Autore: panfoli

  • Cosa vuole ottenere la Russia dalla guerra in Ucraina: l’eterno obiettivo del Cremlino

    Cosa vuole ottenere la Russia dalla guerra in Ucraina: l’eterno obiettivo del Cremlino

    Paolo Guzzanti — 10 Giugno 2022

    Non è mai esistita una dura (ma cavalleresca) Guerra Fredda fra due ideologie, il Capitalismo e il Socialismo, a causa delle quali due mondi si sono fronteggiati per mezzo secolo con le armi al piede finché una delle due è implosa– la Russia sovietica – lasciando l’altra, l’America vincitrice unica e padrona del campo. Mai. Ci abbiamo creduto quasi tutti. Ma Enrico Berlinguer, che però non seppe sfruttare in modo vincente la sua intuizione, lo capì al volo. Fu quando gli americani fecero al Cile – in modo traumatizzante ma meno cruento – quel che la Russia oggi fa all’Ucraina.

    La situazione allora era simile a quella che seguì la fine delle guerre di religione in Europa. Se sei il Cile, devi stare in campo americano e se sei Ucraina (o Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia) devi stare in campo russo, zitto e Mosca. Berlinguer vide che fine aveva fatto Salvador Allende, analoga a quella di Imre Nagy in Ungheria o di Dubcek a Praga, o dell’angosciato Gomulka a Varsavia, e scrisse una serie di articoloni su Rinascita in cui diceva più o meno così: cari democristiani, noi comunisti sappiamo che voi vorreste fare un governo con noi comunisti lasciando a secco quei maledetti socialisti che abbiamo sempre odiato. Ma gli americani non vogliono comunisti in alcun governo in cui si condividano segreti militari per la sempre imminente guerra con la Russia, e allora io ho avuto un’idea: cerchiamo di aggiustarci fra di noi dando garanzie militari al nostro referente egemonico per evitare che quello, in preda a una crisi di nervi, ci faccia fuori. All’altro referente egemonico, quello di noi comunisti, ci penso io: farò una manovra di lento distacco ideologico ma senza fratture e che dio ce la mandi buona. Lo chiameremo “compromesso storico”.

    La fine è nota. Il punto è: fra il 1946 e oggi abbiamo sempre vissuto un’unica lunga guerra di preludio a una possibile, imminente e mai scongiurata Terza guerra mondiale, quella che se mai scoppierà si giocherà con missili intercontinentali nucleari. Controprova: lo stesso Berlinguer – fallito il grande disegno di escamotage politico con la micidiale liquidazione del partner Aldo Moro (che per conto degli Occidentali avrebbe dovuto fare da garante dal Quirinale, da cui fu sloggiato il Presidente della Repubblica Giovanni Leone con una campagna di stampa condotta in perfetto stile di “disinformatzija” sovietica – riallineato sul fronte strettamente militare della guerra fra Occidente e Russia, scelse la Russia, che aveva schierato contro l’Europa batterie di missili a medio raggio SS20. E lo fece mobilitando tutte le forze politiche di obbedienza moscovita a fare il diavolo a quattro affinché non fossero schierati, in risposta ai missili russi, i missili americani Pershing e Cruise adatti a riequilibrare il gap strategico.

    In Italia vinsero gli euromissili grazie allo schieramento dei socialisti di Craxi e i repubblicani di Spadolini e questo evento politico si trasformò in un atto di guerra politica violentissima di cui abbiamo perso memoria. E qui siamo al dunque: chiunque abbia la curiosità e la pazienza di leggersi i verbali di tutte – tutte – le riunioni annuali dei membri del Patto Di Varsavia – l’Anti-Nato dell’Est – troverà che l’esercitazione era sempre la stessa: “Di fronte ad un vile e proditorio attacco degli eserciti al comando degli Stati Uniti contro le democrazie popolari e dell’Unione Sovietica, le forze del Patto di Varsavia respingono l’attacco e rispondono con una controffensiva che ricaccia gli invasori fino all’Atlantico e li getta in mare”. Tutta la storia della Guerra Fredda è stata un contenuto preludio ad una sempre possibile guerra calda perseguita dal Cremlino, chiunque ci fosse dentro, in vista di una strategia molto semplice che fu studiata ed attuata con particolare cura da Yuri Andropov, il più perfido e geniale capo del Kgb poi diventato segretario del Pcus e sponsor di Michail Gorbaciov. L’operazione era questa: portare l’Europa occidentale in Russia e la Russia in Europa.

    Però la Russia sovietica commise l’errore di svenarsi inoltre i limiti della sua possibilità per ottenere la potenza militare utile per una operazione come quelle descritte nei verbali del Patto di Varsavia e quando il Presidente Donald Reagan dette a bere ai russi di poter varare un costosissimo piano di guerre stellari, l’ex pupillo di Andropov, l’allora giovane Michail Gorbaciov si sottomise con un piano di resa che prevedeva lo sganciamento dei Paesi satelliti che costituivano un peso insostenibile e l’accesso a un enorme prestito per salvare l’economia russa. Fu lì che avvenne il baratto fra i confini della Nato e i prestiti occidentali. Sono stato per cinque anni membro della delegazione parlamentare nella Nato e non ho sentito parlare altro a Washington che della inutilità della Nato che gli americani volevano chiudere perché oltre che inutile era ed è molto costosa, mentre gli europei insistevano perché i paesi che come la Polonia avevano assaggiato le delizie di una dominazione sovietica, volevano assolutamente una protezione americana in Europa alla quale i repubblicani – lo abbiamo ben visto con Donald Trump e la sua politica di America First – non volevano aderire.

    La politica di Trump verso l’Europa era esplicita: fottetevi, cari europei. Pagatevi i vostri eserciti e difendetevi. I russi vi vogliono mangiare? E fanno bene, perché siete una massa di codardi che si arricchiscono mentre noi paghiamo per la vostra sicurezza e indipendenza. Caro Putin, per quanto mi riguarda, ti puoi prendere quell’Europa di parassiti, Noi americani non spenderemo né un dollaro né una goccia di sangue per loro. Non così la pensano i democratici che, come gli inglesi, hanno un conto eternamente aperto con la Russia per tutte le sue spericolate astuzie fin dai tempi dell’infame alleanza fra Stalin e Hitler a spese dell’Europa e degli Stati Uniti. E qui arriviamo al punto di questi giorni: i putiniani. Chi sono, se ci sono. Molto semplicemente i putiniani, per la mia esperienza giornalistica e politica, “i putiniani” sono semplicemente tutti gli anti-americani ideologici e spesso religiosi – l’America la nuova Mammona adoratrice dello sterco del demonio – che in Italia sono forse la maggioranza. Il signor Kolosov che guidò la “residentura” del Kgb a Roma per molti anni, interrogato dalla Commissione di cui ero presidente disse.

    “Tutti gli antiamericani venivano a bussare alla nostra porta e chiedevano di aiutarci contro di loro e di proteggerci, persino, contro di loro. Non erano neppure i comunisti, ma specialmente i democristiani. Parlando a Tripoli con il ministro degli Esteri di Gheddafi, il signor Trekki che si esprimeva in un eloquente francese, costui disse alla delegazione della Commissione Esteri: “Il giorno in cui fu annunciata la fine dell’Unione Sovietica era qui il vostro più grande uomo politico, Giulio Andreotti, il quale pianse e disse: da oggi il mondo è cambiato in peggio: gli americani hanno vinto e saranno padroni del mondo, ci mancherà l’Unione Sovietica”.

    Parole non diverse da quelle pronunciate dallo stesso Vladimir Putin quando dice che la più grande calamità della sua vita è stata la dissoluzione dell’Unione Sovietica, cui peraltro si sta laboriosamente dando da fare per poter rimediare il danno fatto, rincollandone i pezzi col ferro e col fuoco e col sangue. Basta accendere il televisore dopo le venti e trenta per trovare sciami di sapienti che di fronte all’invasione armata di un Paese europeo da parte della Russia gridano che è certamente colpa degli americani ed è molto più di un riflesso condizionato: è – questa è la mia opinione – la coincidenza immediata con il puntinismo, che dichiara apertamente la sua vocazione all’imperialismo nazionalista russo, che non ammette giri di valzer, non consente differenze culturali ma ha bisogno di fedeltà pronta cieca e assoluta al Cremlino, come è sempre stato e come sarà per sempre.

  • Complotto continuo

    Complotto continuo

    Mattia Feltri La Stampa 2 giugno 2022

    Urca, sta arrivando un altro diabolico complotto ordito dalle élite globaliste ai danni del povero, indifeso popolo italiano. Oddio, indifeso non so. Infatti a scorgere il luciferino è stata Giorgia Meloni alla lettura di un report di Goldman Sachs, banca d’affari americana, ovvero zoccoli biforcuti e artigli da usuraio. Che ha detto il comitato di aguzzini? Ha detto che, con la salita dei tassi di interesse, e la possibile vittoria alle elezioni di Lega e F.lli d’Italia, sempre molto ringhiosi verso l’Ue, ci potrebbero essere preoccupazioni sulla sostenibilità del debito. Del resto – aggiungiamo qui – il debito italiano è arrivato a duemila e 786 miliardi di euro (provate a scriverla questa cifra…). Ma a Giorgia non la si fa: i poteri forti ci attaccano perché sono preoccupati e fanno bene a esserlo, ha risposto. Ecco, mettetevi nei panni non dico di un potere forte, anche di un potere medio, o medio piccolo, o un creditore qualsiasi: la risposta di Meloni vi tranquillizzerebbe? Cioè, arriva una che considera la globalizzazione un castello di sabbia di menzogne e, con quella montagna di debito sparsa nei mercati globali, dice che se i mercati globali si preoccupano fanno bene a preoccuparsi. Già la presenza di Matteo Salvini, uno che esulta per un atto di pirateria scambiandolo per una pacifica iniziativa mercantile, non sembrerebbe pienamente rassicurante. Aggiungiamo una leader in pectore la quale, a chi gli ha prestato i soldi, e si spaventa all’idea di non averli indietro, dice ok bello, spaventati pure. Il punto non è se ci siano complotti o no, il punto è che con la destra italiana non ce n’è nemmeno bisogno.

  • Chi non ha mai posseduto un cane, non sa cosa significhi essere amato.

    Chi non ha mai posseduto un cane, non sa cosa significhi essere amato.

    Ricordo una zia, che ormai è morta da molti anni, lei non aveva un animale, e quando sentiva dire da qualcuno che era triste per la morte del proprio animale domestico, non dico che lo irrideva, ma lo trattava con sufficienza (come peraltro farebbero molti di noi). Anni dopo mia zia prese un bastardino. Non ricordo chi glielo regalò, forse mia cugina, penso che lo abbia tenuto con sé una quindicina di anni, anche quando poi rimase sola perché vedova e questo cane era la sua sola compagnia. Ricordo per averlo visto di persona che, quando in mezzo a un discorso e senza guardare il cane, nominava la parola “catenella” per riferirsi al guinzaglio, il cane correva immediatamente scodinzolando e guaendo proprio dove lo strumento era appeso, vicino a un termosifone, conscio che era arrivato il fatidico meraviglioso momento della passeggiata. Ricordo di averlo portato anch’io in giro per i posti a lui più graditi. Ebbene, un giorno qualcuno avviso’ mia zia che il cane era morto e lei scendendo lo trovò riverso in strada, lo raccolse, lo adagio’ sul marciapiede e restò lì inginocchiata a piangere sconsolata per la perdita di quel compagno inseparabile di molti anni di vita insieme. In quel momento passò di lì un signore e, appreso il fatto, le disse: “la comprendo bene signora, l’ho provato anch’io, è un dolore atroce!”. Noi pensiamo, guardando da fuori, che questi piccoli compagni di vita siano degli elementi intercambiabili facilmente sostituibili, beh non lo sono! Certo potremmo prendere un altro animale per riversare su di lui il nostro affetto, ma dovremmo comunque prima superare un periodo di lutto. Questi compagni pelosi lasciano un vuoto fisico, palpabile, e portano con sé esperienze di vita e momenti pieni di significato che abbiamo condiviso con loro. Loro non ci giudicano e ci amano incondizionatamente, cosa sempre più difficile tra esseri umani. È per questo che la loro perdita risulta così inconsolabile, tanto che molti in vista di questo tragico momento preferiscono non prendere proprio con sé un animale da compagnia, che sarebbe più corretto definire “compagno di vita”. Sappiamo che lui non potrà che accompagnarci solo per un tratto del nostro percorso terreno, ma separarcene costa comunque un grande sforzo e dolore fisico. Perciò la prossima volta che vedrete qualcuno piangere per la perdita del proprio animale domestico, non lo giudicate, sappiate che quel dolore è vero e tangibile e che voi fareste probabilmente lo stesso al suo posto, se siete capaci di provare vero amore per qualcuno. Ricordo una frase di Arthur Schopenhauer: “Chi non ha mai posseduto un canenon sa cosa significhi essere amato.”

  • La religione è l’oppio dei popoli

    La religione è l’oppio dei popoli

    Peccato che Marx non abbia mai detto così.
    La frase originale era questa, parte di un ragionamento molto più profondo e poetico:
    La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo.

  • Eredità bolscevica, ecco perché non regge il paragone dello storico Luciano Canfora

    Eredità bolscevica, ecco perché non regge il paragone dello storico Luciano Canfora

    Luciano Canfora mette talvolta le sue grandi qualità di storico antico al servizio di tesi anche polemicamente molto delineate, e di solito il terreno fertile ed estemporaneo su cui esercita la sua intelligenza è quello della politica. Avviene talvolta che da lui si apprenda, altre volte che stimoli lo spirito critico, sempre buono, dunque, l’effetto. Mi è capitato di leggere un suo articolo sul Corriere della sera, sintesi della Prefazione che ha scritto per un volume di Sergio Romano, un articolo intitolato così: “L’Urss è morta e vive ancora. Nella Russia di oggi rimane incancellabile il marchio della rivoluzione bolscevica”.

    A prima vista questa idea registra una cosa ovvia, essendo evidente che una vicenda lunga e complessa come quella di cui si parla abbia lasciato tracce nelle società e tra i popoli fra i quali è avvenuta, e nella stessa storia del mondo. Ma non coincidendo affatto il testo di Canfora con la filiera dell’ovvio, esso racconta una tesi ben più articolata, ma assai discutibile. E proprio perché sostenuta da un autorevole storico, val la pena parlarne. Marchio incancellabile della Rivoluzione nella Russia di oggi? Vediamo. L’Urss è morta quando la Rivoluzione del 1917 è finita nel nulla, come Rivoluzione che aveva promesso e profetizzato la redenzione dell’umanità -espressione che si trova nelle “Tesi sulla storia” di Walter Benjamin– o, a essere meno ambiziosi, a promuovere il superamento del 1789: questa, Rivoluzione borghese, l’altra Rivoluzione proletaria, dei vinti che non avevano che da liberarsi delle loro catene, una storia che avrebbe visto i vinti della storia vincere sui vincitori di sempre. Oggi la Russia è una democrazia di massa illiberale e dispotica, gli oppositori in carcere, chiusa nei suoi confini culturali e politici. Il “marchio incancellabile” del dispotismo, proprio della rivoluzione bolscevica, resta, certo in tono minore, ma deprivato di ogni aspettativa più o meno salvifica. La Russia non è più quella dello zar, per cui ha ragione Canfora quando afferma che è sbagliato parlare dello “zar Putin”, ma questo fa ancora parte di quella filiera dell’ovvio di cui si è detto.

    Il fatto è che le ambizioni dell’autore sono ben altre. E si rivelano per intero con il paragone -il cuore dell’articolo- tra gli esiti della Rivoluzione francese, 1789, e gli esiti del 1917, e qui, per davvero, i conti non tornano, nel confronto “neutrale” del testo. È vero, e peraltro ben noto, che le vicende successive al 1789 furono talmente diverse tra loro, dall’impresa napoleonica al ritorno del sovrano, fratello di quello decapitato, all’esperienza di varie forme di Stato, da escludere osmosi dirette e coerenti con le idee della Rivoluzione. Ma quella data, nei principii che affermò, innestandoli nella storia concreta, tra molte e contrastate vicende, ha contribuito a produrre la costituzionalizzazione dell’Europa, ha portato il “marchio incancellabile” dei suoi principii in una idea di libertà politica e di tolleranza, preparata dal pensiero dell’Illuminismo. Un’idea che sta tra noi, nel nostro pur contraddittorio e certe volte tragico presente, sta dentro le nostre costituzioni, è la vicenda che segna un progresso politico incancellabile della storia umana.LEGGI ANCHE

    Il paragone con il 1917 non regge. Dove questa data è diventata Rivoluzione, in Russia, ha dominato ininterrottamente, fino al 1989, per un tempo lungo e omogeneo, prima il terrore politico, poi l’oppressione di popoli confinanti e dello stesso popolo russo. Il “marchio incancellabile della rivoluzione bolscevica” resta, dunque, all’interno di quella società, a testimoniare un fallimento, l’esito povero, chiuso, rovesciato, dell’ultima filosofia della storia che voleva decidere del destino dell’umanità e finì nel terrore staliniano, ma val la pena di ricordare che quella del 1917 fu una “Rivoluzione contro il Capitale”, contro l’opera di Marx, come scrisse Antonio Gramsci. Poco a che vedere, nell’articolazione della sua storia, con la filosofia di Karl Marx. Essa non fu preparata da una filosofia, fu un colpo di Stato ben riuscito. Il terrore incominciò con Lenin, non con Stalin, un marchio incancellabile resta, in forma certo minore, ed è il dispotismo.

    Biagio De Giovanni

  • Siamo esseri umani, tutto il resto è secondario.

    Siamo esseri umani, tutto il resto è secondario.

    Siamo esseri umani, tutto il resto è

    Michele Serra, nell’Amaca di stamattina, inquadra con rara precisione non tanto uno dei guasti del ddl Zan, ma uno dei guasti provocati della sensibilità contemporanea in fatto di diritti. Serra riparte dagli interventi in cui Gianni Cuperlo e Luigi Manconi parlano dell’eccesso definitorio della legge respinta al Senato, e Serra commenta l’eccesso definitorio proponendo una definizione sintetica con cui si può essere in disaccordo soltanto se si è alle prese con seri problemi di convivenza civile: “Nessun essere umano deve essere offeso o discriminato a causa delle proprie scelte sessuali”. Serra corre un serio pericolo a ridurre la questione alle scelte sessuali, ed è un rischio che vorrei correre con lui, perché poi c’è l’aspetto del genere, e si potrebbe aggiungere “e di genere”, ma preferisco correre questo pericolo piuttosto di correre quello di deviare la sua mira da cecchino.

    Qualche giorno fa un amico mi ha scritto una lunga mail per chiedermi conto, lui favorevole, delle mie perplessità sul ddl Zan (l’occasione mi sembra troppo ghiotta e non me la lascio scappare: siccome mi si rimprovera di riempirmi tanto la bocca con la filastrocca dei diritti, ma di non spendere una sillaba per il diritto degli omosessuali all’adozione e a un matrimonio pienamente parificato, ecco, l’ho scritto su Huffpost, sulla Stampa, l’ho detto in almeno uno dei miei interventi settimanali a Radio Capital, l’ho detto in piazza a Bologna a Repubblica delle Idee e lo ripeto volentieri, ditemi dove si deve firmare per il diritto degli omosessuali all’adozione e a un matrimonio pienamente parificato, e io firmo ratto come la folgore). Torno al mio amico. Siccome gli avevo risposto, fra l’altro, che quando la legge penale e più vastamente i codici non parlano di esseri umani ma di ebrei, gay, transessuali, donne e così via, si stabilisce una gerarchia di valori che frantuma il concetto di essere umano (ecco perché sono così felice che Serra abbia recuperato l’espressione, essere umano). Il mio amico ha ulteriormente obiettato che quando sente parlare di esseri umani si allarma più di un po’ perché Adolf Hitler progettò la Shoah rifiutando agli ebrei l’appartenenza al genere umano e sterminandoli proprio per la loro particolare qualifica di ebrei. Ecco, anche il mio amico aveva centrato il punto ma, secondo me, aveva commesso l’errore di ribaltarlo.

    Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Organizzazione delle nazioni unite, davanti al disastro di due guerre mondiali, di due bombe atomiche, della sistematica violazione della Convenzione di Ginevra, soprattutto davanti all’orrido mattatoio della Shoah, promosse la riscrittura della Dichiarazione universale dei diritti umani, da cui i Paesi aderenti avrebbero fatto discendere le loro legislazioni. Dico riscrittura perché si partì dal Bill of Rights inglese (1689), dalla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti (1776) e dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) redatta in Francia all’alba della Rivoluzione. Il testo dell’Onu (1948) si riprometteva di precisare, di sottolineare, di meglio dettagliare i diritti umani rasi al suolo nel precedente trentennio, una sciagura di cui Auschwitz era la cattedrale. Andate a prendervi quel testo: la parola “ebrei” non c’è. L’articolo uno dice che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”; l’articolo due aggiunge che “a ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”.

    Perché, tre anni dopo la Shoah, non c’è un passaggio sugli ebrei? Mi pare evidente, per il totale rifiuto del modo di ragionare di Hitler: mettere un accento sugli ebrei avrebbe significato sottrarli di nuovo alla loro umanità per racchiuderli dentro una qualifica, o dentro un ghetto: ebrei. Quei due articoli sono di una perfezione inemendabile: se faccio del male a un essere umano commetto un crimine, se faccio del male a un essere umano perché è di un altro colore, di un’altra religione, di altra condizione, di altro sesso, commetto un crimine più grave e come tale sarà trattato. Essere umano: soltanto questo è il grande insieme, il resto è riduzione della nostra umanità a qualcosa di secondario.

  • Sull’esportazione della democrazia

    Sull’esportazione della democrazia

    Il precipizio della sinistra che nega l’esportabilità della democrazia (msn.com)

    Dacia Maraini: «Cosa ci insegna il coraggio degli afghani in quelle piazze colme di giovani e di donne»- Corriere.it

    Sì, la democrazia si esporta, ma non sempre, non ovunque | L’HuffPost (huffingtonpost.it)

    di Mattia Feltri

    Il problema dell’Afghanistan è che preferisce la legge di Dio a quella degli uomini

    18 Agosto 2021 alle 11:22

    Il 10 luglio qui su Huffpost ci chiedevamo con plateale scetticismo se la democrazia fosse un bene esportabile come scarpe Nike o pollo del Kentucky. Lo spunto arrivava da Kabul, dove il ritiro delle forze militari dei Volenterosi induceva a pronosticare il ritorno dei talebani nella capitale entro fine anno. È invece bastato poco più di un mese, e una decina di giorni di marcia senza sparare un colpo. Non lo si sottolinea per darci un tono: eravamo già in ritardo anche noi. Ma vale la pena sottolinearlo per restituire il giusto apprezzamento a una politica capace di cogliere la portata del disimpegno in Afghanistan fuori tempo massimo, guardando al Var le immagini disperanti dell’aeroporto e commentandole in stile rubicondo, perché prima, secondo recente e ubertosa tradizione, era troppo impegnata a spremere in quotidiane frivolezze le sue migliori energie. Questo abbiamo, perché è quanto sappiamo produrre: leadership che non sapevamo guardare oltre il domani, poi solo all’oggi e adesso dedite allo ieri. Bell’affare.

    Scrivevamo, allora, che la democrazia non è un bene esportabile, riferendoci all’Afghanistan e in parte al malsicuro Iraq, perché la democrazia non è soltanto un insieme di regole ma soprattutto una disposizione mentale e culturale (Robert Conquest) nata in Europa due millenni e mezzo fa nell’Atene di Pericle, passata dalla Magna Carta, da Oliver Cromwell e poi dalla Gloriosa rivoluzione in Inghilterra, dalla Guerra d’Indipendenza americana (caso interessante di importazione della democrazia con uso di armi), dalla Rivoluzione francese, dalle svariate dichiarazioni dei diritti dell’uomo, insomma un lunghissimo, dibattutissimo, sanguinoso percorso in fondo al quale le democrazie occidentali oggi non sono una soluzione finale ma un esperimento in cammino, talvolta in evoluzione altre in involuzione, e messo a faticosa prova dagli accidenti della vita, come ora il virus. 

  • Michele Serra

    Michele Serra

    DI TUTTO DI PIU SENZA PELI SULLA LINGUA E SENZA FAKE.

    Nuovi tempi, vecchi errori in forma nuova.Non sono nè un giornalista, nè un cronista, sono un cittadino ITALIANO che scrive come la vede. Che esprime semplicemente il suo punto di vista, che non siete obbligati a condividere. Libero io e liberi tutti, il pensiero non è un canarino.

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    Caro Michele Serra …

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    Caro Michele,
    debbo riportare verbatim le parole che hai appena pubblicato sulla tua posta del Venerdì:
    “Venendo a Draghi: io mi sentivo un elettore del governo giallo-rosso, con tutti i limiti del caso, e non mi sento un elettore di questo governo, che è frutto di una lecita alchimia istituzionale (ha i voti in Parlamento), non certo di un risultato elettorale. Ma non posso non vedere e non sentire che il prestigio di Draghi poggia su solide basi. Quando parla, di solito poco, è preciso e semplice, il contrario del politicante. È un uomo di centro, laico anche se credente. È un uomo di mercato, eccome, ma anche un uomo di Welfare. Un democratico legalitario. Un forte e credibile europeista. Una specie di Prodi conservatore, ammesso che i conservatori se ne accorgano.
    E dunque penso che sarebbe il leader ideale di un centro-destra finalmente civilizzato.”

    Non ho saltato neanche una virgola.
    E resto di sasso …

    Perché mi sento improvvisamente diverso, estraneo, tagliato fuori da una storia che credevo comune, che mi pareva comune, e che invece ora, alle soglie dei miei (e anche tuoi, tra un po’…) settant’anni, mi proietta violentemente da un’altra parte. E non so più quale!

    Io credevo di avere una storia ed anche una pratica di sinistra (tessera del PCI di Berlinguer, voto sempre, disciplinatamente, alla filiera PCI/PDS/DS/PD in ogni tipo di elezione e referendum, fondazione e militanza nel PD, il partito lungamente atteso, desiderato, mai compiuto, strapazzato dalle sue infinite traversie, infine grato a Matteo Renzi per quanto ha fatto e fa ancora…).
    Ahi! Qui si apre la prima faglia: infatti oggi io sostengo l’azione di Italia Viva e sono riconoscente a Renzi per avere indirizzato abilmente ed efficacemente la politica di questo Paese, fino a Mario Draghi, in un frangente molto complesso e delicato.

    Ma a parte questo “grave difetto”, mai mi ha nemmeno sfiorato l’idea di poter sostenere un qualsiasi centrodestra, fosse anche “finalmente civilizzato”, e per un fatto quasi antropologico, sul qual adesso non serve che mi dilunghi. Credimi, è così e tanto basta.
    Ora scopro che uno come te, una specie di fratello coetaneo culturale e politico, con un percorso ideale non dissimile dal mio, ed in più dotato di mezzi intellettuali nonché di successo e popolarità incommensurabili ai miei, si sente elettore del Governo Conte2 (tu lo chiami gentilmente giallo-rosso, ma era il Conte2, che veniva dopo il Conte1 con Salvini), ma non del Governo Draghi.
    Cioè, elettore del Governo nato dall’emergenza di fermare le mire agostane del Capitano, guidato da un improbabile “avvocato del popolo”, con Bonafede, Azzolina, Arcuri, il prof. Mimmo “Navigator” Parisi, arrivato dal Mississippi “a miracol mostrare”, con “incapaci” o “miracolati” (Beppe Grillo dixit), e non di quello dell’italiano più apprezzato al mondo da tempi immemorabili, che sta ottenendo risultati strabilianti, e tutti fortemente politici, mica tecnici o emergenziali …, con l’aiuto di un pugno di collaboratori eccellenti del calibro di Colao, Cingolani, Franco, Cartabia, Giovannini, …
    Anzi, tu dichiari, “papale papale”, che Draghi sarebbe ideale per un “centro-destra finalmente civilizzato”.

    E io mi perdo, vado nel pallone.
    Ma allora, chi sarebbe adatto al centrosinistra, Che Guevara, Allende oppure, più prosaicamente, Bertinotti, Bersani, Zingaretti, Bettini, Provenzano, oppure addirittura Giuseppe Conte, improbabile “punto di riferimento del progressismo europeo”?
    Che razza di centrosinistra hai in mente, con quali riferimenti politici e culturali, forse Corbyn, Sanders, Ocasio-Cortez, Elly Schlein? Quale elezione puoi mai pensare di vincere con persone (tutte rispettabilissime, per carità!) così? Quando mai governerai un Paese occidentale negli anni Venti del Terzo Millennio?

    Tu, in sostanza, e scusa se azzardo una interpretazione temeraria, ti auguri che uno come Draghi sia il leader di un centro-destra del tutto teorico, solo perché questo ti permette di coltivare un assurdo sogno utopistico di una sinistra idealista ed inconcludente, che sta all’opposizione, comoda, tranquilla, magari a discettare e far convegni, tanto a scavare nella merda e guidare la baracca ci pensa uno bravo come Mario Draghi, ma con un centrodestra civilizzato!

    Eh, no, Michele, no! Troppo comodo! Direi persino “irresponsabile”.
    Governare, e cambiare un Paese, richiede non “anime belle” ma anime capaci, competenti, altamente professionalizzate, guidate da sani principi democratici e civili. Possibilmente e sperabilmente di sinistra.
    Ma in ogni caso “maggioranze”: altrimenti fai solo opposizione ed a governare ci pensano gli altri. E il Paese così lo cambiano gli altri, e a modo loro.
    Io credo che la sinistra debba avere la capacità di aprirsi, di allargarsi, di diventare maggioranza, includendo anche incerti ed indecisi, od anche pencolanti dell’altro campo; debba sapere accogliere istanze ampie, e non rinchiudersi in una ridotta di utopisti acchiappanuvole. La sfida è quella.
    E uno come Mario Draghi oggi è il più attrezzato per farvi fronte, inutile girarci intorno. Anche se non viene dalle sezioni del PCI o dagli oratori dei gesuiti, ma dalla scuola di Federico Caffè. E scusa se è poco.

    Su Wikipedia c’è ancora scritto che Mario Draghi si è definito un “socialista liberale”.
    E tu vuoi regalarlo alla destra?

    Forse stai scherzando ed io non ho capito niente. Vorrei che fosse così.
    Perché se non così fosse, dovrei constatare “definitivamente” che la sinistra non governerà MAI nulla, nemmeno un condominio, e quella che di tanto in tanto “casualmente” va al Governo, come Obama, Biden, o come fecero Blair, Palme, … Renzi …, è una destra camuffata. Spietati poteri forti, nel loro migliore travestimento, organizzati per imbrogliare i poveri scemi come me che ci cascano come pere cotte.

    Scusa, ma a settant’anni non posso accettarlo.
    Non mi capacito di come possa accettarlo tu…
    Con (un po’ dubbioso) affetto,

  • Brunetta risponde a Cacciari

    https://www.micromega.net/green-pass-e-liberta-lettera-aperta-a-massimo-cacciari/

    Ma quale dispotismo! Il Green pass è libertà. Lettera a Cacciari, con un invito al confronto in pubblico

    “Tenere a distanza chi non vuole vaccinarsi non ha nulla di discriminatorio, è una misura elementare minima di difesa della libertà (e vita) degli altri”. Il direttore di MicroMega replica al testo firmato dal filosofo in coppia con Giorgio Agamben.

    Paolo Flores d’Arcais 27 Luglio 2021

    Caro Massimo,
    perché mai, nel tuo testo (in coppia con Agamben), diramato dall’“Istituto di studi filosofici di Napoli” col titolo “A proposito del decreto sul green pass”, non hai speso una sola parola di indignazione, vituperio, condanna, per la “pratica di discriminazione” che non consente di guidare liberamente un’automobile (ma eventualmente anche un Tir, se aggrada), e impone di passare per le forche caudine di esami orali e scritti, solo al termine dei quali il cittadino (ma non è ormai così ridotto a suddito?) riceve un “green pass” definito “patente di guida”?

    E perché mai non hai stigmatizzato l’insopportabile “regime dispotico” con cui in Italia si pretende un “green pass”, chiamato burocraticamente “porto d’armi”, per il libero cittadino (ridotto con ciò a suddito) che voglia girare con una P38 in tasca, mentre liberamente e gioiosamente un cittadino statunitense può acquistare al negozio d’angolo anche una Beretta pmx, una Skorpion Vz 61, una Thompson, e altri gingilli di libera autodifesa?

    E perché non hai ricordato che queste nefaste pratiche discriminatorie hanno il loro antefatto nell’odiosa volontà (Legge 11 novembre 1975, n. 584, poi Legge 16 gennaio 2003, n 3, rafforzata dieci anni dopo con la “legge Sirchia”) di “purgare” i fumatori, discriminandoli col divieto d’ingresso nei cinema, teatri, ristoranti, caffè, treni, aeroporti, uffici, ghettizzandoli sui marciapiedi e in molti paesi cacciandoli infine anche dai luoghi aperti?

    A me queste leggi antifumo sono sempre sembrate invece civilissime, e anzi libertarie. Perché mai dovrei essere costretto a inalare nicotina e catrame se voglio frequentare un luogo pubblico chiuso (o devo lavorare in uno spazio comune)? Ma in un luogo pubblico chiuso il fiato di un contagiato Covid è molto ma molto più dannoso degli sbuffi delle più micidiali Marlboro rosse o Gitanes papier mais.

    Che senso ha trincerarsi dietro un generico “il dibattito scientifico è del tutto aperto”? Va da sé: il dibattito scientifico è sempre aperto, per definizione. Ma i dati delle ultime settimane sono costanti e inoppugnabili: contagi, ricoveri (e morti) dei non vaccinati sono, in proporzione al loro numero, dieci volte superiori a quelle dei vaccinati. La “libertà” di impestare il prossimo non è ancora stata introdotta tra i diritti umani e civili inalienabili, riforma costituzionale che il tuo testo solfeggia in filigrana, continua anzi a costituire una forma insopportabile non già di libertà ma di violenza, prepotenza, sopruso.

    Le democrazie nascono impegnandosi a garantire l’endiadi “vita e libertà” dei cittadini, ma che vita e che libertà sono garantite a cittadini costretti a rischiare, in ogni luogo pubblico chiuso o all’aperto ma molto affollato, l’alito impestato di chi per privata prepotenza non vuole prendere l’unica misura che abbatte tale rischio: il vaccino? In realtà vi è, come noto (da secoli) un’altra misura: il distanziamento. Tenere a distanza chi non vuole vaccinarsi non ha perciò nulla di discriminatorio, è una misura elementare minima di difesa della libertà (e vita) degli altri. Ai governi (il nostro compreso) si può e deve imputare – semmai – di non averla difesa e non difenderla abbastanza, questa comune libertà.

    Che il “green pass” costringa a essere controllati e “tracciati” è infine pura menzogna. Vieni “tracciato” se lo usi sul telefonino con localizzatore, ma se te lo stampi (ci vuole un “clic”, appena più del teologico “fiat”), lo presenti dove è richiesto e nessuno ti “traccia”.

    Infine, non è solo davvero fuori misura, ha piuttosto qualcosa di indecente e ingiurioso, evocare il passaporto interno di staliniana e brezneviana memoria o le misure di controllo del maoturbocapitalismo di Xi Jinping. Un’offesa sanguinosa ai milioni e milioni di vite umane che il totalitarismo comunista lo hanno subito davvero, carne e ossa, gulag e sangue. Spero che le righe in proposito siano uscite dalla penna del tuo sodale Agamben, che suona questo mostruoso refrain da anni, e tu le abbia accolte solo per momentanea debolezza.

    Un abbraccio
    Paolo

    p.s.

    Caro Massimo, vedo che in una intervista a “La Stampa”, ripresa da Huffington Post e Dagospia, insisti, con argomentazioni che mi sembra restino più che mai claudicanti e infondate. Dato l’interesse del tema per tutti i cittadini, ti propongo di discuterne in pubblico e col pubblico, in una delle tante occasioni di controversie che stanno riprendendo “in presenza” (Convegni, Festival, Saloni, ecc.). Sono certo che, convinto come sei della forza delle ragioni che hai addotto, non ti sottrarrai al confronto.

    Un abbraccio
    Paolo

  • Ma quale dispotismo! Il Green pass è libertà. Lettera aperta a Cacciari

    Ma quale dispotismo! Il Green pass è libertà. Lettera a Cacciari, con un invito al confronto in pubblico

    “Tenere a distanza chi non vuole vaccinarsi non ha nulla di discriminatorio, è una misura elementare minima di difesa della libertà (e vita) degli altri”. Il direttore di MicroMega replica al testo firmato dal filosofo in coppia con Giorgio Agamben.

    Paolo Flores d’Arcais 27 Luglio 2021

    Caro Massimo,
    perché mai, nel tuo testo (in coppia con Agamben), diramato dall’“Istituto di studi filosofici di Napoli” col titolo “A proposito del decreto sul green pass”, non hai speso una sola parola di indignazione, vituperio, condanna, per la “pratica di discriminazione” che non consente di guidare liberamente un’automobile (ma eventualmente anche un Tir, se aggrada), e impone di passare per le forche caudine di esami orali e scritti, solo al termine dei quali il cittadino (ma non è ormai così ridotto a suddito?) riceve un “green pass” definito “patente di guida”?

    E perché mai non hai stigmatizzato l’insopportabile “regime dispotico” con cui in Italia si pretende un “green pass”, chiamato burocraticamente “porto d’armi”, per il libero cittadino (ridotto con ciò a suddito) che voglia girare con una P38 in tasca, mentre liberamente e gioiosamente un cittadino statunitense può acquistare al negozio d’angolo anche una Beretta pmx, una Skorpion Vz 61, una Thompson, e altri gingilli di libera autodifesa?

    E perché non hai ricordato che queste nefaste pratiche discriminatorie hanno il loro antefatto nell’odiosa volontà (Legge 11 novembre 1975, n. 584, poi Legge 16 gennaio 2003, n 3, rafforzata dieci anni dopo con la “legge Sirchia”) di “purgare” i fumatori, discriminandoli col divieto d’ingresso nei cinema, teatri, ristoranti, caffè, treni, aeroporti, uffici, ghettizzandoli sui marciapiedi e in molti paesi cacciandoli infine anche dai luoghi aperti?

    A me queste leggi antifumo sono sempre sembrate invece civilissime, e anzi libertarie. Perché mai dovrei essere costretto a inalare nicotina e catrame se voglio frequentare un luogo pubblico chiuso (o devo lavorare in uno spazio comune)? Ma in un luogo pubblico chiuso il fiato di un contagiato Covid è molto ma molto più dannoso degli sbuffi delle più micidiali Marlboro rosse o Gitanes papier mais.

    Che senso ha trincerarsi dietro un generico “il dibattito scientifico è del tutto aperto”? Va da sé: il dibattito scientifico è sempre aperto, per definizione. Ma i dati delle ultime settimane sono costanti e inoppugnabili: contagi, ricoveri (e morti) dei non vaccinati sono, in proporzione al loro numero, dieci volte superiori a quelle dei vaccinati. La “libertà” di impestare il prossimo non è ancora stata introdotta tra i diritti umani e civili inalienabili, riforma costituzionale che il tuo testo solfeggia in filigrana, continua anzi a costituire una forma insopportabile non già di libertà ma di violenza, prepotenza, sopruso.

    Le democrazie nascono impegnandosi a garantire l’endiadi “vita e libertà” dei cittadini, ma che vita e che libertà sono garantite a cittadini costretti a rischiare, in ogni luogo pubblico chiuso o all’aperto ma molto affollato, l’alito impestato di chi per privata prepotenza non vuole prendere l’unica misura che abbatte tale rischio: il vaccino? In realtà vi è, come noto (da secoli) un’altra misura: il distanziamento. Tenere a distanza chi non vuole vaccinarsi non ha perciò nulla di discriminatorio, è una misura elementare minima di difesa della libertà (e vita) degli altri. Ai governi (il nostro compreso) si può e deve imputare – semmai – di non averla difesa e non difenderla abbastanza, questa comune libertà.

    Che il “green pass” costringa a essere controllati e “tracciati” è infine pura menzogna. Vieni “tracciato” se lo usi sul telefonino con localizzatore, ma se te lo stampi (ci vuole un “clic”, appena più del teologico “fiat”), lo presenti dove è richiesto e nessuno ti “traccia”.

    Infine, non è solo davvero fuori misura, ha piuttosto qualcosa di indecente e ingiurioso, evocare il passaporto interno di staliniana e brezneviana memoria o le misure di controllo del maoturbocapitalismo di Xi Jinping. Un’offesa sanguinosa ai milioni e milioni di vite umane che il totalitarismo comunista lo hanno subito davvero, carne e ossa, gulag e sangue. Spero che le righe in proposito siano uscite dalla penna del tuo sodale Agamben, che suona questo mostruoso refrain da anni, e tu le abbia accolte solo per momentanea debolezza.

    Un abbraccio
    Paolo

    p.s.

    Caro Massimo, vedo che in una intervista a “La Stampa”, ripresa da Huffington Post e Dagospia, insisti, con argomentazioni che mi sembra restino più che mai claudicanti e infondate. Dato l’interesse del tema per tutti i cittadini, ti propongo di discuterne in pubblico e col pubblico, in una delle tante occasioni di controversie che stanno riprendendo “in presenza” (Convegni, Festival, Saloni, ecc.). Sono certo che, convinto come sei della forza delle ragioni che hai addotto, non ti sottrarrai al confronto.

    Un abbraccio
    Paolo

  • Scuola in Cina

    Dalla DAD all’OMO, un altro insegnamento è possibile

    20 Giugno 2021 3 minuti di lettura

    Il 15 marzo del 2020 dovevo partire per la Cina per iniziare il mio consueto semestre universitario. Insegno a Guangzhou da cinque anni, due corsi su etica e tecnologie emergenti con circa 45 studenti ognuno. Eravamo in piena pandemia e fino a due settimane prima non sapevo se l’università restava aperta, se dovevamo utilizzare una piattaforma online o se i corsi erano rimandati o addirittura cancellati. Conoscendo tutte le piattaforme a disposizione ero piuttosto tranquilla anche se non le avevo mai utilizzate per gestire due dozzine di persone in contemporanea. 

    Insegnare in Cina è un’esperienza notevole perché In materia di istruzione gli studenti sono più audaci e determinati di quelli occidentali. Si impegnano, sono esigenti e scrupolosi. Sono preparati e ti rispettano, come insegna il loro maestro Confucio. 

    In alcune scuole, gli allievi cominciano a imparare a memoria gli insegnamenti di Confucio fin da piccoli. “Tra i 2 e i 6 anni, la capacità di memorizzazione è eccellente. Noi piantiamo i semi della pietà filiale, del rispetto per gli insegnanti e della compassione”, ha detto il direttore di un asilo nel centro di Wuhan.nullPUBBLICITÀnullnull

    Ma non solo tradizione, le scuole cinesi adottano con entusiasmo anche l’intelligenza artificiale, come tecnologie di riconoscimento facciale, sistemi che gestiscono la sicurezza all’interno dei campus e software che registrano le presenze degli studenti. 

    D’altra parte gli sforzi della Cina per guidare l’IA inizia nella scuola. Nel febbraio 2019 nella città di Jinhua, nella provincia di Zhejiang, in una classe primaria entra un dispositivo per monitorare le onde cerebrali dei piccoli studenti: il brain scanner. Si utilizza al fine di migliorare la concentrazione e l’apprendimento degli alunni e di garantire gli insegnanti di identificare chi si distrae. Qualche mese dopo Supchina, una piattaforma americana di notizie incentrata sulla Cina pubblica l’immagine che ritrae i bambini in classe, seduti ai banchi, con il brain scanner ben visibile sulla fronte. La notizia suscita accese polemiche internazionali. Discutono genitori e professionisti dell’educazione, si impauriscono le famiglie, tanto che l’esperimento viene sospeso. 

    A prescindere dell’immagine inquietante, è necessario riflettere su come stare al passo con la tecnologia esponenziale applicata all’educazione. E’ possibile riformulare un sistema educativo utilizzando la tecnologia e salvaguardando il rapporto tra gli studenti, le sinergie con i professori e i valori morali che si imparano con l’esperienza? Possiamo gestire la tecnologia senza farci gestire da essa?

    Ho affrontato questa tematica con i miei allievi La figura dell’insegnante in carne ed ossa è determinante anche se il modello didattico tradizionale, sia in classe che virtuale, va completamente rivoluzionato. Le lezioni odierne “one size fits all”, una misura uguale per tutti, sono strutturate con poca o nessuna flessibilità e le piattaforme online sono sotto-utilizzate o spesso considerate solo come opportunità visive, come fornitrici di telecamera. Riusciremo ad integrare online e offline senza perdere i vantaggi dell’una o dell’altra soluzione?

    Se si considera che l’educazione online è molto più che un sostituto dell’insegnamento in classe, il cambiamento deve essere radicale. E’ necessario un approccio sistemico e il modello O-M-O, Online-Merge-Offline cinese puo’ forse ispirare una riforma didattica vincente. 

    Nei programmi O-M-O, i ruoli dell’insegnante (Chief Learning Facilitator) e dello studente (Active Learner) sono aggiornati e ridefiniti. L’insegnante deve conoscere profondamente la sua materia, deve avere una grande padronanza/conoscenza delle tecnologie d’insegnamento online e deve essere in grado di creare un’esperienza che sia stimolante, educativa e divertente. Lo studente deve essere dinamico, efficiente, disciplinato e deve saper sfruttare al meglio la ricchezza delle risorse a disposizione. Emerge anche una nuova figura, il Learning Facilitator, l’assistente, che ha un compito piu’ specifico di quello canonico dell’aiuto docente. Deve saper gestire piccoli gruppi di singoli studenti (non piu’ di sei) e controllare che siano sempre allineati e al corrente. Comporta un costo aggiuntivo ma questa figura garantisce il risultato finale. 

    Nel prossimo futuro le classi, in particolare modo quelle universitarie, saranno orizzontali, differenziate e interdisciplinari. Come possiamo raggiungere gli studenti con lezioni che siano coinvolgenti, pratiche, scalabili ed eventualmente personalizzate? Ci aiuterà sicuramente l’intelligenza artificiale, che utilizzando algoritmi di machine learning, sarà in grado di valutare il progresso scolastico di ogni studente e in tempo reale, selezionare e compilare i contenuti multimediali più rilevanti e adeguati ai suoi interessi, alla sua preparazione, alla sua storia personale.

    “Ci sforziamo di fornire ad ogni studente un Super Insegnante AI” afferma Squirrel AI, la società cinese più emergente nell’adaptive learning, l’insegnamento su misura. Il sistema sembra funzionare a meraviglia tuttavia il problema è che se non proteggiamo il ruolo dell’insegnante (umano) la tecnologia ci scalza anche in questo settore. Ben venga l’adaptive learning ma cerchiamo di —integrare, non di sostituire. 

    Anche perché Confucio dice che: “Se pensi in termini di un anno, pianta un seme; se in termini di dieci anni, pianta alberi; se in termini di 100 anni, insegna alla gente”.
    Vogliamo delegare l’educazione delle nuove generazioni ad un sistema, che il piu’ delle volte è ancora biased e pieno di pregiudizi?

  • Amo D’Alema in maniera viscerale, è l’unico che se ne frega dello spirito del tempo

    Guia Soncini: “Amo D’Alema in maniera viscerale, è l’unico che se ne frega dello spirito del tempo”

    Intervista alla scrittrice Guia Soncini: “Il lavoro si paga, meglio lui di Draghi che fa il premier gratis”

    Guia
    Guia Soncini

    A Massimo D’Alema è stato contestato l’incasso di 10 mila euro al mese da presidente della Fondazione dei Socialisti europei. Lui ha risposto: “Le mie prestazioni intellettuali valgono più di quel che mi hanno dato”. La scrittrice Guia Soncini ne ha parlato su Linkiesta. “Comunismo è dove non mi siedo io. Draghi impari il senso del capitalismo da D’Alema” è il titolo della sua rubrica. Le abbiamo chiesto di commentare la vicenda. “D’Alema ha fatto benissimo a prendere quei soldi. Poi ha usato la parola “prestazione” che sa subito di sesso, e fa molto ridere”. 

    D’Alema, dicendo “Alla Feps ero pagato meno del mio valore, è una vendetta politica”, ha aperto una questione per cui tutti hanno gridato allo scandalo.  Lei, nella sua rubrica “L’Avvelenata”, ha scritto del rapporto malato tra Italia e Capitalismo. 

    “In Italia abbiamo un rapporto complicato con i soldi, ma non siamo gli unici. L’altro giorno in un editoriale sul New York Times c’era scritto: “La mia generazione ha fallito perché l’obiettivo che c’eravamo preposti era l’eliminazione dei miliardari”. Prego? Ma come? Allora rivolete il comunismo, diceva Corrado Guzzanti. La verità è che anche il capitalismo più capitalista, cioè quello americano, è diventato apologetico come il nostro, pronto ad andar dietro a istanze poveracciste un po’ a caso. Un americano mi spiegava come gli americani abbiano smesso di essere quelli che desideravano fare carriera per comprare una limousine, per diventare quelli che alla limousine vorrebbero dare fuoco”.

    Si sono allineati?

    “Ci emulano in molte cose. Hanno avuto Trump dopo che in Italia abbiamo avuto Berlusconi. Ora si sono adeguati anche a questo rapporto contraddittorio che noi abbiamo con i soldi. Alla nostra stupidissima voglia di trovare il denaro una cosa brutta. Il sogno americano era diventare ricchi: se eri un ragazzino povero, pensavi a come risolvere i problemi che avresti avuto una volta diventato un adulto ricco. Oggi gli americani contestano i guadagni di Jeff Bezos”.

    D’Alema come Jeff Bezos? 

    “Dicono che non è giusto che Bezos guadagni non so quanti milioni di dollari al giorno [321, ndr] e che un magazziniere dei Amazon prenda 2mila dollari al mese. Certo è vero, c’è la disparità, la diseguaglianza, ma perché un imprenditore dovrebbe sbattersi, mettere su un’impresa, se non perché sa che se riuscirà, se non fallirà, guadagnerà uno sproposito? Senza considerare il fatto che un miliardario come Bezos i soldi li ridistribuisce anche”.

    E poi Amazon paga anche le tasse…

    “Oltretutto. Pensiamo anche alle varie accuse di elusione e di utilizzare tutti i buchi legislativi per pagarne meno possibile. Mica è colpa dei miliardari, ma di chi non tappa i buchi legislativi. Stiamo parlando di un Paese in cui i miliardi sono perlopiù fatti e non ereditati. È gente che si è sbattuta ed è arrivata a un traguardo. Ma che volete di più dalla vita. Tra l’altro credo che il fatto che i soldi non siano ereditati dalla famiglia crei una ulteriore ragione di ira sociale negli Usa. In Italia puoi sempre raccontarti che gli altri abbiano più successo di te perché sono raccomandati o hanno ereditato da papà. In un Paese in cui se cominci da un garage puoi diventare miliardario, è difficile dare la colpa agli altri”.  

    E così succede che D’Alema viene accusato di essere l’uomo dalle “scarpe milionarie”.

    “D’Alema è stato Fedez prima di Fedez. Quando noi diciamo al marito della Ferragni che non deve fare l’elemosina in Lamborghini, gli stiamo dicendo che avere una macchina da ricco è una cosa che ci offende. Non consideriamo che in quel modo fa lavorare gli operai della Lamborghini. L’Italia produce lusso: macchine, vestiti, vini buoni. Non produciamo componenti. Che sia D’Alema che si compra le scarpe fatte a mano o una barca, o Fedez che compra la Lamborghini, o io che mi compro una borsa costosa, tutti stiamo facendo lavorare il Made in Italy. Provvediamo come Bezos a far guadagnare l’operaio, che dello stipendio che discende dal lusso vive. In che modo il mondo sarebbe migliore se Fedez andasse in bicicletta?”.

    Nella rubrica su D’Alema scrive: “Quando lo spirito del tempo è particolarmente scemo, qualcuno deve trovare la forza di andare contro lo spirito del tempo. Di dire: non solo dovete pagarmi, ma anche bene”.

    “La cosa interessante è che essendo D’Alema novecentesco non si scusa. In un mondo in cui Mario Draghi rinuncia allo stipendio, Fedez si mortifica e dice venderò la Lamborghini, io amo D’Alema in maniera viscerale. Perché ormai hanno vinto loro, quelli delle polemiche dei social, e non c’è modo di sottrarsi. Perché oggi o ti scusi, ti spieghi, e fai tutte quelle cose che la Casa Reale inglese ordinava di non fare, ovvero mai scusarsi mai spiegarsi (“Never complain, never explain, never say I’m sorry”), oppure sei un mostro che non tiene conto dello spirito del tempo, del sentimento popolare. Gli americani dicono “Read the room”, Cerca di capire quello che vuole la stanza in cui entri. Ma sono gli americani senza personalità: Steve Jobs diceva che il compratore non sapeva cosa desiderava finché non glielo diceva lui. Non mi viene in mente nessuno che abbia combinato qualcosa di rilevante assecondando le folle”.

    D’Alema è uno dei pochi che non risponde al linguaggio del tempo

    “Non so dire se sia un aspetto del suo carattere oppure se può permettersi di farlo perché non ha più niente da perdere. Mi viene in mente solo un altro, nell’Italia di oggi, che si permetta di dire quello che vuole senza mai scusarsi: Fiorello. Se stai sui social oggi non puoi non rispondere. Decidere di fregarsene è una scelta possibile ma non per chi fa un mestiere che dipende dal consenso popolare, come l’attrice, il politico, o il marito dell’influencer”. 

    Nella tua rubrica oltre a citare Draghi che si taglia lo stipendio parli anche di Maria de Filippi che nel 2017 ha condotto il Festival di Sanremo gratis. 

    “Quello che nessuno dice è che i soldi sono come i filtri di Instagram. Se sei figa puoi non usarli perché sei perfetta anche con la luce imperfetta. Puoi rinunciare al denaro se ne hai che ti avanza. Per cui credo che sia la De Filippi sia Draghi non ne avessero semplicemente bisogno. Il problema è che il messaggio è sbagliato. È un messaggio di comodo. Senza compenso nessuno ti potrà dire: “Hai preso troppi soldi dalla Rai”. Credo sia questa una delle ragioni per cui Fiorello fa così poca televisione, per non sentirsi dire: “Ah, sei pagato fantastiliardi coi nostri soldi, e noi non arriviamo a fine mese”. Una persona normale, che sappia quanto vale il suo lavoro, non ha nessuna voglia di giustificarlo a una massa di incompetenti. Non deve spiegarlo all’utente di internet. Se il dirigente dell’azienda di comunicazione non vuole fare il Direttore Generale della Rai a 200mila euro è perché altrove gliene danno 600mila. Capisco che sembrino cifre enormi, ma il mercato esiste”.

    Il messaggio che passa è che chi non si fa pagare è bravo e dignitoso. Mentre se ti fai pagare sei avido e immorale. 

    “Ed è una cosa che vale soprattutto per le donne. Perché chiedere i soldi non è considerato femminile. Ed è colpa nostra, sia chiaro. Perché vogliamo essere seduttive. Ci interessa che quando usciamo da una stanza nessuno dica “quella stronza”. Chiaramente se chiedi più soldi ti diranno che sei una stronza. Ma probabilmente avrai avuto più soldi. Sarai stronza e contenta”. 

    Eppure molte non la pensano così. 

    “Ellen Pompeo, di Grey’Anatomy, ha chiesto più soldi per fare ulteriori stagioni di quello sceneggiato, glieli hanno dati, è diventata l’attrice più pagata della televisione americana. In un’intervista ha detto una cosa sacrosanta: “I soldi bisogna chiederli”. Ha ragione, perché nessuno dirà: “Ehi ragazza, pensavo di darti più soldi perché così mi costi di più”. Non è vero che le donne vengono pagate poco perché le aziende pensano che valgano meno degli uomini, vengono pagate meno perché non chiedono di essere pagate di più”.

    Non hanno capito che chiedere fa parte del lavoro?

    “Il voler essere simpatici è il problema delle donne e del divario salariale. Spesso si preferisce restare tranquille, non creare problemi, perché così si può tornare a casa appena il bambino ha la tosse all’asilo, invece di essere quelle che siccome vengono pagate tanto devono anche essere più responsabili”.

    A proposito di donne, parliamo del caso Aspesi. La giornalista di Repubblica ha detto che i morti in fabbrica sono un problema più grave del catcalling. È stata accusata di essere una cattiva femminista, proprio lei che ha fatto la storia del femminismo in Italia. Perché una cosa così condivisibile viene attaccata sui social?

    “Tra i commenti alla questione c’era gente che riferiva d’essere informata sulla sua carriera giacché aveva cercato cinque minuti prima la voce Aspesi su Wikipedia. Va benissimo non sapere niente, non si è tenuti a sapere tutto, però perché ne dibatti? Questo non mi è chiaro. È uno dei tanti meccanismi deliranti dei social. Il bello è che la Aspesi si rivolgeva a loro, a quelle che si occupano di body-positivity, catcalling sui social. E tutte loro, il giorno dopo, per far vedere che parlavano di cose davvero importanti, discettavano di Israele e Palestina, senza però saperne molto. Ho scritto una rubrica anche su questo, uno degli opinionisti di Instagram ha risposto che non ho capito quanto lui fosse un divulgatore, e che prima di fare un video su Israele e Palestina lui aveva studiato 12 ore. Quest’idea del corso intensivo da autodidatta, 12 ore per sapere tutto delle guerre in Medioriente, mi è sembrata davvero molto interessante”. 

    Per tornare a D’Alema, anche in questo caso gli utenti di internet si sono indignati.

    “Se fossi D’Alema andrei in Palestina con le scarpe fatte a mano e spargerei contanti sulla folla. Ma forse questa frase non si può scrivere senza che venga presa sul serio: dire “era una battuta” è ormai doveroso quasi quanto fingersi poveri. Dal punto di vista di D’Alema, poi, immagino non ci sia granché da ridere: è come se ti accusassero di rubare lo stipendio. Il problema non è il suo che ha ritenuto che le sue “prestazioni” andassero pagate, ma di quelli che lo hanno preceduto nel ruolo di presidente della Feps, e lo hanno fatto gratis. È il contesto che lo fa sembrare avido. Ma ripeto, perché uno dovrebbe lavorare senza essere pagato? La cosa che mi lascia stupita è questa massa indistinta che è quella che pretende che D’Alema lavori gratis, che la De Filippi lavori gratis, che si compiace che Alessandro Di Battista restituisca i soldi allo stesso modo di quando li restituisce Draghi. Questa è la stessa gente che fa la lagna sui social perché le offrono solo stage non retribuiti. È ora di fare pace con il cervello. Benedetti ragazzi, pensate davvero che un domani, dopo questa campagna per slegare il lavoro dai soldi, vi offriranno uno stage retribuito pagandovi con i soldi restituiti da Draghi e D’Alema?”.

  • Riforme: ecco chi rema contro

    6 Aprile 2021, 8:10 | di Franco Locatelli | 0

    Perché in Italia è tanto difficile fare le riforme e modernizzare il Paese? Perché c’è un blocco conservatore, non solo politico, che ostacola il cambiamento – Sul banco degli imputati, l’illustre giurista Sabino Cassese mette quattro forze, indicate per nome e cognome: ecco quali

    Ma perché in Italia è tanto difficile fare le riforme e modernizzare il Paese? Colpa di Salvini o colpa dei Cinque Stelle e dei loro pregiudizi ideologici? Sì, certamente il conservatorismo di alcune forze politiche – che offrono una lettura surreale dello stato del Paese e che se ne infischiano dell’interesse generale, inseguendo solo il consenso elettorale a breve – conta eccome, ma non è tutto. In realtà, sotto l’avversione al nuovo di alcuni partiti c’è dell’altro: un blocco di interessi che ostacola il cambiamento, come si vide anche in occasione del referendum costituzionale del 2016, salvo ora dover sopportare le litanie tardive e spesso ipocrite di chi lamenta le distorsioni del rapporto tra Stato e Regioni, venute clamorosamente alla luce durante la gestione della pandemia.

    Ma, uscendo dalle denunce generiche e perciò inutili, in un editoriale pubblicato giovedì scorso dal Corriere della Sera, l’illustre giurista e giudice costituzionale emerito Sabino Cassese non è andato tanto per il sottile e ha fatto nomi e cognomi delle forze che bloccano il rinnovamento del Paese. Con tanto di esempi.

    “Elencare i titolari del potere di interdizione, oggi, in Italia, sarebbe lungo”, scrive Cassese, che però non si sottrae all’indicazione delle forze della conservazione. Dello schieramento che blocca il Paese “fanno parte i sindacati, che hanno sviluppato un atteggiamento esclusivamente rivendicazionistico”. E pensare che negli anni Settanta la Cgil di Lama e Trentin, la Cisl di Carniti e la Uil di Benvenuto guidavano la battaglia delle riforme: altri tempi e altri leader.

  • Il gatto al tempo dei Romani

    Nel V secolo a.c., Erodoto ebbe modo di conoscere questo felino e gli diede il nome di Ailouros (“dalla coda mobile”), termine che presto venne sostituito da Gale, vocabolo greco utilizzato originariamente per la donnola, in età tarda si utilizzò invece kàttos da cui gatto.Una possibile origine semitica del vocabolo potrebbe essere attestata da un’opera armena del V sec., in cui si trova catu, a cui fa riscontro il siriano gatô. Cattus sarà all’origine del nome del gatto nella maggior parte delle lingue europee (cat inglese, katz tedesco, kat olandese, gato spagnolo e portoghese, chat francese, kochka russo).

    Nell’antica Roma il gatto selvatico veniva invece detto Felis, da cui derivano i nostri felino, felide, ecc. Solo dal IV sec. d.c., compare il termine Cattus, forse di derivazione africana (nubiano kadis) o celto-germanica (nei cui idiomi viene variamente riprodotta, ad esempio: irlandese cat, antico tedesco chazza, antico scandinavo kötr).Il gatto arrivò a Roma più tardi rispetto alla Grecia anche se nei reperti archeologici degli etruschi sono state ritrovate piccole statue in pietra raffiguranti un gatto. I Romani, come i Greci, erano soliti usare altri carnivori, come la donnola, la faina e la martora, per il controllo dei topi, ma presto si accorsero che i gatti si addomesticavano più facilmente affezionandosi alla casa e ai proprietari, o almeno ad uno di essi.Durante le campagne di conquiste i romani li conobbero, li apprezzarono e li portarono con sé contribuendo alla sua diffusione in tutta Europa.

    Tracce della presenza del gatto sono state rinvenute in tutte le regioni conquistate dai romani.Sia gli Etruschi che i Romani conoscevano il gatto, del quale apprezzavano i servigi sia come animale da lavoro (per debellare i topi) che da compagnia. I Greci invece li ignorarono e per cacciare i topi dalle loro case, si servivano delle donnole e dei colubri.Gli antichi Romani apprezzavano lo spirito indomito e curioso del gatto, tanto che la Dea Libertas, era spesso raffigurata in compagnia di un gatto. Nel I sec. d.c. anche a Roma, come precedentemente in Egitto, furono introdotte leggi severe volte a tutelare i gatti e la loro utilità contro i roditori.Nell’antica Roma i gatti erano sacri a Diana, si credeva che avessero poteri magici, concessi loro dalla Dea. La Dea latina Diana, associata alla luna, alla femminilità e alla magia, proteggeva la gravidanza e intratteneva un rapporto privilegiato con la natura, i boschi, gli animali e le piante.

    Ella, per sedurre il fratello Apollo e concepire da lui un figlio, prese forma di gatto.L’introduzione nell’Impero Romano del culto di Bastet, poi identificata con la Dea Iside, rafforzò nei romani il culto del gatto sacro. In ogni città infatti vi era un tempio dedicato alla Dea, detto Serapeum. Nei templi di Iside i gatti giravano tranquillamente, sia al loro interno che nei suoi giardini, e la gente portava loro offerte di cibo. Ne esistevano pure diverse statue, praticamente tutte distrutte dall’intransigenza cristiana.A Roma l’amore per i gatti si manifestò dal sorgere di diversi nomi propri o addirittura cognomi con etimologia derivante dalla parola “gatto”: Felicula, Felicla (gattina o micina), Cattus, Cattulus (gatto, gattino). Alcuni reparti dell’esercito romano, in particolare i centurioni, sugli scudi recavano come simbolo gatti di colori differenti.Presso i romani, dunque, il gatto godette di un notevole favore, anche se non venne divinizzato come in Egitto.Le matrone si circondarono di gatti di ogni provenienza e colore, e i commercianti dei mari si organizzarono in tal senso, importandone da ogni paese e facendoli incrociare tra loro per ottenere razze più belle e più rare per cui più costose.

    Le matrone mettevano collarini preziosi ai loro mici, come nastri di seta decorati di pasta vitrea e pure di pietre preziose, o, a imitazione degli egizi, gli ponevano degli anelli d’oro tipo piercing sul naso e sulle orecchie. I collarini si intonavano al colore del pelo o più spesso dal colore degli occhi, ritenuto molto importante per la preziosità dell’animale.Oppure, sempre sulla moda egizia che era seguitissima in epoca iulia, gli ponevano una pettorina ricamata e decorata.Con il I secolo d.c. il gatto completò la colonizzazione dell’Europa e continuò la sua collaborazione con l’uomo ricoprendo soprattutto ruoli di utilità come disinfestatore dei granai e delle abitazioni. Il gatto (o micio, che è in fondo il suo nome più antico) non teneva solo lontani i topi, ma pure le blatte, i ragni e perfino gli insetti, perché cacciava qualsiasi essere si muovesse nel suo territorio.

    L’avvento del cristianesimo invece fu per i gatti una vera calamità. Nella follia cristiana di peccato ed espiazione anche gli animali, senza alcun motivo, vennero divisi in benefici e malefici, i gatti rientrarono tra questi ultimi, colpevoli forse di non essere manipolabili come i cani e gli umani, ma soprattutto di essere creature notturne e quindi demoniache. I prelati videro da sempre questo felino come fonte di peccato, accusandolo di portare con sé tutti i malefici possibili. Per di più, il gatto fu molto presto associato alla stregoneria: le streghe amavano trasformarsi in animali, in particolare in gatte; una donna che vivesse con i gatti, ritenuti inviati dal diavolo per aiutarla nei suoi incantesimi, diventava automaticamente una strega.Durante quest’era di oscurantismo, furono presi di mira soprattutto i gatti neri. Papa Gregorio IX (1170 – 1241) dichiarò i gatti neri stirpe di Satana nella sua bolla papale del 1233, con la quale prese avvio un vero e proprio sterminio di queste creature, torturate e arse vive al fine di scacciare il demonio.

  • Il vaccino Covid AstraZeneca è pericoloso?

    La domanda è pienamente giustificata e probabilmente presente nella testa di molti cittadini, visto l’allarmismo che circola e la reazione di diversi stati che hanno sospeso per il momento la somministrazione di questo vaccino.

    Ho parlato di “allarmismo” e non di “allarme”, perché personalmente sono convinto che si tratti di una reazione inopportuna nei confronti di un ritrovato efficace e nell’insieme statisticamente sicuro come gli altri. A mio avviso questa reazione un po’ isterica produce solo effetti deteriori come:

    • Un incremento dannoso della sfiducia nei confronti della profilassi vaccinale
    • Un rallentamento dei piani vaccinali che, ovviamente, prevedono anche il ricorso al vaccino di AstraZeneca

    L’immagine qui sotto, ottenuta per estrapolazione dai dati attuali, mostra come questo vaccino rientri massicciamente nell’attuale pianificazione europea della lotta contro Covid-19. Si capisce che mettere i bastoni tra le ruote di tale programmazione possa comportare complicazioni non da poco, specie dopo le difficoltà logistiche che si sono profilate (e in merito alle quali resto comunque ottimista, anche per le pressioni esercitate da UE sulle case).

    Un lato positivo della faccenda è che le autorità si dimostrano molto sensibili alla materia e non mancano occasione di attivarsi per eseguire tutti i controlli del caso. Devo dire per altri versi che questa attenzione potrebbe essere indotta anche da questioni politiche, ovvero per rassicurare la popolazione e ottenere consensi da essa, piuttosto che critiche per superficialità o irresponsabilità. In effetti, suppongo che le autorità dei vari paesi siano per lo più convinte che il vaccino di AstraZeneca non implichi particolari rischi per la salute.

    Diverso è il discorso per la popolazione che sicuramente ha molti più dubbi, spesso fomentati dai media che esaltano ogni particolare pur di attirare lettori o spettatori. Siccome però la popolazione è quella che vota ed elegge i propri rappresentanti, ecco che i responsabili politici si sentono subito chiamati in causa. Il grafico qui sotto illustra le percentuali di persone interrogate in campioni di cittadinanza che vorrebbero cambiare i vari vaccini indicati.

    Come si vede, AstraZeneca non gode al momento di buone credenziali presso il pubblico. Fa eccezione il Regno Unito dove il vaccino è nato ed è stato sviluppato. A mio modesto avviso, questa è la reazione più saggia nell’ambito delle popolazioni europee. Spicca invece l’emotività della Germania (dove esistono molti novax) e quella dell’Italia. Questo fa specie, perché in Italia l’adesione ai piani vaccinali è da sempre buona e lo scetticismo è minore che in altre nazioni, essendo concentrato più che altro nelle zone trentine.

    In Svizzera (anche qui gli scettici sui vaccini sono ben il 50% della popolazione) la “cattiva reputazione” di quel vaccino ha condotto le autorità a decidere di venderlo. A mio avviso è una decisione errata (come considerato da alcuni virologi svizzeri), ma anche una buona occasione per altri di comprarlo, specie se a prezzo ribassato.

    Mi asterrò dal fare considerazioni dietrologiche o cospirazionistiche non comprovabili sulle eventuali ragioni del discredito gettato su questo prodotto; se ne possono produrre a bizzeffe, il che è come non dire alcunché di utile. Può darsi che tra qualche giorno salteranno fuori delle cosiddette “morti sospette” anche per altri ritrovati vaccinali. Lungi da me l’idea di polemizzare e di citare complotti di un tipo o dell’altro, mi limiterò qui a un paio di semplici considerazioni di buon senso relativamente alla domanda posta. Per semplicità, concentriamoci solo sull’Italia.

    Ogni anno muoiono in Italia per le più disparate cause una quantità di persone che formano un’intera città di grandi dimensioni. Nel 2020 sono deceduti 746.146 soggetti, il che significa 2044 morti al giorno.

    La popolazione italiana attuale ammonta a 60.317.000 milioni di cittadini. Pertanto i morti quotidiani di cui sopra sono 1 su 33.888. Al momento le dosi somminstrate sono 6.610.347. Da ciò risulta che oggi (data di questo post) circa l’11% della popolazione ha ricevuto almeno un’iniezione. Il calcolo non distingue tra prima e seconda dose, ma risulta abbastanza preciso. Infatti, si può verificare che circa il 3,3% della popolazione ha ricevuto entrambe le dosi e circa 7,8% solo la prima iniezione.

    Il grafico delle somministrazioni giornaliere nel tempo, iniziate a fine dicembre 2020, è quello sotto riportato:

    La correlazione evidenziata (impropriamente) dai media tra i decessi e la vaccinazione col prodotto di AstraZeneca risale agli ultimi quattro giorni circa. Si vede che in quei giorni la somminstrazione ammonta a circa 60.000 dosi giornaliere. Una media di circa 120.000 dosi compete invece al prodotto di Pfizer/BioNTech. I vaccinati quotidiani col prodotto Moderna sono una minoranza, circa 10.000. Abbiamo in totale circa 760.000 vaccinati nei quattro giorni del presunto effetto deleterio del vaccino.

    I soggetti vaccinati con Pfizer/BioNTech sono il 63%, quelli con AstraZeneca il 32% e quelli con Moderna il 5%. Abbiamo visto poc’anzi che si contano 2044 morti quotidiane in Italia per motivi di ogni tipo (incluso Covid-19). Su quattro giorni dovrebbero dunque essere 8176. Proviamo a spalmarle sulle percentuali dei vaccinati.

    Questi sono l’11% della popolazione. In questa categoria dovrebbero dunque ricadere 900 morti all’incirca. Il 63%, cioè circa 570 decessi, dovrebbero ricadere nella categoria Pfizer/BioNTech. Il 30%, cioè 270 decessi, dovrebbero competere alla categoria AstraZeneca. Il 5%, cioè 45 decessi, dovrebbero rientrare nel gruppo Moderna.

    Quante persone sono morte dopo aver ricevuto la profilassi vaccinale col prodotto “incriminato” in Italia negli ultimi quattro giorni? Non ho dati a disposizione, ma oggi si parla di 5 persone decedute per cuase “sospette”. In sostanza, se spalmassimo omogeneamente le morti quotidiane d’Italia sull’aliquota di cittadini che hanno ricevuto il vaccino di AstraZeneca dovremmo aspettarci una media di 270 morti consuete al giorno, invece, dopo la scrematura dei media, ne abbiamo 5 sospette.

    Si dirà: si ma il campione di vaccinati non è rappresentativo della popolazione italiana. Questo è vero. Infatti, i decessi totali annuali della nazione riguardano soprattutto persone anziane, mentre i cittadini designati per ricevere il vaccino AstraZeneca non sono persone particolarmente a rischio, come invece nel caso della profilassi con Pfizer/BioNTech. Si veda la grafica qui sotto che illustra il piano vaccinale italiano in quattro fasi temporali:

    La platea di cittadini da vaccinare col prodotto incriminato non è dunque rappresentata da individui particolarmente esposti a rischio sanitario, perché non sono coinvolte persone anziane. In effetti, il vaccino non era stato testato fino in fondo nei soggetti con più di 55 anni, il che ha indotto alcuni decisori politici a non impiegarlo sugli anziani. Nessuno esclude però che tra questi soggetti siano presenti ipertesi, cardiopatici, obesi, diabetici o altri soggetti con comorbilità varie. Non è però questo il punto della questione.

    Il fatto critico è invece che su questo campione è più semplice effettuare controlli. Ebbene, due autopsie sono già state effettuate ed è stato già affermato (anche se la documentazione non è ancora disponibile) dai patologi che non è stato riscontrato alcun effetto dannoso sull’organismo riconducibile al vaccino AstraZeneca. L’Aifa ha da parte sua escluso un nesso di causalità tra le morti in oggetto e quella specifica vaccinazione.

    Si aspettano gli esiti, che arriveranno a breve, delle altre autopsie. Scommetterei sul risultato. Volendo proprio fare i pessimisti, abbiamo comunque a che fare alla data di oggi con 3 casi residui, cosiddetti “sospetti”, contro una media di 270 attesi.

    Dobbiamo considerare che l’incidenza di decessi è decisamente ridotta nel campione e che quindi presenta inevitabilmente oscillazioni non lievi nel corso del tempo. Potrebbe quindi succedere che nei prossimi giorni si annoverino ben più di 5 decessi tra i vaccinati con Astrazeneca. Tuttavia, per quanto i morti statistici possano variare nel corso dell’anno, per quanto le fasce d’età facciano una differenza, per quanto i calcoli illustrati siano grossolani, mi sembra che la disparità negli ordini di grandezza parli chiaro:

    3 casi sospetti riscontrati in un arco temporale di quattro giorni contro 270 totali attesi!

    Mi sembra che questo dato porti a ritenere davvero irrazionale un timore che quel vaccino sia all’origine di eventi tromboemolitici, di infarti o di quant’altro possa minare la sopravvivenza di un vaccinato.

    Gli effettivi problemi con i vaccini esistono, nulla è sicuro al 100% a questo mondo, nemmeno in ambito farmacologico. Tuttavia, i casi problematici con i vaccini sono rarissimi nell’esperienza medica. Essi vanno solitamente ricondotti alla reazione di pazienti iperallergici, alla contaminazione del preparato da parte di batteri o alla presenza accidentale di piccole particelle di vetro nella dose. Gli esperti escludono che sia questo il caso (in effetti certi batteri possono provocare la formazione di coaguli disseminati).

    Ricordiamo poi che il rischio di un vaccino va paragonato al rischio che compete a una mancata vaccinazione, tanto a livello individuale quanto a quello collettivo. Il primo rischio è di interi ordini di grandezza inferiore al secondo.

    Nel Regno Unito sono state somminstrati 17 milioni di dosi col vaccino AstraZeneca, anche agli over 55, e non è stato segnalato alcun problema riconducibile al vaccino che fosse inerente alla formazione di coaguli, al tromboembolismo polmonare, alla trombosi venosa profonda, alla trombocitopenia e nemmeno a patologie di altra natura.

    A livello europeo abbiamo 30 casi di eventi trombotici su 5 milioni di dosi iniettate. Un numero minimo e perfettamente in sintonia con la casistica dei trial eseguiti dalla casa farmaceutica. Naturalmente, nemmeno questi casi riscontrati nei test o, poi, a livello di profilassi europea implicano che sia stato il vaccino a causare il problema trombotico. Sono evenienze che fanno parte della statistica.

    Questo vuol dire anche che nel corso delle prossime settimane e dei prossimi mesi dobbiamo aspettarci altri morti che seguono a una vaccinazione o all’altra. Si tratta di una circostanza data dal gioco del caso, cioè dall’immancabile presenza di decessi che si distribuiscono nel tempo, indipendentemente dalla pratica vaccinale. Alcuni di questi eventi compaiono a ridosso dell’iniezione. Un fatto normale.


    Insomma, a che si deve tutto questo can-can su AstraZeneca? Posto che il principio di precauzione impone sempre i dovuti controlli e che questi debbano essere effettuati a dovere e resi pubblici, io farò un’affermazione che potrà apparire antipatica a taluni, ma di cui sono convinto; e sono anche sicuro di essere in buona compagnia di diversi studiosi. Il fatto è che molte persone che sollevano polveroni inutili, a digiuno di cognizioni scientifiche, ancora non accettano quanto segue:

    Correlazione non significa causalità

    La gente muore tutti i giorni e alcune persone muoiono dopo essersi vaccinate. Ma questo non vuol dire che quelle persone siano decedute per colpa del vaccino. L’unica realtà sicura è che siano morte dopo il vaccino, a distanza di un intervallo di tempo più o meno lungo. Punto. “Dopo” non vuol dire “a seguito di”.

    La formazione di coaguli nel sangue che possono anche rivelarsi letali è purtroppo una realtà diffusa, ancorché per fortuna minoritaria. Non fa specie che essa possa presentarsi anche in un certo numero di vaccinati. Quel numero, al momento, si è però dimostrato persino minore delle attese.

    Il grafico qui sopra è un esempio classico del discorso qui condotto. Una linea mostra l’andamento negli anni del numero di apparizioni di Nicolas Cage nei film, l’altra l’andamento negli stessi anni del numero di annegati in piscina. I due andamenti hanno una buona correlazione, ma questo non significa affatto che un fenomeno sia all’origine dell’altro. A meno di non avere qualche rotella fuori posto.

    Usando la correlazione possiamo mettere a confronto le più disparate dinamiche nei più disparati contesti e con le più disparate intenzioni. Si tratta di un tentativo spesso utilizzato anche da chi “gioca sporco“, ovvero da chi vuole dimostrare una tesi senza avere realmente argomenti forti a suo favore. Ma questo non implica ancora che stiamo costruendo una teoria atta a prevedere qualcosa, come per esempio un incremento di decessi legati al ricorso al vaccino AstraZeneca.

    Quello che possiamo invece prevedere con una certa verosimilgianza – data la pianificazione e i contratti in essere – è che se i timori sul vaccino AstraZeneca sono infondati (come ritengo), ebbene l’impedimento prolungato al suo uso causerà una serie di mancate profilassi e quindi di morti che, invece, sono evitabili.

    Che si aspettino i dovuti controlli, ma che non si perda troppo tempo sotto l’influsso dell’emotività!


    P.S.

    Chiarisco un punto a posteriori. Un utente ha fatto un commento errato, ma la confusione (statistica) mi ha fatto venire in mente che il mio post potrebbe essere equivocato. Vorrei quindi prevenire la circostanza. Forse, per maggior chiarezza era il caso di specificarlo prima.

    Il numero di decessi segnalati dai media dopo verifica autoptica è di 3 casi di morti “sospette” contro 270 attese nel gruppo AstraZeneca, con i dati aggiornati alla data del post. Naturalmente, le statistiche su lassi di tempo brevi e con minoranze estreme possono essere ballerine. Va però tenuto in considerazione un altro aspetto.

    A prescindere dalle oscillazioni che pure contano, 3 casi su 270 possono sembrare perfino troppo pochi. Perché è così? Il fatto è che i media cercano di segnalare ad effetto casi che “potrebbero” essere ricondotti al vaccino per una ragione o l’altra (coagulopatia, infarto, reazione anafilattica, infiammazione acuta, ecc). Pertanto, escludono tutte le morti chiaramente indipendenti: morti violente, malattie gravi pregresse, intossicazioni, ecc. Si capisce che con questa scrematura i morti si riducono.

    Bisogna dunque ricordare che stiamo confrontando 270 morti totali attese e consuete che avvengono per svariate cause nel gruppo di AstraZeneca con 3 morti ritenute “sospette”, anch’esse a eziologia indefinita. La coagulopatia è solo una causa indicata, anche se al momento pare la più esaltata. I trombi sono peraltro una causa di morte a incidenza non irrilevante anche tra persone sane e non anziane.

    Ora, su 270 morti totali consuete 3 non hanno ancora una causa che con certezza possa essere ritenuta indipendente dal vaccino. A me sembra proprio che si tratti di un fattore che non dovrebbe in alcun caso allarmare. Abbiamo insomma 1% di casi ritenuti “sospetti” solo perché non sono morti violente, da intossicazione, ecc.

    Spero sia chiaro.

  • Anonimi

    L’educazione prima di tutto vuole che tra interlocutori ci si conosca dichiarando almeno le proprie generalità (omissis)…Gli anonimi sia che lancino sassi o che scrivano lettere, prima di essere criminali o imbecilli, sono sempre cafoni senza attenuanti. Non c’è bisogno di nascondersi o di non firmare se si è convinti delle proprie ragioni; scoprire il proprio volto e guardarsi negli occhi sono le prime condizioni di un dialogo e di un confronto anche serrato; fare altrimenti è comunque disonorevole pur nell’eventualità di avere tutte le ragioni del mondo. Troppo comodo accusare senza qualificarsi; non è solo cattiva educazione è oltretutto carenza di intelligenza e di strategia, è infatti una mossa perdente.

    Riccardo Ceccarelli

    A piedi scalzi pag. 27