Anche se l’eutanasia non è affatto buona come si pretende, rimane, tutto intero, il problema di evitare la sofferenza superflua in dipartita.
Fino a che punto è lecito che un individuo sopporti livelli intollerabili di sofferenza.
Quando a ciascuno è data la possibilità, se è data, di finire di soffrire?
Sul final campo meglio evitare di sguazzare nell’ovvio.
Anche nella sofferenza l’uguaglianza non esiste. Il gradiente di sopportazione della sofferenza è estremamente differenziato. Vi sono persone che non sopportano neanche l’idea di soffrire. Vi sono persone che vivono male nella sofferenza. Vi sono persone che nella sofferenza esprimono il meglio di sé. Vi sono persone che amano soffrire. Non c’è scandalo. Ciascuno ha diritto di vivere al suo livello di sopportazione.
Chi può sapere veramente se quanto e come si soffre nella dipartita.
Ciascuno ha diritto di pensare ciò che vuole della vita e della morte, quando inizia la vita e quando comincia la morte, cosa c’è prima della vita e cosa dopo della morte.
Sul fatal caso, ciascuno ha diritto di tenersi i propri pensieri le proprie idee e le proprie credenze.
Solo con la forza di tali premesse le parole acquistano senso. Anziché parlare di buona morte meglio parlare dunque di morte indolore, di analgotanasia, posto ma non assodato che il dolore o la sua assenza al momento della dipartita siano comparabili con quelli esperiti nella restante vita.
Se l’eutanasia è aberrazione meglio optare per il suicidio assistito a condizione che non sia lo Stato a comminare la morte del suicida assistito.
La differenza tra suicidio e suicidio assistito è abissale. Con il suicidio ciascuno può di propria mano infliggersi la morte indipendentemente dalle condizioni di salute.
Ogni condanna di tal gesto è inutile e presuntuosa, in ogni caso tardiva. Si può affrontare il problema del suicidio in chiave pedagogica e sociale, ma qualsiasi singulto moralistico è fuori luogo. Dividersi tra stoici, favorevoli, ed epicurei, contrari, ha scarso senso.
Il suicidio assistito invece riguarda quei casi nei quali, vista l’intollerabilità della sofferenza, assodata l’assenza di speranza, viene prestato suicidio aiuto senza passare per gli spesso tristi sentieri del suicidio.
Il suicidio assistito può avvenire in due forme. La prima prevede che il medesimo suicida compia l’atto finale somministrandosi un farmaco o ordinando la fine dell’accanimento terapeutico.
La seconda, laddove l’atto autonomo risulti impossibile, prevede che altri somministrino il farmaco o ordinino la fine dell’accanimento terapeutico in vece del suicida.
In quest’ultimo caso: chi deve prestare materialmente aiuto? Chi deve somministrare il farmaco o ordinare la fine dell’accanimento terapeutico? Chi è giusto che si assuma questa responsabilità? A chi deve essere richiesta responsabilità così delicata? A un ente estraneo e terzo o a una persona di prossimità? A qualcuno a cui freddamente viene demandata una tecnicalità o a qualcun altro in grado di compiere un gesto caldo e amorevole.
Non si dovrebbero nutrire dubbi in proposito, ma coltivare certezze. La responsabilità e l’atto del suicidio assistito dovrebbero tangere esclusivamente le persone di maggiore prossimità. Coniugi, figli, parenti, amici indicati preventivamente in testamento biologico e preventivamente d’accordo. Solo in assenza di persone di prossimità andrebbe ricercato un aiuto terzo, di volontari, ma mai dello Stato per mano di suoi funzionari.
Lo Stato, le strutture mediche, devono solo predisporre che le cose avvengano in modo chiaro e congruo onde evitare confusione e abusi.
Così tra l’altro si ovvierebbe ai casi, si presume numerosi, di obiezione di coscienza.
Lo Stato deve essere sottratto con ogni forza al ruolo di comminatore della morte.
Lo Stato può e deve permettere che il suicidio assistito avvenga. Lo Stato può e deve regolarlo, senza mai comminarlo in proprio.
Il suicidio assistito è già praticato ma andrebbe diffuso universalmente sottraendolo al privilegio, agli abusi e al lucro.