SCIENZEANTONIO SGOBBA / IMMAGINE DA FACEBOOK: CARTELLO DI UNA MANIFESTAZIONE NO-VAX, IL 20 GIUGNO 2020 A FIRENZE. 11.9.2020
Perché non basta essere esperti per essere considerati affidabili?
Una riflessione filosofica sulla sfiducia nella scienza.
Antonio Sgobba è giornalista. Il suo ultimo libro è “La società della fiducia. Da Platone a WhatsApp” edito da Il Saggiatore. È stato il responsabile della sezione culturale di IL, ha collaborato con La lettura, Wired, Pagina 99 e altre testate. Dal 2016 lavora in Rai.
Da più parti si ripete che in questo momento abbiamo un diffuso problema di fiducia; si parla in particolare di mancanza di fiducia negli esperti. Non è una novità, la fiducia è sempre stata fragile; è in crisi più o meno da quando esiste. La diffidenza nei confronti degli esperti è antica come la democrazia, e in fondo non c’è mai stata un’età dell’oro in cui i competenti regnassero incontrastati e amati dal popolo. Come in tutte le relazioni ci sono stati alti e bassi, questo è sicuramente uno dei momenti bassi, né il primo né l’ultimo della sua storia. Quello che dovrebbero chiedersi gli esperti non è come riscostruire la fiducia distrutta ma come ritrovare l’affidabilità perduta.
(…)
“Vorrei proporre alla benevola considerazione del lettore una teoria che potrà forse sembrare paradossale e sovversiva”. Cominciava con queste parole il saggio di Bertrand Russell Sul valore dello scetticismo, scritto nel 1928, e poi raccolto nei suoi Saggi scettici. “La teoria è questa”, continua Russell, “che sarebbe opportuno non prestar fede a una proposizione fino a quando non ci sia un fondato motivo per supporla vera”. Bisogna riconoscere che è una bella idea, un’espressione moderata ma impegnativa di scetticismo; il mondo sarebbe davvero migliore se tutti facessimo così. “Se questa opinione divenisse comune, ne risulterebbero completamente trasformati la nostra vita sociale e il nostro sistema politico” riconosceva Russell.
Questa teoria ci può guidare anche quando ci troviamo nella situazione in cui dobbiamo giudicare degli esperti in disaccordo tra loro. Il filosofo inglese scrive proprio che lo scetticismo che lui auspica si riduce a queste tre proposizioni:
1) che quando gli esperti concordino nell’affermare una cosa, l’opinione opposta non può più essere ritenuta certa;
2) che quando essi non sono d’accordo, nessuna opzione può essere considerata certa dai non esperti;
3) che quando concordemente gli esperti affermano che non esiste alcun motivo sufficiente per un’opinione positiva, l’uomo comune farebbe bene a sospendere il suo giudizio.
Tutto qui. “Queste proposizioni sembrano forse semplicissime: eppure una volta accettate, rivoluzionerebbero completamente la vita umana”, scriveva Russell.
Quasi un secolo dopo possiamo dire che la rivoluzione scettica non è mai arrivata. L’autore era consapevole delle difficoltà, sapeva che “le opinioni sostenute con passione sono sempre quelle per le quali non esiste alcuna buona giustificazione”. Una frase forse troppo assoluta per uno scettico – sempre? –, ma se guardiamo ai dibattiti pubblici con cui abbiamo a che fare è un’affermazione vera in molti casi.
Le proposizioni di Russell si basavano su un’assunzione implicita: gli esperti sono autorità epistemiche. È proprio questa l’idea che oggi ci sembra più in discussione. I filosofi la definiscono così:
L’autorità epistemica è la capacità dell’esperto di influire su altri individui “imponendo” loro l’adozione di una credenza sulla base della superiorità epistemica.
C’è qui una differenza fondamentale rispetto a un altro tipo di autorità, la cosiddetta “autorità pratica”, quella in grado di imporre l’esecuzione di un’azione; sul piano epistemico le cose stanno diversamente, non si può imporre a qualcun altro di credere qualcosa. Lo fa notare il filosofo Michel Croce in un saggio del 2020 (Di chi posso fidarmi, Il Mulino): “In generale, il termine ‘autorità epistemica’ non gode di buona fama, per via del valore che attribuiamo all’ideale dell’autonomia del soggetto epistemico, che apparentemente è in contrasto con la nozione e il ruolo dell’autorità epistemica”.
Quello che è difficile da accettare è l’idea stessa che esistano individui autorizzati a dirci cosa credere. Per questo i filosofi considerano l’“autorità epistemica” esclusivamente la proprietà tipica di quanti sono esperti in un determinato ambito. Questa posizione è tacitamente presente anche in gran parte del dibattito pubblico.
Può essere invece utile, per fare un passo avanti nel dibattito, distinguere i due concetti. Pensare a un’autorità epistemica come qualcosa di diverso da un esperto. Non è così astratto come sembra. Dobbiamo la distinzione alla filosofa americana Linda Zagzebski. Un criterio per distinguere esperti e autorità epistemiche sta nel classificare i soggetti in base al ruolo che svolgono all’interno della comunità e sono tre gli aspetti rilevanti: l’affidabilità dei soggetti epistemici, la loro relazione con i rispettivi interlocutori, le loro abilità intellettuali. Entrambi i soggetti, l’esperto e l’autorità epistemica, sono affidabili, diverso invece è il rapporto con gli interlocutori inesperti: “La nozione di esperto richiede che il soggetto sia epistemicamente superiore alla maggioranza degli individui di un determinato ambito, mentre la nozione di autorità epistemica richiede semplicemente che questi sia superiore all’interlocutore”; l’esperto può quindi avere una migliore comprensione del settore in questione, mentre l’autorità epistemica è in una relazione personale migliore con il soggetto che ne sa di meno.
La gente non separa la scienza dalle sue implicazioni morali, chi non crede al cambiamento climatico non lo fa perché contesta l’evidenza, ma perché quelle tesi sono in conflitto con i propri valori.
L’elemento della relazione con l’interlocutore è un requisito necessario per l’autorità epistemica, non lo è per l’esperto: un esperto può essere in grado di contribuire al progresso della sua disciplina indipendentemente dalle relazioni che intrattiene con particolari interlocutori. Un’autorità epistemica e un esperto hanno anche diverse virtù intellettuali: le conoscenze dell’autorità si rivolgono a chi non è un addetto ai lavori, le qualità dell’esperto sono invece orientate alla ricerca.
Gli scienziati, quindi, per essere creduti devono fare un passo in più, devono ricordarsi chi sono. La ricerca scientifica è sinonimo di patto, comunità, consenso, ma spesso gli scienziati si limitano a riaffermare la loro neutralità, a insistere sul fatto che la scienza non ha un colore politico, sociale, economico o morale, dicendo cose come: “Alla forza di gravità non importa che tu sia di destra o di sinistra”, “Le piogge acide cadono sui ricchi e sui poveri”, “Le emissioni radioattive ti colpiscono sia prima sia dopo le elezioni”.
Tutto vero, ma non basta. Non è solo su queste basi che possiamo fidarci di loro: che sia corretto o no, l’opinione pubblica mette in relazione la scienza con le sue implicazioni; una distinzione netta tra fatti e valori non funziona. La gente non separa la scienza dalle sue implicazioni morali, chi non crede al cambiamento climatico non lo fa perché contesta l’evidenza, ma perché quelle tesi sono in conflitto con i propri valori, politici o religiosi, o con i propri interessi economici, il proprio stile di vita.
Gli scienziati di solito considerano queste critiche fallaci: ad hominem, quindi illegittime. “Ma se prendiamo sul serio la conclusione che la scienza è un processo sociale consensuale, allora chi sono gli scienziati è una questione rilevante” ricorda Naomi Oreskes nel suo ultimo saggio, Why Trust Science? Una delle tesi fondamentali del lavoro dell’autrice americana, biologa di formazione, è che l’idea della scienza come un’attività neutrale, priva di valori, sia un mito: dobbiamo ricordare che l’utilità, economica o di altro tipo, è stata a lungo una giustificazione per sostenere la scienza, dal punto di vista finanziario e culturale. La scienza non è un’impresa neutrale e non lo sono gli scienziati come individui. “Nessuno può essere davvero neutrale, quando gli scienziati dicono di esserlo, dicono il falso perché affermano l’impossibile. A meno che non li si voglia considerare ingenui o degli idiot savants, dovremmo considerarli disonesti” scrive Oreskes.
I valori di molti scienziati possono (o dovrebbero) essere condivisibili da un grande pubblico. Per gli scienziati la riconquista della fiducia passa dal superamento del mito dell’oggettività.
Onestà, apertura, trasparenza sono valori propri della ricerca scientifica. “Come possono gli scienziati essere onesti e allo stesso tempo negare di avere dei valori?” si chiede. La riluttanza degli scienziati a discutere dei propri valori potrebbe dare l’impressione che quei valori siano problematici e che quindi debbano essere nascosti, oppure che non ci sia nessun valore in cui credono. Voi vi fidereste di una persona che non ha valori? Credereste a una persona che non crede in niente? Direi proprio di no, avremmo a che fare con un sociopatico. Se invece credessimo che quella persona condivide almeno qualcuno dei tuoi valori, non per forza tutti, potremmo essere più disposti a starla a sentire. La neutralità rispetto ai valori può essere difesa da un punto di vista epistemologico, ma nella pratica non funziona: senza valori non c’è comunicazione e non si possono costruire legami di fiducia.
Invece è successo il contrario. I valori di molti scienziati possono (o dovrebbero) essere condivisibili da un grande pubblico. Anche per gli scienziati, come per i giornalisti, la riconquista della fiducia passa dal superamento del mito dell’oggettività. “Anche se siamo in disaccordo” conclude Oreskes “su molte questioni politiche, i nostri valori possono coincidere, almeno in parte. Chiarire i punti su cui possiamo essere d’accordo, e spiegare in che modo sono legati al lavoro scientifico, può aiutarci a superare la sfiducia che spesso sembra prevalere”.
Estratto da La società della fiducia. Da Platone a WhatsApp, di Antonio Sgobba (il Saggiatore).