato un aumento significativo dei tumori ascrivibile all’uso del cellulare. Lo Iarc (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro) sulla base di queste analisi, ha classificato i campi elettromagnetici a radiofrequenza come cancerogeni di gruppo 2B, ovvero come “possibilmente cancerogeni”: è il livello più basso di rischio, usato quando ci sono prove limitate. Sulla base di quello che vediamo, quindi, non dobbiamo preoccuparci particolarmente; ma per evitare qualsiasi tipo rischio anche solo potenziale, è sempre meglio adottare alcuni semplici accorgimenti in modo da ridurre l’esposizione di testa e corpo alle emissioni dei cellulari. E bastano davvero pochi centimetri perché il livello di esposizione si riduca drasticamente: ne abbiamo parlato qui.